Anche nelle «bolle» più omogenee si trova un disorientamento diffuso su se e per chi votare il 25 settembre. Ma l’urgenza è avere il coraggio di affrontare il problema storico della ricostruzione sociale e politica del campo di battaglia
Tu voti il 25 settembre? E per chi voti? Un rompicapo si aggira anche nelle «bolle» più omogenee della sinistra radicale. Un disorientamento diffuso in modo anomalo, anche tra militanti di lungo corso.
Sui social network non mancano toni feroci e accuse di tradimento tra compagni di una vita, seppur a dire il vero sempre meno appassionanti. Il disorientamento è più alto del solito ma l’entusiasmo sembra in effetti ai minimi storici. Del resto non ci si può sorprendere: da quasi un quindicennio non esiste una vera e propria sinistra politica in Italia e alla vigilia di ogni tornata elettorale nascono nuove liste della sinistra radicale destinate a sciogliersi di lì a pochi mesi, mentre i movimenti sociali esplosi negli ultimi anni non sono riusciti a radicarsi e a incidere sullo scenario politico. Le persone di sinistra si ritrovano così a essere chiamate a votare in «un paese senza sinistra».
La scomparsa del «voto utile»
Nella Seconda Repubblica, dopo la fine del Pci e la nascita del Pds-Ds-Pd e di Rifondazione comunista, c’è sempre stata una sostanziale divisione tra «due sinistre» – una moderata e liberale, l’altra radicale e comunista –, con tradizionali spaccature nei momenti elettorali attorno a un dilemma: accettare o meno di sottomettersi al Centrosinistra liberista per un «voto utile» a battere la destra nei collegi uninominali. Negli ultimi dieci anni per chi vota e fa attivismo a sinistra la scelta al momento del voto è divenuta peró più complessa, con la conseguente moltiplicazione delle spaccature in varie direzioni.
Questa tornata elettorale propone l’ormai tradizionale nascita lampo di due nuove liste della sinistra radicale: l’Alleanza Verdi-Sinistra, che mette insieme i Verdi di Angelo Bonelli e Sinistra italiana di Nicola Fratoianni nel tentativo di superare lo sbarramento del 3% nella quota proporzionale, e Unione popolare di Luigi De Magistris, che con la leadership dell’ex sindaco di Napoli unisce Rifondazione comunista, Potere al popolo e altre formazioni della sinistra anticapitalista.
Nell’anno del centenario della Marcia su Roma e con i sondaggi che danno vincente l’estrema destra postfascista di Giorgia Meloni, a sorpresa però è di fatto scomparso il «voto utile» per battere la destra. Dopo decenni in cui alla sinistra radicale è stato proposto di unirsi perfino con Clemente Mastella pur di battere Berlusconi – anche se poi spesso il Pd è finito a governare insieme alla destra in vari esecutivi di «unità nazionale» – questa volta il Partito democratico ha deciso che la priorità era un’altra: escludere dal fronte comune il Movimento cinque stelle, reo di lesa maestà per essere timidamente uscito dall’aula durante un voto di fiducia al Governo Draghi. Così il voto alla cosiddetta coalizione progressista, ulteriormente indebolita dalla pittoresca fuoriuscita di Carlo Calenda, a conti fatti è percepito come poco efficace non solo a battere la destra ma anche a cercare di non farla stravincere nei collegi uninominali. Pur tenuto in vita artificialmente da Enrico Letta nella retorica elettorale, il «voto utile» appare così un argomento sbiadito e poco realistico.
Si tratta di una situazione inedita che rischia di far aumentare ancora l’astensione in un’elezione con un esito ritenuto dai più scontato. Ma che avrebbe, sul piano teorico, potuto aprire spazi nuovi per una sinistra radicale per una volta libera dall’eterno ricatto di doversi alleare con chi propone politiche liberiste per non subire la beffa di essere accusata di far vincere la destra.
L’Italia non è la Francia
In questo contesto inedito si poteva effettivamente ritenere possibile pensare di cambiare la geometria politica degli ultimi anni guardando al modello delle recenti elezioni francesi, dove il blocco liberale è rappresentato ormai compiutamente da Emmanuel Macron, l’estrema destra da Marine Le Pen e un nuovo ampio blocco di sinistra si è coagulato intorno a Jean-Luc Mélenchon. Un modello che secondo alcuni si sarebbe potuto emulare formando un terzo polo oltre al Pd e alla destra, con una coalizione tra il Movimento cinque stelle, Sinistra Italiana e Unione popolare. Una coalizione certo improvvisata e che non avrebbe aumentato con questa legge elettorale le chance di battere la destra, ma che avrebbe potuto rappresentare una novità, attrarre qualche voto destinato all’astensione e soprattutto competere in modo credibile con il Partito democratico provando a sottrarre il sostanziale monopolio della rappresentanza a sinistra a un Pd sempre più legato agli interessi dell’establishment politico ed economico del paese.
Se non abbiamo uno scenario alla francese non è però semplicemente per scelte miopi o opportuniste dei vari leader. I momenti elettorali non si costruiscono artificialmente o importando modelli dall’estero, come già visto con la lista Tsipras. Sono piuttosto delle fotografie dei conflitti sociali e dei processi politici messi in moto negli anni precedenti. In Italia in questi anni non c’è stato nulla di paragonabile alla spinta che ha rappresentato il movimento dei Gilets Jaunes francese e nemmeno un crescendo di scioperi come quelli esplosi di fronte alla riforma delle pensioni del governo Macron. I rapporti di forza in cui siamo immersi, le culture politiche sedimentate e il modo concreto con cui si sono costruiti i partiti di cui parliamo rendevano di fatto poco credibile uno scenario francese in salsa italiana.
Il Movimento cinque stelle, la lista più rilevante dell’eventuale coalizione, è stato del resto sospinto a sinistra più dalle scelte degli altri che dalle proprie: prima dalla rottura di Matteo Salvini con il primo Governo Conte e poi dalla decisione del Pd di far saltare in aria la cosiddetta alleanza giallo-rossa per dimostrarsi più draghiani dello stesso Mario Draghi. Una coalizione con Sinistra italiana e Unione popolare avrebbe minato la storica identità grillina racchiusa nel motto «né di destra né di sinistra», portata avanti concretamente nelle scelte di governo degli ultimi cinque anni che hanno messo insieme il Reddito di cittadinanza e il blocco dei licenziamenti durante la pandemia con giustizialismo, retoriche securitarie e guerra alle Ong che soccorrono i migranti in mare.
Sinistra italiana avrebbe dovuto rinunciare alla propria decennale e imperterrita strategia di costruire la sinistra del Centrosinistra, nonché mettere a rischio la propria presenza in tante amministrazioni locali in coalizione con il Pd. Il tutto per legarsi a colui che è stato il capo del Governo dei decreti sicurezza di Salvini.
La neonata Unione popolare – unica lista ad aver proposto la coalizione seppur con varie resistenze al proprio interno – non aveva i rapporti di forza per rendere appetibile la proposta ai potenziali alleati. Rapporti di forza non modificati dalla – tanto invocata in questi anni quanto alla fine un po’ tardiva – discesa in campo a livello nazionale di Luigi De Magistris.
Il rompicapo per chi vota a sinistra
Stando così le cose, chi vota e fa attivismo nella sinistra radicale si trova di fronte ad almeno quattro scelte, tutte con una propria comprensibile motivazione ma con non poche contraddizioni e un’intrinseca debolezza.
Alcune e alcuni, pur distanti dalle scelte draghiane del Partito democratico, si orientano a votare la lista di Sinistra italiana e Verdi, attratti soprattutto da candidati significativi per le loro battaglie sociali e civili come Aboubakar Soumahoro e Ilaria Cucchi. L’obiettivo è provare almeno a eleggere qualche persona di sinistra nel prossimo parlamento, seppur con la contraddizione di finire per sostenere una coalizione a guida liberista che è riuscita nel capolavoro di essere disomogenea nei contenuti e nei candidati – dal custode dell’austerity Carlo Cottarelli al sindacalista Aboubakar Soumahoro – senza rappresentare comunque un «voto utile» per battere l’estrema destra di Giorgia Meloni.
Altre e altri si orientano a votare il Movimento cinque stelle in quanto unica formazione che porta avanti istanze sociali come il Reddito di cittadinanza e il Salario minimo in grado di arrivare in doppia cifra, quindi di pesare politicamente e dare uno smacco al Pd. Una scelta dettata anche da una reazione per gli attacchi subiti da Giuseppe Conte dai più solerti sostenitori di Draghi ma con la contraddizione di votare un partito esplicitamente non di sinistra e soprattutto protagonista di tutti i governi succedutisi nell’ultima legislatura.
Con l’intento di non rinunciare a votare una sinistra alla sinistra del Pd, altre e altri ancora si orientano a sostenere Unione popolare. Una lista più generosa, con candidati privi dei «seggi sicuri» trattati preliminarmente dalle altre due forze politiche, su cui però pesa l’eredità dei continui fallimenti di liste simili improvvisate a ridosso del voto nell’ultimo decennio e che potrebbe sciogliersi come neve al sole il giorno dopo il voto se non dovesse eleggere nessuno.
C’è infine chi, magari per la prima volta, pensa di astenersi rifiutando di votare progetti politici non convincenti o ritenuti inefficaci per ricostruire una sinistra radicale. Si sa, però, che chi non vota rinuncia a decidere chi viene eletto e chi governa, seppur questa volta il dato dell’astensione potrebbe essere così macroscopico da non poter essere eluso da nessuna seria analisi elettorale.
L’urgenza
Proprio la possibile astensione record potrebbe far uscire fuori un governo con un’ampia maggioranza parlamentare ma dentro un’obiettiva minoranza sociale nel paese. Con l’aggiunta che nessuna forza politica, nemmeno quella di Giorgia Meloni, può dirsi sicura della propria rendita di posizione oltre il brevissimo termine. Le oscillazioni dei consensi elettorali nelle elezioni degli ultimi dieci anni sono state del resto senza precedenti nella storia della Prima e della Seconda Repubblica: alle europee del 2019 la Lega prese il 34% ed è ora accreditata nei sondaggi intorno al 12%; Il Movimento cinque stelle alle ultime politiche del 2018 ha raccolto il 32% e ora si accontenta di superare bene il 10%; Il Partito democratico con Matteo Renzi alle europee del 2014 arrivò al 40% e ora è accreditato del 20%; Fratelli d’Italia alle scorse elezioni politiche ottenne il 4% e stavolta potrebbe arrivare a superare il 25%. Sono consensi labili, pronti a fuggir via e posarsi altrove velocemente, frutto dell’assenza di radicamento delle forze politiche e, dopo la crisi economica del 2008, di una profonda crisi di consenso per le politiche liberiste che con pochi distinguo portano tutte avanti. Questa volatilità dei consensi, mescolata a un’astensione sempre più di massa, costringe in ogni caso chi governa a non dormire sonni tranquilli. Seppur, nel paese senza sinistra, a mancare è sempre un’alternativa antiliberista convincente.
Il vero rompicapo per chi vuole ricostruire una sinistra radicale dovrebbe essere allora come trasformare questa distanza dalle attuali forze politiche in un’opposizione sociale in grado di affrontare le politiche autoritarie, omofobe e razziste di un possibile governo a guida Meloni e di creare una convergenza sociale e politica antiliberista ed ecologista a partire da alcuni temi cruciali che saranno sul piatto dal giorno dopo, nel pieno di un’inflazione galoppante, di una crisi climatica sempre più grave, di un’emergenza energetica alle porte, di una crisi sanitaria costante e di una fase di guerra che non accenna a finire.
Occorre convergere per andare «fuori dall’emergenza e dentro l’urgenza», come suggerisce il Collettivo di fabbrica della Gkn. Ma è fondamentale capire chi, come e perché converge. L’urgenza è incidere sui rapporti di forza sociali per poter cambiare la situazione politica in cui ci ritroviamo, costruendo una convergenza tra movimenti e lotte sociali in grado di ottenere risultati, ricostruire legami sociali di classe e anche di porsi il problema di incidere sul terreno della narrazione politica.
La campagna elettorale è da questo punto di vista un’opportunità per veicolare contenuti con cui sfidare lo status quo, come fa ad esempio il movimento Fridays for future con «l’agenda climatica» che lancia il climate strike del 23 settembre, proprio alla vigilia del voto. Ma occorre mettere in secondo piano le eterne discussioni di tattica e di leadership e smettere di eludere il problema storico che abbiamo di fronte: la fine del movimento operaio per come l’abbiamo conosciuto nel Novecento e la necessità di ricostruire i linguaggi e i legami sociali necessari a ritracciare il campo di battaglia. Compito sul quale, a ben vedere, non hanno dato finora risposte efficaci nemmeno le varie esperienze politiche tentate invano di emulare nel nostro paese: dalla Syriza di Alexis Tsipras alla Podemos di Pablo Iglesias, dal Labour party di Jeremy Corbyn alle liste dello stesso Mélenchon. Anche tutte queste forze politiche hanno del resto subìto enormi oscillazioni di consenso elettorale scontrandosi in alcuni casi sulla contraddizione del governo di paesi a capitalismo avanzato e non riuscendo a costruire i necessari addentellati sociali e un’idea credibile di trasformazione radicale dell’esistente.
Per uscire dal pantano prolungato in cui è ferma la sinistra radicale, le nostre energie intellettuali e militanti dovrebbero concentrarsi su come trasformare la lampante crisi di consenso del liberismo in un incontro tra una nuova idea di trasformazione radicale e una nuova convergenza sociale efficace. A prescindere da come risolveremo il rompicapo del 25 settembre.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 2 settembre 2022