Sentenza regressiva sull’aborto negli Stati Uniti. E in Italia?

di Anna Loretoni /
21 Luglio 2022 /

Condividi su

La sentenza “Dobbs v. Jackson” della Corte suprema degli Stati Uniti abolisce il diritto costituzionale all’aborto sancito dalla storica sentenza del 1973 “Roe v. Wade”, che lo aveva costituzionalizzato come parte del diritto alla privacy, protetto dal XIV emendamento. Questo totale ribaltamento della precedente sentenza ribadisce, semmai ve ne fosse bisogno, che i diritti, anche una volta conquistati, non sono mai definitivamente garantiti. La tutela dei diritti si conferma come una dimensione fragile e sfigurabile, possibile oggetto di contrattacco: quindi restare vigili nei confronti della volontà politica di nuove e vecchie maggioranze diviene necessario. Si può tornare indietro. Il concetto di “regressione”, utilizzato anche in tempi recenti dalle scienze sociali, appare appropriato per descrivere una scelta che potrebbe estendersi, dal diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, al matrimonio omossessuale, a quello interrazziale, alle rivendicazioni della comunità Lgbtq+, alla delegittimazione nei confronti della contraccezione, vista come una sorta di impedimento alla fecondazione, per finire con la fecondazione assistita, in ragione del fatto che nel corso di questa pratica alcuni embrioni muoiono. Insomma, la preoccupazione, espressa da più parti, è che la Corte abbia solo cominciato il suo lavoro.   

La conseguenza immediata di questa sentenza è, in primo luogo, il venir meno della possibilità di accedere all’interruzione di gravidanza, in quanto diritto federale, delegando ai singoli Stati la legislazione in questa materia. Che tutto ciò comporti una grave lesione del principio di uguaglianza per le donne statunitensi è fuor di dubbio: a seconda dello Stato in cui vivono avranno accesso, o meno, a questo diritto. Questa asimmetria di accesso a un diritto, fondata sull’orientamento politico dei diversi Stati, è stata duramente criticata dalle Nazioni Unite, che non hanno esitato a definire il diritto all’interruzione di gravidanza un diritto fondamentale, pre-esistente la comunità politica, e perciò indisponibile alla decisione sovrana. Come spesso accade, le posizioni conservatrici si manifestano attraverso il controllo sul corpo delle donne e sulla loro potenza generativa. Ciò vale per le democrazie liberali e ancor più per quelle illiberali, che proprio in tema di negazione dei diritti civili hanno ingaggiato una battaglia durissima sull’orientamento sessuale e sulla libertà di scelta. Questa sentenza va quindi letta non solo come la manifestazione di una visione patriarcale, ma, più in generale, come parte di un atteggiamento conservatore, che oggi risulta maggioritario a livello globale. 

La presunta interpretazione “originalista” della Costituzione, avanzata dall’estensore della sentenza, il giudice Samuel Alito, fa riferimento alla volontà dei Padri fondatori, e si colloca all’opposto rispetto a una interpretazione evolutiva della Costituzione più antica del mondo. Qualche perplessità questa scelta la genera, facendo essa riferimento a una fase storica in cui le donne non avevano neppure il diritto di voto. D’altronde, le voci di un certo conservatorismo sociale a livello globale, tra affermazioni dirette e “sussurri carsici”, non sono mai venute meno, neppure in Italia. Il parlamento europeo, con notevole prontezza, ha approvato a maggioranza una risoluzione che chiede l’inserimento del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Sebbene si tratti, a mio parere, di una ipotesi difficilmente praticabile, è senza dubbio importante che l’Unione abbia voluto marcare la propria posizione in materia riproduttiva rispetto agli Stati Uniti, allineandosi a un principio di laicità delle istituzioni che dovrebbe sempre presiedere al dibattitto su temi divisivi da un punto di vista morale.

Sappiamo bene che in Italia, la legge 194, confermata da un referendum popolare nel 1979, garantisce, con un limite temporale di tre mesi, l’interruzione volontaria di gravidanza. Ma è altrettanto noto che il problema è la sua applicazione. I dati sono sconcertanti, con ospedali in cui l’obiezione di coscienza è generalizzata o raggiunge percentuali altissime, rendendo di fatto impossibile l’interruzione. Si genera così un vero e proprio turismo ospedaliero per poter vedere riconosciuto questo diritto, con la sofferenza che possiamo ben immaginare. A questo proposito, un recente volume (C. Lalli, S. Montegiove, Mai dati, edito da Fandango) sottolinea che è quanto mai urgente un lavoro sui dati relativi alla legge, che devono essere dettagliati, aggiornati e non aggregati per Regione, così che sia possibile sapere in anticipo se in quello specifico ospedale la legge viene o meno applicata. Senza dubbio va tutelata l’obiezione di coscienza; ma dev’essere assicurata anche la scelta delle donne che decidono di interrompere la gravidanza nei termini di una legge dello Stato.

Di fatto, una discussione critica sull’aborto non è mai venuta meno in Italia, ed essa serpeggia in diversi ambienti, in primo luogo di destra – ma non solo. Le posizioni, in questo caso, vanno da attacchi diretti alla legge a posizioni più sfumate, che intendono limitare l’autodeterminazione femminile, introducendo il consenso del partner. Questa discussione “carsica” nel dibattito politico italiano rischia, a questo punto, di rafforzarsi, trovando nella sentenza americana una legittimazione politica e simbolica che potrebbe avere conseguenze anche nel nostro contesto.

Il passaggio da un’idea di maternità come destino alla maternità come scelta libera e consapevole, obiettivo primario dei movimenti femministi, si è sempre rivelato difficile. Il nostro Paese non ha bisogno di rivedere la legge 194, ma ha estremo bisogno di leggi e servizi che aiutino le donne a coniugare il lavoro con la scelta della maternità, sviluppando quelle infrastrutture sociali, asili nido e scuole, su cui l’Italia esibisce un ritardo cronico. Non è un caso se i dati mostrano che con il crescere del numero di figli e figlie si determina la fuoriuscita delle donne dal mercato del lavoro, in primo luogo nei casi di livelli di istruzione medio-bassi; più in generale, si pone l’ingiusta alternativa tra perseguimento delle aspirazioni di carriera e impegno familiare.

Questo articolo è stato pubblicato su Terzo Giornale il 19 luglio 2022

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati