Non è facile definire lo status scenico di Alessandro Berti, di certo performer versatile e autore-pensatore di respiro antropologico e sovranazionale. Uno in grado di chiamare le cose nella loro imbarazzante scomodità, per renderci edotti della montagna di pregiudiziali su cui siamo comodamente adagiati: chi più, chi meno.
Ma procediamo con ordine, perché Alessandro Berti da Reggio Emilia, una formazione presso il Teatro di Genova, è in realtà, una nostra vecchia conoscenza dai tempi appena antecedenti agli anni 2000, quando giovanissimo e sodale della coreografa danzatrice pedagoga Michela Lucenti, ora ospite anch’essa delle programmazioni di Arena, provava a tracciare, con la formazione l’Impasto, una interessante lettura dei processi innovativi della scena performativa, ben piantati tuttavia, nel solco di una tradizione popolare.
Insomma, innovare è partire da una tradizione per portarla ad un gradino ulteriore. Questo è quanto ci ha insegnato un maestro e contemporaneamente nume tutelare di una certa idea di rigore e di approccio olistico alle cose dell’Arte e della Vita, che senza dubbio ha influenzato Berti, quale Leo De Bernardinis.
Un influsso profondo che riguarda cose in certo senso obsolete per i nostri tempi distratti ed angosciati quali eticità, scala di valori, coerenza filosofica, rispondenza delle parole ai fatti. Potremmo definire il nostro, un illuminista che si rende perfettamente conto della crisi della Ragione che stiamo attraversando, tanto da scandagliare infatti nei suoi antecedenti lavori in solo, gli impervi territori della Fede o meglio delle fedi, con i conseguenti scontri di civiltà che questo comporta.
Quello che emerge, davanti agli spettacoli di Alessandro è anche l’enorme mole documentaria, nozionistica, ma anche di materiale di prima mano che potremmo definire umano, troppo umano, che la sua peculiare ricerca comporta. Potremmo dire tranquillamente che se c’è qualcuno che applica il tanto invocato metodo della con-ricerca, proprio delle Scienze sociali ad impostazione militante, questi è proprio Alessandro. Tanto accumulo di saperi ed esperienze, si distilla poi in una grande operazione di essenzialità drammaturgica, di semplicità francescana della scena, di narrazione tutt’altro che affabulatoria.
I suoi assoli, i suoi monologhi, sono tutt’altro che sfoggio virtuosistico, rielaborazione in chiave biografica o fiabesca, ma nello stesso tempo non sono neanche la prolusione dell’ideologo che si pone un gradino sopra il suo pubblico.
Infatti infine ciò che più è a mio avviso interessante sottolineare, specie riguardo alla bellissima trilogia Bugie bianche, vista in aprile tra Arena del sole e Moline, al di là delle tematiche certo scottanti affrontate, è proprio la costruzione della sua particolare forma di public hystory. Un affresco, che, genialmente, incrocia, senza parere o fartela pesare a livello conoscitivo, ma molto di più a livello morale, storie differenti tra Africa, Europa, America.
Insomma, che c’azzecca Frank blue eyed Sinatra, con gli schiavi strange fruits, importati, i runaways slaves, per intenderci?
Eppure, il nesso coagulante, viene agevolmente stabilito, tra le tre produzioni, con una forma spettacolo che diventa molte coraggiose forme multiple: teatro danza, stand up comedy, melologo, canzone, come solo Streheler poteva intendere, Ted conference e infine teatro quasi pirandellianamente dialettico.
Non saremo mai abbastanza grati allo sforzo produttivo di Ert, che da tempo concepisce, una collana editoriale per e con i tipi di Sossella editore e la preziosa assidua curatela di Debora Pietrobono e Alessandro lo Gatto, in modo da avere testimonianza precisa, riproducendo e traducendo copioni e ospitando splendidi commentari, di quanto avviene sotto l’egida del nostro Teatro nazionale Fondazione.
In questo caso, il volumetto dedicato a Bugie Bianche, si avvale di una puntuale e luminosa intro a firma Rossella Menna, che rievoca incisivamente i presupposti ante pandemici di questo complesso lavoro, da collocarsi nella forma associativa Casavuota, una combo creativa e speculativa d’eccezione che comprende, oltre alla piccola compagnia vera e propria, un nocciolo duro di intellettuali fiancheggiatori, quali Federica Iacobelli e Matteo Marchesini.
Una storia, ostinatamente appartata, come Menna giustamente la definisce, che fa coincidere la biografia artistica e umana di Alessandro, con un condominio in centro storico che in parte è anche uno SPRAR, una casa rifugio per giovanissimi profughi non accompagnati ed una centrale energetica di produzione, sempre secondo canoni fuori mercato.
Qualcuno, scettico, sospettoso, potrebbe vederci l’ennesima facile scorciatoia per blaterare di un tema up to date come il razzismo. Ma non è proprio cosi. Perché la chiamata in causa, la forma partecipativa che Berti propone è stilizzata come un fumetto ed evocando linguaggi di comunicazione pubblica condivisa, chiama a raccolta, non già le viscere, la pancia che reclama un facile schieramento, ma le nostre facoltà logiche e discernenti, soprattutto morali.
Ed è rappresentandoli con apparente logica leggerezza, che i nostri più convinti e convincenti stereotipi riguardo questioni etniche, razziali, sessuali, persino pornografiche, ci appaiono allineati con nitore etico oserei dire, giansenista.
Bizzarramente, il disincanto contemporaneo del nostro menestrello, ha in sé una solida radice identitaria terragna e quasi manzoniana. Quell’amaro divertimento, nel constatare insieme a noi, passopasso, come ogni nostra forma di ammirazione, invidia del pene, è il caso di dire, nei confronti dell’altro da noi, celi paure e debolezze intrinseche, sempre volte al nostro compiacimento o autogiustificazione.
E tuttavia. Dopo il nostro potente Black Dick feticcio, assurto a simbolo di successo, ma scippato per traslazione ai Neri, dai soliti Bianchi manipolatori, siamo, nella inquadratura due, noi stessi, in tutta evidenza, i Neri senza memoria. Neri per caso,persino noi Italiani,nel potere tuttavia, anche di cambiare e ricomporre un minimo gli equilibri sociali di un intero vasto quartiere continente, con buona pace della prudenza di zio Frank, come si evince dalla verità di un aneddoto storico.
Da rimanere letteralmente senza fiato, per questa seconda tranche ospitata alle Moline, condita anche di citazioni dall’universo del pensiero intersezionale, nel momento in cui Berti evoca come canto nenia sospeso, la fuga della schiava nera che vuole raggiungere suo figlio nel buio della piantagione e altrettanto ficcante l’interrogativo che ci viene rivolto sulla possibile legittimità di poter prendere parola anche per conto o a favore di minoranze altre da noi. Quesito risolto magistralmente con il disvelamento delle radici bianche ed ebraiche della celebre canzone simbolo Strange fruits. Come a dire che siamo tutti minoranza rispetto a qualche entità repressiva.
L’implacabile dialettica di Alessandro Berti, vede infine compiuta realizzazione nella sintesi duale di Blind love. Si propone come esito di sintesi, l’Amore, ma esattamente come in grandi classici anglofoni contemporanei, del calibro di Chi ha paura di Virginia Woolf?, il serrato dialogo filosofico tra Lei, la splendida Rosanna Sparapano, sorta di Angela Davis della situazione suo malgrado, e lui, il bianco acculturato, smagato e progressista, questo sentimento condiviso in apparenza, si nutre invece di molte sfumature di grigio e gronda soprattutto di lacrime e sangue. E non già in senso metaforico, rispetto ad un conflitto di genere e di coppia classicamente agito in pigiama e attualizzato dal confinamento pandemico, ma nel senso letterale di un peso storico che non può essere ignorato nelle biografie dei singoli e delle collettività.
Un atlante etnografico senza sconti e infingimenti dei nostri condizionamenti archetipici che arrivano ad invadere questioni più profonde che quelle legate allo sport, al cinema, alla moda, alla attitudine cool fino a riguardare le fondamenta ferine del nostro Inconscio Desiderante.
Dubbio, fanatismo, cinismo, manipolazione, ancora una volta fanno parte del pacchetto e il match sembra concludersi con una sorta di tregua forzosa tra due polarità forse poco convinte intimamente di avere tutte le ragioni. Tuttavia Berti stesso, del resto un artista che riesce persino a imbastire laboratori nelle scuole rivolti ai giovanissimi, riguardo le forme social di pornografia e scusate se è poco, si mette in gioco e prende in realtà posizione, ritirandosi lentamente alle foci della piena storica e lasciando intuire una cessione di potere.
Certo, sarà possibile recuperare singole tappe di questa trilogia, ma, davvero, l’idea di Ert di costruire progetti di respiro intorno ad artisti dei famosi Tempi interessanti, mi pare davvero encomiabile e peccato per chi non ha fatto in tempo a fruire in sequenza di questo trittico sfaccettato e lungimirante, iniziato qualche anno fa per Gender Bender in quanto manifesto contro gli stereotipi fallocentrici ed ora meditazione sulla famosa incomunicabilità approdata ad una consapevolezza di razza,di generi e di poteri. La ricerca tuttavia continua e siamo certi che altre sorprese ci arriveranno da artisti appartati e ostinati come Berti secondo la definizione di Menna per le edizioni Sossella di cui vi dicevo e che svolgono un encomiabile ruolo di accompagnamento e complementarietà.