Da dove cominciare per rimettere insieme i pezzi di un mondo saltato per aria? La domanda può sembrare stramba in un momento in cui le rivalità si intensificano, la guerra in Ucraina sembra destinata a sconvolgere il prossimo inverno, la Cina resta bloccata e non farà nulla per colmare la spaccatura che si è creata e il “sud globale”, come recita una definizione abusata, cerca un modo per sopravvivere.
Oggi non esiste né un’istituzione né una personalità morale o politica che possa superare questa difficile condizione del mondo, e probabilmente manca anche la volontà di provare a farlo. Non c’è intesa nemmeno su un impegno contro i pericoli comuni a tutta l’umanità, come per esempio il cambiamento climatico, che in un primo momento aveva dato l’illusione di unire la “comunità internazionale”, una Cop dopo l’altra, ma poi ha lasciato spazio alle divergenze e all’impotenza.
Un riarmo incomprensibile
A rischio di sembrare ingenuo, confesso di essere allibito davanti agli annunci di aumenti della spesa militare in tutto il mondo, mentre sembra impossibile trovare il denaro necessario per impegnarsi sul serio a contrastare la crisi climatica. L’Asia, terra di intense rivalità strategiche, è diventata il continente che spende di più per le armi, dal Giappone all’Australia, da Taiwan alla Cina, dalle due Coree all’India e all’Indonesia: centinaia di miliardi di dollari sono investiti per preparare le guerre di domani e non certo lo sviluppo umano “armonioso” del futuro, per riprendere un’espressione cara a chi è confuciano solo a parole.
Si dice spesso che questo periodo di forte rivalità e ridefinizione dei rapporti di forza dovrebbe comportare la fine di un mondo dominato dai paesi occidentali. Ma nei fatti questo dominio si è già concluso. In gioco, invece, c’è una globalizzazione diventata folle e in cui gli occidentali non sono un blocco dominante.
La Cina, per fare solo un esempio, è la grande vincitrice dell’ultima fase della globalizzazione e di sicuro non sarebbe stata in grado di produrre un “modello” alternativo se non fosse diventata negli ultimi trent’anni la “fabbrica del mondo”, la base stessa del suo decollo economico. In questo stravolgimento planetario l’alternativa non è chiaramente definita e bisogna ammettere che non è nemmeno allettante, rappresentata com’è da potenze totalitarie assetate di rivalsa.
Oggi l’occidente paga il conto del suo dominio coloniale, una ferita mai rimarginata, ma anche la sua arroganza nell’aver continuato a pensare – fino agli inizi del ventunesimo secolo, dall’Afghanistan all’Iraq e alla Libia – di poter trasformare a proprio piacimento le società, i sistemi politici e i regimi. Prima di queste guerre “civilizzatrici” fallite c’erano state le operazioni per rovesciare i capi di governo progressisti , come Mohammad Mossadeq in Iran nel 1953 e Salvador Allende in Cile nel 1974, solo per citarne due.
Ora l’Europa, alle prese con l’invasione dell’Ucraina, si stupisce perché il resto del mondo non condivide la sua indignazione davanti al cinismo di Vladimir Putin. . Forse oggi bisogna fare due cose contemporaneamente: aiutare gli ucraini a fare qualcosa di più oltre a resistere alla brutalità che minaccia il mondo e che non deve assolutamente prevalere, ma anche guardarsi allo specchio e ripensare un mondo che non funziona più.
Mettere in scacco il totalitarismo è necessario, ma non sufficiente per ricreare una comunità internazionale degna di questo nome e capace di attivarsi per affrontare unita i grandi mali che colpiscono quasi otto miliardi di esseri umani. Il problema è stabilire da dove cominciare, e con chi.
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 24 ottobre 2022. Immagine di copertina, Filip Andrejevic/Unsplash