Ricorrenze che non ricorrono. Sulla strage di Podhum del 12 luglio 1942

di Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni /
15 Luglio 2022 /

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Podhum è un piccolo villaggio dell’entroterra di Fiume, oggi Rijeka. Nella storia patria Fiume è ricordata per l’impresa di Gabriele D’Annunzio che la occupa con i suoi “legionari” dal settembre 1919 al dicembre 1920. Nel ventennio fascista è governata da prefetti del Regno essendo provincia italiana del confine orientale.

Quando nell’aprile 1941 la Jugoslavia viene invasa dagli eserciti italiano e tedesco, è smembrata e divisa tra i due occupanti. Ben presto in territorio fiumano, come in altre zone limitrofe, si sviluppa un movimento di opposizione con azioni di guerriglia che mettono in difficoltà gli invasori, mentre gli abitanti generalmente solidarizzano con le formazioni dei combattenti.

Anche a Podhum diverse famiglie e numerosi giovani si rifugiano in montagna sotto la protezione dei “ribelli”. Siamo nel 1942 quando le autorità militari e il prefetto di Fiume, Temistocle Testa, decidono di infliggere alla popolazione una punizione esemplare. L’attacco viene preparato fin dall’8 luglio. Quel giorno 250 soldati del V Corpo d’armata dell’esercito italiano, sostenuto da cinque carri armati agli ordini del maggiore Armando Giorleo, si attestano sulle alture circostanti. La formazione fa parte della II Armata operante in Croazia, Dalmazia e Slovenia sotto il comando del generale Mario Roatta.

Il giorno 12 alle prime luci dell’alba i militari scendono verso il paese, lo accerchiano, impongono un rigido coprifuoco con tanto di manifesti intimidatori e fanno irruzione nelle case. Tutti gli uomini validi dai 15 ai 65 anni sono rastrellati e avviati in direzione dell’aeroporto verso una cava di pietra dove i loro corpi saranno gettati dopo l’esecuzione a colpi di mitragliatrice.

Le ricognizioni effettuate nel 1944 dal comitato di liberazione di Jelenje, comune capoluogo, confermano l’entità di 95 vittime, i cui nomi impressi sulle lapidi sono ricordati nel Memoriale dedicato all’eccidio. Ne vanno aggiunte almeno altre 10 per uccisioni singole. Lo stesso prefetto Testa, compiaciuto per l’esito dell’azione, parla di 108 uccisi.

Conclusa l’esecuzione, come emerge anche dalle lettere inviate a casa, i militari si danno al saccheggio, dopodiché confiscano migliaia di capi di bestiame, grosso e minuto, e distruggono il paese: 370 abitazioni e altri edifici vengono dati alle fiamme.

Gli 889 abitanti superstiti – 208 uomini, 269 donne e 412 minori – sconvolti dalla morte violenta dei congiunti e dalla devastazione, vengono sottoposti ad arresto immediato senza poter prendere nulla con sé. Caricati su autocarri sono condotti prima nella vicina Cӑvle dove passano la notte ammassati in un cortile, poi a Laurana che raggiungono in autobus. Qui alloggiano presso il Park Hotel, requisito dalla questura e attivo da aprile 1942 come campo di concentramento per «congiunti dei ribelli». Vi transiteranno circa ventimila sventurati destinati alla deportazione.

Nei giorni seguenti i superstiti vengono deportati nella Penisola, distribuiti in venticinque province italiane da Aosta a Teramo e sottoposti al regime dell’internamento.

Scrive l’Ispettorato per i Servizi di Guerra che vanno internati essendo «animati da odio verso il nostro Paese e verso il Regime»; nell’ipotesi di arrivare «allo sgombero di alcune decine di migliaia di unità (100.000)» da distribuire «in 3.000 Comuni del Regno, si avrà una media di 330 persone per Comune», facilmente mimetizzabili una volta allontanate dalla propaganda «irredentista e comunista». (ACS, Ministero degli Interni, Direzione Generale Servizi di guerra, b. 90, fasc. 313).

Mussolini del resto, all’entrata in guerra dell’Italia, in un discorso alla Camera dei fasci e delle corporazioni aveva detto: «Quando l’etnia non va d’accordo con la geografia, è l’etnia che deve muoversi; gli scambi di popolazioni e l’esodo di parti di esse sono provvidenziali perché portano a far coincidere i confini politici con quelli razziali».

Alle indicazioni del duce seguono ben presto specifiche disposizioni, come la Circolare 3C. Si tratta di un libretto di circa 200 pagine diramato dal generale Roatta a tutti gli ufficiali dell’esercito di occupazione contenente direttive ispirate a puntuali, durissimi principi con garanzia di impunità per i soldati italiani.

Il territorio in cui ci si muove è un campo di battaglia e tutti devono essere considerati nostri nemici. […] La lotta che conduciamo non è un duello […] è una lotta paragonabile invece a quella coloniale, in cui conviene dare all’avversario la sensazione netta ed immediata della nostra schiacciante superiorità. […] Non si devono fare prigionieri. Non si devono risparmiare i sospetti di favoreggiamento e le loro case. (M. Legnani, Il “ginger” del generale Roatta, in «Italia contemporanea» n. 209-210 del 1998, pp.155-174.)

Problematica e travagliata la sistemazione degli internati, come risulta dai documenti reperiti all’Archivio di Stato di Rijeka e dalle interviste effettuate a Podhum dagli scriventi nell’estate del 2019. Deportati in prevalenza a mezzo treno, conoscono un periodo di cosiddetto internamento libero a domicilio coatto in piccoli comuni. Qui, alloggiati in varie strutture, privi di tutto, ricevono dal Governo un sussidio per gli alimenti e un’indennità di alloggio per ogni nucleo, somme peraltro insufficienti a garantire la sopravvivenza, per cui tra mille difficoltà dovute alla lingua e all’ambiente sconosciuto devono trovarsi un lavoro.

Mussolini auspica per loro la creazione di appositi campi di concentramento e dopo l’istituzione in provincia di Frosinone di quello di Fraschette di Alatri il 1°.10.1942, si inizia a trasferire nelle baracche del campo – dall’internamento libero – anche una parte degli abitanti di Podhum, oltre 400 unità. Nell’insieme vi saranno ristretti circa tremila slavi.

I testimoni contattati, all’epoca bambini e talora orfani dei padri caduti nell’eccidio, portano scritte nella storia famigliare le incertezze e l’angoscia vissute in quei frangenti. Chi conobbe il campo di Fraschette ricorda come fossero trattati malissimo, con cibo scarso e nessuna assistenza, giudizio condiviso dallo stesso vescovo di Alatri. Una testimone ricorda la sorellina morta nel campo: alla madre, che ha perso il marito il 12 luglio ed è rimasta sola con sette figli minori non viene neppure detto dove è stato sepolto il corpo della piccola di nemmeno due anni, morta di fame.

Saranno una quarantina i deportati dal villaggio distrutto a morire nella Penisola.

Nessuno degli ufficiali italiani sentiti dalla commissione d’inchiesta promossa negli anni 1946-1948 dal governo italiano sarà condannato per crimini di guerra. Ѐ mancata alla fine del conflitto una seria azione giudiziaria che accertasse le responsabilità delle azioni repressive nei confronti della popolazione slava. Lo stesso Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, Mario Roatta, giudicato colpevole in prima istanza e fatto fuggire nella Spagna di Franco, verrà assolto. Meno che mai si acconsentirà alla richiesta di sottoporre a giudizio, presso le corti della neonata repubblica jugoslava, gli italiani ritenuti responsabili di tali violenze.

L’articolo è tratto dal saggio pubblicato in «Storia e problemi contemporanei». n. 85, Franco Angeli, uscito nell’aprile 2022.

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