Bisognerebbe riformare la giustizia. Ma per farlo ci vorrebbero battaglie garantiste centrate sulle esigenze della maggioranza delle persone e non sul regolamento di conti tra ceti politici
Domenica 12 giugno si vota sulla giustizia, ma i referendum proposti da Lega e Partito Radicale sono nati morti. Non c’è alcuna possibilità né che si raggiunga il quorum né che questi quesiti e questo schieramento di promotori producano una discussione utile sui temi della giustizia. Battaglie garantiste giuste sono state nuovamente cooptate nell’eterna guerra berlusconiana di una parte del ceto politico italiano contro la magistratura.
Che prospettiva ha il garantismo, se è solo un’arma in difesa del privilegio? E che credibilità ha, nel proporsi di riformare la giustizia, chi da trent’anni è impegnato solo ad assicurarsi l’impunità, mentre al contempo soffia sul fuoco della rivolta anti-casta? Per chi è interessato davvero a una giustizia che tuteli la maggioranza delle persone, questi referendum sono l’ennesima occasione persa, da lasciar fallire, sperando che prima o poi si apra lo spazio per una discussione seria sul tema.
I quesiti
I referendum su cui siamo chiamati a votare sono cinque. Il primo propone l’abolizione della legge Severino, la norma che prevede l’incandidabilità dei condannati in via definitiva. La proposta arriva dai sindaci, infastiditi dall’articolo della Severino che prevede la sospensione dalla carica per gli amministratori locali anche dopo una semplice condanna di primo grado. Una norma approvata dal governo Monti, nel 2012, sotto la pressione dell’indignazione grillina contro il berlusconismo. Da sinistra, una norma che andrebbe abrogata domani: non si vede perché impedire ai cittadini, se lo desiderano, di farsi rappresentare da una persona con precedenti penali, magari per reati connessi a lotte sociali e politiche. Un automatismo che scavalca i giudici stessi e la loro possibilità di attribuire a un condannato la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per un certo periodo di tempo. Ma chiunque viva nell’Italia di oggi e ritenga che esista una maggioranza popolare per abolire la Severino ha seri problemi di rapporto con la realtà. Si tratta di un modo probabilmente sbagliato di affrontare la questione della corruzione, ma quanti e quali modi giusti sono stati invece messi in campo? È credibile oggi un ceto politico che propone una legge a propria protezione, di fronte a una crisi di fiducia e legittimazione diffusa della politica? Pare evidente che questo referendum non solo non abbia alcuna possibilità di passare, ma sia oltretutto destinato ad affondare anche gli altri.
Il secondo quesito limiterebbe l’uso della custodia cautelare, in particolare in caso di rischio di reiterazione del reato. Anche qui, una proposta garantista su un tema reale, in un paese in cui una quota significativa di detenuti è in carcere in attesa di giudizio, senza essere stata condannata da un tribunale. Ma gli altri tre quesiti rivelano il quadro in cui queste proposte sono inserite: il terzo vieta completamente il passaggio della funzione di pubblico ministero a quella di giudice, per l’intera carriera (già fortemente limitato dalla legge e in procinto di esserlo ancora di più dalla ministra Cartabia), mentre il quarto e il quinto si concentrano sulla composizione dei consigli giudiziari e del Consiglio Superiore della Magistratura.
L’eterno berlusconismo e la cooptazione del garantismo
Si tratta di un repertorio noto: quello della battaglia berlusconiana contro la magistratura. Un copione che si ripete stancamente per l’ennesima volta, in quesiti che, come dimostra la presenza di quello suicida sulla Severino, sono nati morti e, nonostante per la prima volta si sia accorpato il voto al primo turno delle elezioni amministrative, non hanno alcuna possibilità di raggiungere il quorum. Tant’è che anche la Lega che li ha promossi, insieme al Partito Radicale, li sta spingendo con la convinzione di un Sassuolo già salvo all’ultima di campionato.
E allora perché li ha promossi? Andrebbe chiesto a Matteo Salvini. L’impressione è che si sia voluto dare un contentino, in vista delle prossime elezioni politiche, a un mondo composto dagli avvocati e dalle loro organizzazioni, da ciò che resta della galassia radicale, da Forza Italia, e in generale da quel ceto politico ai confini della legalità che da trent’anni ha in campo la propria battaglia contro la magistratura. Un mondo piccolo, che non potrà mai vincere un referendum, ma che intanto può incassare l’appoggio leghista e prepararsi a ricambiare il favore.
E così ci ritroviamo con cinque referendum splendidamente berlusconiani nel tenere insieme tutto il repertorio che conosciamo da trent’anni: la separazione delle carriere, le correnti del Csm, e così via. L’eterno ritorno della guerra tra quel pezzo di politica e la magistratura.
Un conflitto che nel frattempo ha, tra le proprie vittime, l’agibilità di un campo di ragionevole di battaglia garantista.
È impossibile che referendum del genere abbiano successo, nel clima che è stato creato dagli stessi partiti che li sostengono (la Lega che agitò il cappio alla Camera nel 1993, i radicali principali propagandisti del concetto di «partitocrazia» per decenni), e in un contesto in cui per riconquistare la credibilità della politica di fronte all’accusa di corruzione generalizzata è stato fatto ben poco. Il peccato è che dentro questo involucro berlusconiano sono state infilate, come si diceva, un paio di questioni di garantismo vero (dall’incandidabilità dei condannati all’uso delle misure cautelari) su cui una discussione sarebbe utile. Così come sarebbe utile, a trent’anni da Tangentopoli, discutere del rapporto tra politica e giustizia e del fatto che forse fare della magistratura l’unico contrappeso al potere di politici, in gran parte locali, slegati da qualsiasi controllo democratico, non è proprio la dinamica più sana.
Però, appunto, tutto questo non si può fare: da ormai trent’anni la battaglia garantista per i diritti dei cittadini di fronte alla legge è stata cooptata nel fronte della protezione e dell’impunità del ceto politico, e ogni discussione seria è stata resa impraticabile.
Garanzie per gli imputati
Servirebbe un’iniziativa politica seria da sinistra su questi temi. Un insieme di proposte che sappiano ricostruire la legittimità e la credibilità della politica sottoponendola in modo stringente al controllo democratico così da poter tirare il fiato di fronte a quello giudiziario. E, soprattutto, ci vorrebbero battaglie garantiste costruite sulle esigenze della grande maggioranza delle persone e non di ceti politici che vivono spesso strutturalmente come ambienti di malavita.
Una riforma della giustizia serve, eccome, e servono maggiori garanzie per gli imputati. Ma va costruito un consenso per una riforma che avvantaggi la maggioranza. Per ora, quindi, si tratta di un’altra occasione persa che evita di toccare davvero i nodi scoperti. Lasciamola fallire, e lavoriamo perché si costruiscano invece, a breve, dibattiti e riflessioni utili sul tema della giustizia.
Quando il garantismo sarà liberato dal ruolo di strumento di protezione e impunità del privilegio a cui è stato forzato in questi decenni, potrà tornare a essere una forza progressiva: il suo successo dipenderà dalla capacità di entrare in relazione con i bisogni delle maggioranze e tradurli in legge.
*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino)
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 10 giugno 2022