Alzi la mano chi di voi, ancorché sappia tutto sul console onorario, sappia viceversa esattamente chi sia un ispettore archivistico onorario e chi mai si sia per esempio, imbattuto in un ispettore archivistico accompagnato nelle sue scorribande esplorative, da un serbo corpulento e ingrugnito tanto da farci pensare ad una rivisitazione di Zampano, visto che in questo specifico caso, ci stiamo aggirando per le contrade di Romagna. Per inciso, questa figura di super esperto nella valutazione dell’acquisizione di fondi privati in interesse pubblico di cui le Soprintendenze ministeriali, possono avvalersi nel loro grande lavoro ricognitivo, è regolamentata da una legge datata addirittura 1907, poi rivista una sola volta nel ’63, prima dell’ultima ridefinizione nei primi anni Duemila.
In realtà vi sembrerà tutto molto familiare dopo pochissime pagine di questo Le piste di carta, firmato da Mauro Maggiorani, per i tipi delle edizioni Il Margine, che di carte se ne intende non poco e che di questi ispettori deve averne conosciuto qualcuno, stante le sue competenze e professionalità storico-archivistiche.
Questo perché il libro splendidamente funziona, accennando a tante faccende senza calcare la mano, tratteggiando senza eccedere e sostituirsi allo sguardo del lettore, avvalendosi di quel particolare occhio cinematografico che ci guida ad esempio nel dormiveglia, quando si è immersi in un sogno ad occhi aperti in cui tutto è realistico, ma una vera plausibilità degli eventi sfugge nei contorni. La provincia come grande categoria dello spirito e come metafora della condizione umana è uno dei temi dominanti del libro, oltre naturalmente al peso del passato. Passato che può assumere i contorni mitico letterari dei misteri relativi alla tenuta Torlonia e al delitto Ruggero Pascoli, così come quelli dell’occupazione nazifascista e della complicità e connivenza o ambiguo distanziamento via via fino alla aperta ribellione da parte della popolazione, in questo caso romagnola.
Un’altra ambiguità che il libro ci fa ben comprendere è infatti proprio questa. Il passato sia in senso biografico che storico, è proprio una grossa responsabilità, un lascito che sta a noi gestire in un senso o nell’altro e i cui effetti riverberano nel tempo, ben oltre la stesura di un testo, il brivido della scoperta, il revisionismo ideologico, il delinearsi di nuove categorizzazioni, l’attribuire colpe o impartire assoluzioni.
Un noir questo, certo, ma soprattutto una rivelazione che si snoda in maniera multipla nel corso del libro e dura da digerire per chi sceglie la Storia come strumento di conoscenza, possibilità di visione, forma di approccio alla complessità: ci sono verità scomode che ci isolano dagli altri, consapevolezze che possono far male, eventi in grado di condizionarci a lungo, scelte ed eventi dal passato che ci determinano forse per sempre e molto più di quanto possiamo immaginare. Insomma, non esiste happy ending garantito.
Un cocktail ben riuscito di passione e disincanto, di intenzione e di puro caso fortuito, è la cifra distintiva di una storia nella Storia, o meglio, diverse storie i cui fili si intrecciano e fanno contatto e scintille con quelli biografici sfilacciati e scoperti del nostro protagonista, un antieroe stropicciato come si conviene, immerso in paesaggi spesso ameni, ma abitati da comunità insidiose che traboccano segreti inconfessati… potremmo pensare ad una rivisitazione di certe atmosfere alla Simenon, dimenticando però i gialli del grande belga che hanno al centro l’ispettore Maigret. Miro Casadei, questo il nome destino e amuleto insieme del nostro antieroe per la verità molto meno pacioso del detective parigino, ricordando di più certi investigatori di scuola americana. Investigatori dal cicchetto facile, le paturnie pre e post sbronza, l’attitudine quasi metereopaticamente ora febbrile ora accidiosa, una fisiologica spinta ribellista nei confronti delle regole, delle formalità, una natura franca e sbrigativa che non teme gerarchie e confronti di ordine sociale, ma bada al sodo, ad una affermazione delle ragioni della verità qualunque essa possa essere più o meno suppostamente, intesa come forma palliativa di una giustizia sempre postuma, in affanno e mai risarcitiva.
Perché il punto è proprio questo: Miro Casadei smagato quanto basta, ma tutt’altro che cinico, non è in realtà interessato astrattamente a fare bene il suo lavoro, di controllore archivista, in pratica, anche se certamente esso è materiale costituente di una intera esistenza, argine imprescindibile per metodo e meticolosità, ad una deriva amara dei sentimenti. Un’ansia di riscatto che un tempo è stata impegno politico e militanza intellettuale lo tiene costantemente sul pezzo e in pista, un po’ metaforicamente come i cani da tartufo che costruiscono una scena- bozzetto cinematografica da cui prendono le mosse, senza spoilerare troppo, molte delle complesse vicende del libro. Vicende che ci rimandano alla difficile nascita della nostra democrazia, alle divisioni che hanno spaccato villaggi e famiglie trasversalmente insanguinando città e campagne. In questa vocazione alla ricerca scomoda, Casadei è in linea con gli autori americani, a loro volta duri come gli stessi personaggi hard boiled: non per caso, come sappiamo, tutti inseriti nelle liste nere maccartiste. In realtà lui deve vedersela con personaggi a confronto tromboni e grotteschi: cosa che naturalmente non preclude loro, forme di meschinità e ferocia. Un riscatto peraltro invece non sembra possibile dal fallimento del proprio matrimonio e dallo spinoso rapporto con una figlia enigmaticamente data per inconoscibile: una sorta di dolore cocente e irreparabile generato proprio dal venir meno di quell’intelligere, solo balsamo contro il tempus fugit incalzante e senza misericordia. Talvolta non sembrano esistere spiegazioni per quei rapporti che prendono la consistenza di una maionese impazzita e il nostro protagonista sembra ormai avergliela data su, come pedestremente si dice, a provare di dare una piega diversa alla propria vita relazionale o a cercare motivazioni per ciò che è andato storto.
E di nuovo, ci rendiamo conto che mentre leggiamo, stiamo scorrendo scene, come quella in cui il nostro ispettore arriva in ritardo all’aeroporto e si cerca disperatamente intorno in cerca della “figlia momentaneamente rimossa “o come quella in cui appare, è il caso di dire, la bionda fatale che non può mancare in ogni noir che si rispetti, anche se qui è quasi rovesciata in una sorta di figura di fata buona, potenzialmente salvifica.
Miro Casadei che pensa come la gran parte degli uomini, di essere inadatto a coltivare relazioni troppo significative con donne, perché le teme, le ammira, le vede fuori portata o, in certi casi, le percepisce come seccanti e invadenti; tuttavia, sa fare anche il baciamano alla bisogna e il fatto che ci muoviamo comunque in territorio politicamente corretto, lo evinciamo dal fatto che figure femminili realmente inquietanti nel libro non ve ne sono. La loro funzione nel corso della narrazione che interseca la famiglia Pascoli, si proprio quella del poeta genius loci di Romagna con la famiglia d’invenzione Rosati, è casomai di provvidenziali guide in direzione della verità: non avendo mai gestito il potere in prima persona si direbbe che il loro ruolo sia di vestali testimoni. Viceversa, in qualche modo bizzarro funziona il sodalizio buddy buddy, con Dima, il serbo di cui si diceva, un po’ gigante buono, un po’ genio della lampada per la capacità di scovare reperti-oggetti del desiderio, perché sappiamo bene esistere anche un certo feticismo del documento: memorabile per esempio, dopo tanti ritrovamenti e colpi di teatro, la scena appunto, in cui i due vanno a bere sulla costa adriatica e spartiscono quella che supponiamo essere una sbronza colossale, in religioso silenzio. Di nuovo la forza filmica del romanzo o racconto lungo, che viene in qualche modo assimilato ad una pièce, dal momento che, al fondo troviamo oltre i crediti e ringraziamenti, tanti, sentiti e generosi, anche il nutrito elenco dei personaggi che lo popolano con tanto di ruolo e relazione di parentela con gli altri, cattura soprattutto proprio in funzione di questa Romagna state of mind. Una Romagna così tipica e identificabile, eppure fuori dai cliché conformisti ma anche tutta lì, con la sua aria assolutamente vintage, indolente, conservatrice in barba alla verve intraprendente- organizzativa che le si attribuisce. È una Romagna crepuscolare, in cui la stagione declina, l’umidità entra nelle ossa con gli spigoli e le curve del paesaggio-personaggio che, come l’autore avverte, infine non è quello del mare, ma l’interno talvolta opulento, talvolta selvatico e cattivo. Mare peraltro, non assente, ma riletto in modo scuro, notturno, dimesso: in qualche modo il luogo della trasgressione, ma non certo quella lisergica esaltata e trendy, alla Tondelli o Santacroce, per citare due post-moderni, ma tutta calata in una atmosfera da porto delle nebbie che più ci ricorda qualche film francese piuttosto che qualche cartolina dalla costa discotecara. Insomma, orgoglio, pregiudizio, miseria, nobiltà, di una terra di briganti, di mangiapreti, di anarchia, fascismo, bizzarria, una terra se non di santi e navigatori, di poeti meravigliosi capaci di coniugare meschinità e sublime in pochi tratti di penna, come posso dire di aver visto fare al mio tavolo della Sangiovesa, parecchi orsono, da parte del grande Tonino Guerra, in spoglie da cacciator cortese, che mi onorò di uno schizzo meraviglioso su tovagliolino doc, me pischella in tour al festival di Santarcangelo.
In questo libro la Romagna che dalle deputazioni e prefetture papaline in poi, forse sempre ha ambito ad essere altro, oltre, molto di più di una appendice peculiare, ci sta tutta, come dire piadina riminese e piadina ravennate, che, beninteso, nel libro non compaiono mai neppure per sbaglio, come giusto che sia, esattamente come non compaiono fritture di paranza presunta. Ci sono invece pernici, fagiani, raviole e vino buono, perché gli Artusi trovano modo di avere il loro spicchio di visibilità all’interno della narrazione.
E allora diciamo due o tre cose in conclusione di ragionamento, sulle Piste di carta, che infine, a dispetto della dispepsia gastrica e delle malinconie dell’ispettore, questa storia che si legge volentieri d’un fiato, cosi come bevono i loro calici troppo in fretta Casadei stesso e la sua bella vedova nel libro,, è un grande atto d’amore nei confronti della variegata e composita cultura alta e bassa, d’accademia e antropologia romagnola tutta, con tutte le sue contraddizioni d’ordine e anarchia. Che sicuramente leggeremo in filigrana tutti gli autori citati da Maggiorani stesso nelle note finali, cui io aggiungerei anche la misterica Mariangela Gualtieri, autentica genia, della terra madre e che si, Ivano Marescotti, se non si fosse ritirato prematuramente dalle scene, avrebbe potuto essere una plausibile personificazione del nostro ispettore in una ipotetica serie web o televisiva che certamente ci starebbe tutta, dedicata al nostro Miro Casadei, una tipologia d’ispettore, molto più preziosa di quanto si possa supporre e dunque, una esortazione: cominciamo leggendo questo libro che ci scalderà il Natale, per poi magari risalire ai saggi propriamente storici del nostro pluripremiato autore e poi speriamo davvero di leggere e anche vedere altri episodi delle avventure di Miro Casadei, scorbutico per scelta e fascinoso suo malgrado ispettore stazzonato che non ha niente da invidiare a tanti altri ispettori degli schermi grandi e piccoli.. Soprattutto sta a ricordarci quanto l’investigazione sulle nostre radici identitarie storico- politiche profonde, nonostante tutto abbia ancora un suo ostinato orgoglioso necesse est.