Il teatro off che è sempre in. Polverigi Festival chiude in bellezza

di Silvia Napoli /
4 Luglio 2022 /

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Estate, si sa, significa anche, oltre a siccità ed incendi più qualche altra pestilenza, stagione di festival ormai di molteplice natura. Si comincio nel dopoguerra quando si progettava una ricostruzione civile, etica, culturale del nostro paese lacerato, offeso, diviso. Ricostruzione che sull’onda di uno sviluppo economico diffuso fu poi l’inverarsi negli anni 60, di una industria culturale.

Poi però, i tardi anni 60 ci hanno consegnato anche una sorta di rivoluzione culturale, che ha via via attraversato gli anni 70 ed investito larghe fasce di popolazione ed opinione pubblica in gran parte giovanile a vocazione antiautoritaria . Grandi raduni rock e festival teatrali di ricerca sono stati l’ambito pubblico in cui queste attitudini sperimentatrici a livello artistico ed aggregativo si sono principalmente espresse .

I festival teatrali che hanno resistito nel tempo, prima che consuetudine stagionale hanno saputo diventare tradizione nel senso inteso dal grande Leo, ovvero storia di grandi innovazioni trasformative.

Ed eccomi appunto a parlarvi di questa 43esima edizione di Inteatro, un festival storico con i suoi decenni di vita alle spalle, secondo per longevità solo al mitico Santarcangelo, che peraltro sta scaldando i motori per la prossima edizione.

Inteatro, piazzandosi da sempre in Giugno a celebrare il sogno di una lunga estate fatata, visto il suo incantevole scenario naturale è forse il primo o quasi, in generale a partire. Magari non tanto esteso in durata o troppo fitto di appuntamenti diversivi, ma superconcentrato ed energetico a mostrarci secondo me quanto di più innovativo concettualmente si muove sulle scene italiane e internazionali di questi tempi interessanti, per dirla con una definizione cara al pensiero cinese.

Bisogna anzitutto dire per inquadrare meglio questa edizione del festival che il teatro nelle Marche sta vivendo una grande stagione riorganizzativa dopo le vicende pandemiche che punta contemporaneamente a due grandi situazioni di eccellenza ambientale. Una rete di oltre 70 teatri storici su 100 piccoli comuni, che chiede ad oggi di divenire patrimonio Unesco e una rete di scavi archeologici valorizzati proprio dalla pratica teatrale .

Secondo le direttive ministeriali, questa regione che ha un bacino di utenza complessiva di un milione e mezzo di persone, non può ambire ad essere sede di teatro nazionale, ma può naturalmente esprimere la sua vocazione ad esprimere una valenza di interesse pubblico locale e non . Come vedremo, sicuramente nazionale, ma non solo. Sostanzialmente tutto questo si invera attraverso due forme: AMAT, una rete consorziale di comuni che mettono fondi per la distribuzione e circuitazione di lavori di rilievo qualitativo e innovativo nell’ambito della danza e nel Teatro, di cui ci siamo già occupati e che vanta nonostante gli inevitabili rallentamenti e incidenti di percorso dovuti ad una emergenza sopita ma mai finita, quale quella sanitaria, un carnet sterminato di appuntamenti che coprono le fasce costiere e quelle interne con grande attenzione alla calibratura contestuale e geografica delle proposte . Le punte di diamante naturalmente sono gli appuntamenti di Civitanova Danza e di Teatri Uniti che si svolgono per l’appunto in aree suggestive dal punto di vista paesaggistico e storico archeologico .

Esiste poi, un’altra storia teatrale, che se non ha l’estensione quantitativo-numerica per rientrare nei parametri ministeriali di Teatro Nazionale, è pur sempre la versione aggiornata del Teatro stabile su base regionale e quindi stiamo parlando del teatro delle Marche che si definisce quindi di rilevante interesse culturale, che ha una gestione pubblica partecipata, a rischio d’impresa, che dunque si muove con una più che oculata e trasparente gestione di partecipazione a bandi progettuali, una ricerca di sponsorizzazioni bancarie e di associazioni di categoria, il sistema degli art bonus . tutto questo non solo per distribuire e far circuitare ma per produrre e produrre su un livello che sia nazionale ed oltre . Per questo, sono diverse le articolazioni e gli spazi in gestione in cui si muove Teatro Marche:sicuramente il mitico teatro delle Muse, appeso sul porto del capoluogo e, a dispetto dell’imponente vetusta facciata e delle decennali controversie in merito alla sua chiusura e poi auspicata e realizzata riapertura, teatro non ascrivibile alla categoria degli storici di cui sopra, cosi come anche il teatro auditorium “Sperimentale”, oggi ben rodato persino per rappresentazioni operistiche. Sono ascrivibili a Teatro Marche anche le rappresentazioni estive che si tengono nella cornice della Mole Vanvitelliana.

Un efficientissimo ufficio stampa nella squisita ed espertissima persona di Beatrice Giongo, mi sottolinea come alcuni notissimi nomi del teatro di ricerca più affermato, come ad esempio Marco Baliani, sono prodotti dal Teatro Marche, che prima di rientrare nelle ultime succitate categorizzazioni vanta una sua storia che parte da Jesi e dalla sua compianta regina Valeria Moriconi, insieme ad una direzione affidata a Giampiero Solari, scusate se è poco.

Certo, su base anagrafica, non possiamo aspirare ad avere numeri elevatissimi di abbonati o piuttosto, non possiamo pensare di tenere su per moltissime repliche gli spettacoli, ma proprio per questo, mi sottolinea la mia guida, abbiamo allargato i nostri orizzonti oltre i confini regionali e verso il mondo e facciamo coproduzioni internazionali, senza contare il glorioso Teatro del Canguro,vocato alle produzioni per l’infanzia, che gode di una fama tutta sua. La nostra Direzione, ci tiene cosi tanto a mantenere viva una comunità teatrale estesa, che ha voluto a tutti i costi che il Teatro delle Muse avesse una sua foresteria e facciamo modo di provvedere anche ai pasti per gli artisti che si fermano in residenza da noi. Dobbiamo dire che neppure l’emergenza Covid, ci ha fermati, non abbiamo smesso un solo giorno di lavorare in tutte le modalità possibili, non solo non smettendo di ritrasmettere attraverso molteplici canali il meglio dei nostri cartelloni, ma lavorando anche verso l’esterno, il nostro pubblico e i nostri interlocutori internazionali intorno al dibattito sul mezzo espressivo, i contenuti, le anticipazioni di lavoro.

Quando minimamente abbiamo avuto spiragli di riapertura, eravamo già prontissimi e infatti devo dire chiosa Giongo, che noi siamo tra le realtà che meno debbano porsi il problema di avere recuperi di cartellone da effettuare.

A questo punto però, bisogna spendere due parole per spiegare quanto in questa modalità di lavoro e Direzione artistica, si veda in filigrana l’influenza sull’insieme, la spinta propulsiva di ciò che potrebbe sembrare un semplice addentellato o nella migliore delle ipotesi un fiore all’occhiello di cui fregiarsi nella narrazione delle politiche culturali pubbliche, quale il festival Inteatro.

E dobbiamo anche dire che Velia Papa, notevolissima e peculiare figura tra le poche femminili, di sicuro pochissime all’inizio del suo percorso, nel campo della direzione e curatela artistico-organizzativa in campo nazionale, viene proprio da quella storia fondativa li . Una storia che è, come dire, il core business anche emozionale da cui tutto si è irradiato, che ha molteplici intrecci con un pezzo di vicende bolognesi gloriosissime quali l’itc di s Lazzaro e il Gran Pavese Varietà, epoca Scotti, in sodalizio artistico a più riprese e in diverse forme con il compianto Roberto Cimetta, talentuosissimo e vulcanico cofondatore con Papa, di Inteatro. Oggi, il suo spirito rivive non per dire e produce sedimentazioni a dir poco virtuose, non solo perché il festival è più che mai alive n’kicking, senza cedimenti alle mode e al mainstream come a breve vedremo, ma anche attraverso il fondo a suo nome creato a Parigi nel 99, dieci anni esatti dalla precocissima scomparsa del drammaturgo autore regista interprete, come organizzazione no profit, allo scopo di favorire il diritto alla creatività e mobilità di artisti ed operatori culturali del Mediterraneo. Un progetto davvero lungimirante, in connessione con le spinte innovatrici di quelle che furono (e sembra passata un’era), le primavere arabe e, in controcanto, a livello artistico, con una linea di tendenza sperimentale molto marcata sul mondo europeo, nord europeo, con base belga. Non per caso, l’iconica immagine che caratterizza questa edizione del festival, è da attribuirsi ad un artista belga, cosi come fu belga, con tutta la carica innovatrice e dissacrante che questo può comportare, l’intervento caratterizzante di una edizione di transizione della kermesse,quando, anni fa,inciampi politici fecero sembrare impossibile continuare su una certa strada e imposero uno stop ufficiale alle programmazioni. Per questo motivo, la data ufficiale di inizio festival è veramente topica, essendo quel traumatico travagliato 77, che tanto a modo suo, avrebbe sia chiuso una fase e contemporaneamente aperto in modo inaspettato ad un mondo diverso e globalizzato. Un mondo che ora chiede pegno e che causa eventi davvero distopici, impone due salti di casella nel conteggio.

Arrivati al dunque, bisogna davvero avere idea di cosa sia Villa Nappi, l’ubi consistam del Festival e contemporaneamente di quale contesto le sia stato costruito intorno, per comprendere come il tema della creazione, in qualche modo almeno apparentemente avulsa da troppe pressioni persino festivaliere, sia centrale nella concezione complessiva. Al cuore di un borgo di origine medievale e a statuto ai tempi, di enfiteusi, quale la deliziosa Polverigi, la villa, già convento agostiniano, ad oggi è un buen retiro incantevole, che comprende quelli che a Santarcangelo chiamerebbero piccoli imboschi, aree chiostrate che possono ricordare borghi messicani nella calura estiva e che comprendono area cucina ed undici camere per residenze stanziali di lavoratori dello spettacolo e, infine, una sorta di pub poi a tutti aperto. Dunque un luogo intrinseco ed altro nello stesso momento, con una scioltezza di interscambio funzioni, che altrove si fatica a trovare e che qui è ormai tradizione consolidata di innovazione, come si diceva. La grande Silvia Ballestra ha dedicato pagine affettuose ed esilaranti al festival nel suo ultimo romanzo reportage dedicato proprio alle Marche post terremoto con l’attitudine punk che volenti o nolenti, si acquisisce da esuli della provincia come in tanti di noi siamo.

Una provincia, che mai come ora mi appare feconda, bene da valorizzare, realtà su cui indagare, futuro giovanile su cui investire. E qui, umili e silenziosi, forse troppo, come quelli a cui accade di pensare di essere outsiders, in realtà gli operatori e le istituzioni, di cose ne hanno costruite, e questo spiega per esempio, anche l’ottima gestione pandemica di cui si diceva, tramite la fruizione di un Archivio storico del Teatro e della Danza, da sempre importantissima qui, sia cartaceo che video e digitalizzato . Archivio che permette, sotto l’egida del consorzio teatrale nato nel 2014, il Teatro Marche scarl di cui si diceva, di accedere ad un immenso patrimonio documentale accumulato in più di trent’anni, da parte di ospiti, operatori di settore, studiosi ed artisti.

Insomma, una roba ingente, un livello veramente europeo nel senso migliore del termine, di accoglienza.

Tutto questo si respira in modo tangibile e rilassato quando si viene a villa Nappi, dove ci si incontra facilmente in piccoli gruppi cosmopoliti per mangiare, per sorseggiare un drink, per affacciarsi sui balconi naturali del territorio, per scambiarsi opinioni multilingue, facendo la fila per entrare nello spazio coperto del Teatro della Luna, che meriterebbe un articolo a sé, tanto rispetta in modo ampio e innovativo l’idea di scatola nera cara al teatro d’avanguardia, o per entrare all’interno del cinema teatro Italia,in paese prima di ritornare tra fronde leopardiane del parco per un’azione interattiva di quelle che piacciono agli amici di Kepler. Del resto, come abbiamo già ampiamente spiegato fin qui, l’interazione con il luogo, è uno dei punti di forza di questo festival, cosi, se l’immagine di Wannes Crè, concessa da Benjamin Verdonck, richiama subito sia il sodalizio antico con la sperimentalità fiamminga, sia una visione dialettica e rovesciata del rapporto tra Natura e Cultura, molti dei principali lavori del festival che definire rassegna sarebbe fuorviante, nascono proprio da elaborazioni site specific. Scorrendo anche solo superficialmente il programma è questo il caso di” The beginning “di Berti e Nasi o di “Hardchitepture” di Ludovico Paladini, riflessione sui rituali di passaggio per gli attuali passengers. A proposito sia di attualità che di nuova ipotesi fondativa di tradizione, concetto che sarebbe piaciuto anche ad un maestro inimitabile come Eduardo, i due ultimi lavori del festival meritano una attenzione particolare.

Cominciamo da PayPer Play, di Andrea Costanzo Martini, davvero straordinario coreografo taliano di stanza a Tel Aviv che qui si fa coprotagonista di un bizzarro quanto entusiasmante pastiches di linguaggi espressivi, che rilegge il corpo sia come soggetto che oggetto, rendendolo parte di una sorta di narrazione da parte di un apprendista stregone stregato del terzo millennio.

I Ballets mecaniques, il marionettismo, il futurismo e anche tanto Disney, nella incapacità di governo dei tools, degli strumenti, che la potevano essere secchi, scope, bacchette fatate e qui sono schermi, video, pulsanti, pareti scatola a scomparsa e ricomparsa foriere di sorprese inaudite che non voglio spoilerare, ma che rendono bene l’infantilizzazione e la dipendenza continua da un altrove tecnocratico, del nostro autarchico e masturbatorio modo di vivere, stanno tutti insieme in questa proposta elegante e accuratissima nel gioco spaziale delle luci di scena, ma caldissima e per niente fredda dal punto di vista emotivo. Del resto anche la colonna sonora, che spazia da Brian Eno a Kylie Minogue a Stravinsky ci sollecita sul versante epico, poi coccoloso poi raziocinante e calcolatore del nostro universo relazionale che tocca vertici di paradosso e discorso sui generis di genere, quando i performers diventano tre ad inscenare una possibile futuribile guerra tra sessualità ambigue e narcisiste nell’era Amazon. Ovazioni finali ed auspicio che presto si possa rivedere questo lavoro dalle nostre parti.

Transfiguration, invece, spettacolo, se cosi impropriamente vogliamo dire, è un lavoro molto arty, concepito già nel 98, da Olivier De Sagazan, vecchia conoscenza di villa Nappi dal 2016, artista che del resto ha il suo background formativo al ST Martins College of Art and Design, tutt’ora ente partner di Inteatro.

Questa creazione viene consigliata per un pubblico adulto e, sarà per l’orario avanzato, sarà per la costrizione di un luogo caldo affollatissimo con il corollario di auspicabile utilizzo di mascherina, ci richiama quella corrente di performances in qualche modo scioccanti perché faticose per lo spettatore chiamato in causa in primis ad una nobile gara di resistenza o resilienza, insieme all’artista. Transfiguration è stato rappresentato piu di 300 volte in 25 diversi paesi e ci tocca dal vivo sul tema della materialità del Corpo, cosi negata dai vari devices, come lo spettacolo precedente dimostrava. Materialità che la poi esplodeva nel conflitto, ineludibile persino tra macchinari ed oggetti. L’inferno è sempre l’altro, insomma: qui siamo proprio noi, che siamo blasfemamente uni e trini, madre e padre di noi stessi, a entrare in conflitto con l’essere, in una performance per stomaci forti che ricorda Orlan o Herman Nitsche e che osa pure produrre fiamme in scena. Come dicono Tre Allegri ragazzi morti, nel loro stile fumettistico “era bello vederti bruciare i capelli e cambiare colore” e qui, in effetti, accade anche di questo, oltre a molto altro, tanto da essere in ansia per tutto il tempo per le sorti del nostro navigato performer che, lavorando in modo tanto ibrido, oltraggioso e audace sul tema dell’identità e del sacro, non stupisce affatto essere assiduo collaboratore di artisti afferenti nel campo del fashion, della musica, del cinema. Insomma, sudate e sofferte ovazioni anche qui, per poi tornare fino alle ore piccole a ballare sotto la luna rossa, magari barefoot, come diceva Patti, in ossequio ad un genius loci che ha sempre un po’ una nostalgia happy hippy times, ma che soprattutto si radica benissimo nel naufragare dolce collinare. Lunga vita al primo festival estivo di cui vi riferisco e speriamo davvero di vedere presto, ancora, alcune di queste creazioni.

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