Si conclude un anno orribile per le sorti della pace mondiale, messa potentemente in discussione dall’invasione russa dell’Ucraina e da tutte le conseguenze che questa tremenda guerra sta determinando nei già difficili equilibri mondiali.
Al di là della indiscutibile responsabilità della Russia putiniana per aver invaso un paese sovrano, restano aperti molti interrogativi sulle cause profonde di un conflitto che sta scivolando drammaticamente verso un possibile confronto nucleare. Mi chiedo, senza alcuna compiacenza verso chi ha cominciato la guerra, cosa accadrebbe se mutatis mutandis le forze antagoniste della Nato, sulla base di alleanze con Paesi del continente sudamericano, intendessero piazzare basi militari in quei territori. Ciò sarebbe consentito? Non credo, perché varrebbe ancora quella dottrina Monroe che recita che ogni evento accada in ogni latitudine del continente americano è un affare di pertinenza del governo Usa, figuriamoci l’installazione di basi militari potenzialmente ostili.
Non penso e mi auguro non esista un pericolo reale che ciò possa accadere, ma invece relativamente alla competizione economica questa sì, è una prospettiva di scontro a tutto campo tra le superpotenze. In primo luogo tra Cina e Usa, ad esempio con lo sviluppo della strategia del gigante asiatico in Sudamerica Belt and Road Initiative (BRI) come la realizzazione dell’imponente porto commerciale di Chancay in Perù. Mentre si muove in direzione opposta la riaffermazione dell’ombrello protettivo degli Usa su Taiwan e su tutte le isole indocinesi fino all’Oceania, in nome della politica di “contenimento” in aperta sfida a Pechino. Per non dimenticare le altre numerose e non meno sanguinarie guerre che durano da tempo e sulle quali raramente si accendono i riflettori dell’informazione pubblica, mentre i regimi teocratici in Iran e Afghanistan sono attraversati da tumultuose proteste per l’insopportabile repressione della libertà e della dignità delle donne, oltre che per le difficili condizioni economiche e di vita delle popolazioni.
Insomma un mondo sempre più attraversato da tensioni e mutamenti imprevedibili di scenari che non danno tregua e che invece richiederebbero ben altro ruolo di quegli organismi internazionali, deputati alla risoluzione negoziale dei conflitti, in primis l’Onu oggi sostanzialmente fuori gioco.
Appare ancor più grave in questa situazione la pressoché totale assenza di una sinistra europea in grado di svolgere un ruolo politico in direzione della pace in Ucraina con un’iniziativa negoziale. Regna il silenzio assoluto, tranne l’autorevole ma isolata e sofferta voce del Papa, mentre tuonano i cannoni, mentre il popolo ucraino patisce infinite sofferenze, non si accenna nemmeno a pronunciare la parola tregua.
In tempi non troppo lontani il nostro Paese svolgeva un ruolo politico e diplomatico in particolare nel Mediterraneo di indubbio rilievo, mentre il Pci, nonostante il nome, godeva di uno straordinario prestigio nel movimento dei Paesi non allineati e nella costruzione dell’Europa sociale. L’inesistenza di una sinistra in grado di incidere nei processi politici è ormai questione annosa nel nostro Paese, in cui la sola parola non viene nemmeno più pronunciata, quasi fosse una bestemmia: prima fu abiurato il termine comunismo all’indomani del crollo del blocco sovietico, talché tutti corsero a cambiare la carta d’identità, seguì l’abbandono del socialismo, parente prossimo del primo, anche se concetto molto più ampio e articolato, dopodiché pure la pacifica socialdemocrazia fu mandata in soffitta, perché ancora rievocante in qualche modo quell’odore troppo popolare che proveniva dalle vecchie cucine del marxismo. Si cominciò a parlare di liberal-socialismo ma sempre più somigliante al “liberal” di radice anglosassone, poi di riformismo democratico, infine solo di democrazia che de minimis, è la base indispensabile per non scivolare nell’autoritarismo.
Ora dopo tante sonore sconfitte, l’ultima bruciante di settembre si può definire storica senza tema di smentite, si è riscoperto il “progressismo”, parola sinuosa e tendenzialmente accattivante, per non spaventare troppo i benpensanti della borghesia illuminata dei salotti nostrani. Si può intendere all’inglese “in progress” come avanzamento dinamico, oppure come nella bandiera brasiliana “ordem e progresso”. Trattasi di un’idea politica certo non di destra, retta sostanzialmente da una visione illuministica e liberale, in cui manca totalmente la nozione di conflitto come lotta per il miglioramento delle condizioni materiali di vita delle classi sociali meno abbienti, in opposizione ai detentori dei capitali e delle ricchezze.
Questo rifiuto della politica come dialettica e conflitto, per quanto pacifico e democratico, degli interessi contrapposti che esistono e non sono eliminabili nelle società capitalistiche di mercato (oggi per giunta globalizzato), rende monco e inefficace qualsiasi progetto di ricostituzione di una forza che voglia seriamente cambiare l’ordine di cose esistente, in nome di una maggiore giustizia sociale. Cosicché le parole che qualificano una visione alternativa che dovrebbe essere la ragione dell’esistenza di una sinistra vengono sistematicamente silenziate. Restiamo afoni mentre intorno a noi il mondo è scosso dai più gravi conflitti dopo la fine dell’ultima guerra mondiale che, non dimentichiamolo, fu anche atomica.
Sinistra, che fare? è il titolo escatologico ed evocativo che il Manifesto in rete ha scelto per un confronto su questi drammatici dilemmi, il prossimo 9 gennaio a Bologna, alle ore 18.00, presso la sala Tassinari del palazzo del Comune, con gli interventi di Aldo Tortorella, Luigi De Magistris, Nadia Urbinati e Pier Giorgio Ardeni. L’Evento sarà trasmesso in streaming su https://www.facebook.com/IlManifestoBologna/. Intanto che finisce quest’anno tremendo, ci auguriamo che il nuovo sia portatore di pace.
Questo articolo è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 29 dicembre 2021