l collettivo di fabbrica della Gkn lancia una chiamata a tutte le reti politiche, sociali, ambientaliste, ai movimenti, ai comitati e ai singoli
Dopo la chiusura dello stabilimento che produce semiassi per i principali marchi automobilistici e il licenziamento via mail del 9 luglio 2021, la grande lotta degli operai e operaie della Gkn di Campi Bisenzio ha ottenuto il blocco della delocalizzazione e la difesa di tutti i posti di lavoro. Si tratta di una tra le poche vittorie del conflitto di classe degli ultimi anni e di una lotta operaia che è stata in grado di creare consenso nella società come non si vedeva da tempo.
«Non dipende tutto da noi ma dipende da noi tutti», ha sempre sostenuto il Collettivo di fabbrica protagonista della lotta. L’esigenza adesso è infatti quella di andare oltre la propria stessa vertenza per non rischiare di finire in una trappola. Con questo obiettivo hanno convocato domenica 15 maggio un’assemblea nazionale di «restituzione e rilancio» dopo la grande manifestazione del 26 marzo 2022. Un’assemblea per costruire una fase nuova della mobilitazione, in cui le diverse lotte sappiano agire come una staffetta che si scambia il testimone per provare cambiare i rapporti di forza complessivi nel paese.
Dopo l’assemblea abbiamo incontrato Dario Salvetti del Collettivo di fabbrica, per approfondire l’obiettivo e il metodo di questa proposta di convergenza.
Puoi raccontarci lo stato attuale della vostra vertenza e il motivo per cui pensate che, senza una convergenza di lotte diverse tra loro, voi stessi siate destinati a perdere?
Qualsiasi vittoria parziale può essere facilmente riassorbita e neutralizzata nelle sue conseguenze. Se ci guardiamo indietro e pensiamo alla lotta degli operai di Melfi del 2004 o alla stessa lotta contro i progetti di Sergio Marchionne nel 2010 ci rendiamo conto di come purtroppo sia stato sedimentato poco o nulla. In particolare poi va capita la natura della nostra stessa vittoria. Considerando il contesto dato noi abbiamo vinto. Ma il contesto dato continua a impedirci di essere tranquilli.
Una fabbrica interna a una multinazionale è un organismo inserito in una filiera produttiva e, in assenza di uno Stato in grado di sostituire quella filiera produttiva, anche se abbiamo impedito che portassero via i macchinari e garantito tutti i contratti di lavoro a tempo indeterminato con i loro diritti, la fabbrica è ora un organismo avulso da qualsiasi filiera produttiva. Per questo siamo costretti a subire la cosiddetta «reindustrializzazione», cioè la trasformazione della fabbrica in uno scatolone vuoto in cui mettere altre produzioni. Non era quello che volevamo, è un meccanismo che abbiamo subito per il contesto e i rapporti di forza in cui siamo. E dentro questo meccanismo c’è un limbo in cui non siamo più la vecchia fabbrica e non siamo ancora quella nuova. Dovremo passare per un lungo lasso di tempo caratterizzato dalla Cassa integrazione, e sappiamo per esperienza che la Cassa integrazione produce assuefazione. Cambia la natura del tessuto operaio, toglie potere contrattuale e ci trasforma in percettori di ammortizzatore sociale che lottano per prolungarlo.
Questo è il punto in cui ci troviamo. Stiamo continuando a portare avanti l’assemblea permanente, a presidiare la fabbrica esternamente e internamente ma non facendo produzione il nostro potere contrattuale è ridotto: lo sappiamo noi e lo sa anche la nostra controparte. Per questo siamo interessati allo sviluppo di un movimento generale, perché non abbiamo al nostro interno la soluzione del problema ma solo la domanda.
Qualcuno ha insinuato che avete mire elettorali, altri vi hanno criticato perché rischiate di abbandonare una dimensione strettamente sindacale del conflitto di classe. Altri al contrario si aspettavano da voi la soluzione politica per il paese senza sinistra in cui viviamo. L’assemblea ha visto la presenza di decine di soggetti sociali, di lavoro, politici e di movimento che hanno risposto al vostro appello. Inevitabilmente però ha fotografato anche lo stato dell’arte della sinistra e dei movimenti sociali in questo paese dopo dieci anni di riflusso. Come hai detto tu stesso nell’introduzione, negli ultimi anni di appelli unitari se ne sono visti tantissimi ma si sono rivelati fugaci alleanze che hanno prodotto l’autorappresentazione di una debolezza. Qual è il metodo che proponete per provare ad avviare un processo di natura diversa?
La nostra vertenza, per come si è sviluppata, ci ha dato un certo grado di visibilità e autorevolezza. Viviamo in una società dove è facile pensare che una tale visibilità venga investita in percorsi appaganti in termini individuali, con forzature sul terreno della soggettività politica o ancora peggio elettorali. Del resto è quello che è effettivamente successo con altre vertenze in passato che hanno finito per lanciare quel o quell’altro candidato operaio su l’uno o sull’altro schieramento. A noi non interessa niente di tutto questo: ciò che non è collettivo, ciò che non cambia l’esistente, non ci interessa. Né vogliamo produrre forzature che finirebbero per inibire l’allargamento della mobilitazione.
Stiamo facendo qualcosa di diverso: non ci interessano lanci strani di soggettività politiche ma aumentare la capacità politica dei soggetti vivi. Noi stessi non ci siamo alzati la mattina e abbiamo deciso di chiedere una legge anti-delocalizzazione o che era necessario cambiare il mondo, è stato il mondo attorno a noi che ci ha chiuso la fabbrica e ci ha obbligato a interrogarci su quali fossero le condizioni per cambiare i rapporti di forza e salvare la fabbrica stessa. Allo stesso modo ci ha obbligato a interrogarci sul nostro rapporto con il movimento di solidarietà che si è sviluppato attorno a noi. Quando ci hanno chiuso sono state le reti ambientaliste, i circoli Arci, le reti territoriali, alcune organizzazioni politiche, alcune correnti sindacali, il movimento studentesco, alcune vertenze operaie a venire in nostro soccorso. L’assemblea nazionale che abbiamo convocato è stata una discussione su come continuare questo processo e con quale metodo.
Avete più volte ribadito con onestà l’imperfezione organizzativa della vostra proposta di convergenza ma di sentirla come un onere per il ruolo che avete assunto. C’è la necessità del passaggio del testimone della lotta e il conseguente rischio di lasciar cadere il testimone nel vuoto. Avete la sensazione di aver raggiunto nell’assemblea un’intesa sul metodo proposto?
Abbiamo proposto un documento di indirizzo che non è la parola finale ma uno strumento per produrre un ulteriore sviluppo della discussione. L’assemblea ha registrato una larga condivisione di questo documento e abbiamo voluto iniziare a discutere partendo dal metodo: la convergenza e la radicalità come cornice del nostro agire; «Per questo, per altro, per tutto» come approccio programmatico di interconnessione tra le lotte; «Fuori dall’emergenza e dentro l’urgenza» come campagna che colleghi tutte le diverse mobilitazioni che portiamo avanti.
Siamo tutti quanti il risultato dei rapporti di forza esistenti e quindi sì, il processo è debole e fragile. L’eterogeneità è una ricchezza ma anche un pericolo, perché rischia di tradursi in litigiosità. C’è il rischio che si sviluppino autorappresentazioni per contendere invece che estendere questo spazio. Siamo consapevoli dell’imperfezione di questo processo ma ci interroghiamo francamente e lealmente su quello che vorremmo provare a essere.
Il percorso e il metodo vincente che siete riusciti a creare ha prodotto un dibattito significativo dentro le organizzazioni sindacali? Non erano molte le vertenze sul lavoro presenti all’assemblea, come si riesce a coinvolgerne altre?
Le vertenze presenti non erano né poche né tante: in termini assoluti non sono tante ma sono quelle che in questo momento si muovono nel paese. C’era il comitato «Tutti a bordo» di Alitalia, il movimento disoccupati di Napoli, alcune vertenze locali come la Gilbarco e il cartonificio fiorentino. Crediamo che sia normale che ci sia maggiore difficoltà a insorgere nei luoghi di lavoro, dove spesso si sommano il ricatto della delocalizzazione, del licenziamento e della precarietà. Oggi i nuovi posti di lavoro sono quasi tutti precari e nelle aziende che rallentano la produzione i lavoratori e le lavoratrici non hanno spesso la capacità contrattuale per dare vita a delle lotte. Tutto ciò si somma al burocratismo sindacale, a un sindacato vissuto dai lavoratori come elemento istituzionalizzato, come sportello, come servizio. Questa mentalità non si sconfigge da un giorno all’altro e spesso i settori meno coinvolti da questa mentalità, come le lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo e della cultura, fanno meno rumore rispetto alle grandi vertenze industriali.
Dopodiché siamo consapevoli del paradosso per cui il processo che abbiamo lanciato, che ha chiaramente un’ispirazione classista nel senso più generale e non economicista del termine, vede oggi una discussione minore proprio all’interno delle organizzazioni sindacali. Però una simpatia e un processo di discussione c’è, e per noi il modo migliore per coltivarlo non è denunciare l’assenza di alcuni settori sindacali ma coinvolgere le lavoratrici e i lavoratori nella crescita di questo processo. Per farlo vogliamo continuare a stimolare il fermento che c’è potenzialmente in alcuni settori della società e che a un certo punto può contagiare le lavoratrici e i lavoratori, come è successo in tanti altri momenti storici sia in Italia che a livello internazionale.
Guardando alle esperienze del recente passato, avete sostenuto che alcune scadenze di sciopero sono state vissute come una routine. Cosa intendete quando dite che lo sciopero generale e generalizzato debba essere un processo e non una semplice data? E quali spunti utili sono venuti dal confronto dell’assemblea su questo processo da costruire?
Dire che lo sciopero generale e generalizzato debba essere un processo potrebbe essere equivocato con un approccio attendista. Non è così. Noi crediamo che lo sciopero debba misurarsi con la propria efficacia e con la propria continuità. Non ci interessano scioperi generali come date senza continuità e senza capacità quantomeno di generare un dibattito nel paese rispetto alla piattaforma. Pensiamo che la nostra ossessione debba essere spostare i rapporti di forza tra le classi e questi si spostano attraverso gli scioperi generali ma non solo. Lo sciopero si può generalizzare con le mobilitazioni del movimento studentesco, con le campagne di boicottaggio, con manifestazioni cittadine e territoriali. Per questo proponiamo di partire da scadenze macroregionali in cui si articolino per campagne, partendo dai punti di forza del territorio, un crescendo di mobilitazioni. Se riusciamo a produrre questo crescendo di mobilitazioni poi la discussione su come arrivare allo sciopero generale si scioglie da sola. Faccio un esempio: per costruire le condizioni per uno sciopero generale dovremmo essere in grado di organizzare a Genova una grande convergenza partendo dalla mobilitazione contro il traffico di armi nei porti, visto che è quello il tema che caratterizza quel territorio. Così come dovremmo avere la capacità e la forza di fare una mobilitazione a Torino contro l’alternanza scuola-lavoro e contro le misure repressive nei confronti degli studenti torinesi. Prima delle lotte operaie del ‘69 c’è stato il movimento del ‘68 in cui sono «cadute le statue» e si è creata un’effervescenza e un immaginario collettivo alternativo in grado di sorreggere e dare forza allo stesso strumento dello sciopero. Vorremmo partire da qua e poi discutere le date sul calendario.
Oltre che una vertenza di lavoro siete anche un esperimento di comunicazione, in grado di rifiutare la retorica vittimista che individualizza i problemi sociali e andare oltre la propria «bolla» di ascolto. Viviamo in un continuo stato d’eccezione, in cui le emergenze si susseguono impedendo di focalizzare le reali linee di frattura e mettendo all’angolo qualsiasi discorso di opposizione. È un vero e proprio stile di governo che con la pandemia e la guerra è diventato sempre più pervasivo. Per provare a divincolarsi da questa dimensione avete proposto lo slogan «Fuori dall’emergenza, dentro l’urgenza». Cosa intendete?
Le nostre mobilitazioni devono avere chiaramente la capacità di rispondere agli avvenimenti più eclatanti della crisi di sistema, le cosiddette emergenze (pandemica, bellica, domani idrica, ecc.). Non abbiamo, oggi, la forza per imporre un dibattito pubblico differente dalle emergenze a cui di volta in volta il sistema ci mette di fronte. Però dobbiamo avere la consapevolezza che la nostra riflessione, la nostra accumulazione di sapere e iniziativa, non può essere ogni volta stravolta dall’ultima emergenza del sistema che, a sua volta, genera un dibattito emotivo che viene utilizzato per restringere gli spazi di discussione e mobilitazione. A volte lo scoppio di un’emergenza può anche aiutare ad avere una visibilità mediatica: in fondo la visibilità della nostra vertenza è stata anche il frutto di un licenziamento subito appena dopo lo sblocco dei licenziamenti da parte del governo. Ma questi meccanismi il 99% delle volte invece li subisci.
La lotta sulla questione pandemica e contro la guerra chiama in causa problemi sistemici per cui le battaglie su temi apparentemente slegati come la crisi ambientale – che viene ora improvvisamente derubricata e rimandata –, le lotte contadine, la nostra stessa lotta contro la delocalizzazione, quelle sull’alternanza scuola-lavoro ecc., devono continuare a essere approfondite. Gli slogan «Per questo, per altro, per tutto» e «Fuori dall’emergenza, dentro l’urgenza» servono a non farci travolgere dall’ultima emergenza e a non avere tra di noi un approccio che non va mai in profondità e non accumula una nuova classe dirigente. Dopodiché rifiutiamo anche lo stato di emergenza che incide sulle manifestazioni, sulla riduzione degli spazi democratici come abbiamo visto durante la pandemia e ora di nuovo con la guerra in Ucraina. Preferiamo parlare di «urgenza», perché non abbiamo l’impazienza dell’emergenza che ci pongono ma vogliamo imporre noi la nostra urgenza di cambiamento. Le urgenze sono quelle della precarietà, dei salari, della crisi climatica, del sessismo, ecc. Sono urgenze che hanno bisogno di un cambiamento qui e ora e che invece viene rimandato dalle emergenze che ci impongono.
Ci teniamo liberi per l’autunno?
In questo momento di «staffetta» procederemo ancora con degli «Insorgiamo tour», ossia con incontri bilaterali in cui ci proponiamo come Collettivo di fabbrica di Gkn di fare da collante con altre realtà per produrre poi decisioni condivise. Quindi il «tenevi liberi per l’autunno» proveremo a deciderlo tutti insieme e a darci le forme più partecipate possibili per decidere che tipo di iniziativa sarà: un corteo nazionale, un’articolazione territoriale o se avremo la forza per lanciare uno sciopero generale.
Sicuramente stiamo lanciando una chiamata a tutte le reti politiche, sociali, ambientaliste, ai movimenti, ai comitati e ai singoli per sviluppare una convergenza con un appuntamento comune in autunno. Vogliamo che si eviti lo stillicidio, a cui abbiamo assistito nel recente passato, in cui la fretta delle organizzazioni sindacali, politiche e di movimento è di mettere le proprie scadenze sul calendario autunnale per guadagnare una presunta centralità di bandiera che poi non incide nel dibattito del paese.
Ci sarebbe bisogno ogni fine settimana di un «tenetevi liberi» ma riteniamo che non ci siano i rapporti di forza per farlo e pensiamo all’autunno per avere un periodo di ulteriore organizzazione in cui amalgamare il calendario di tutte le nostre iniziative e lotte per renderle più forti e incisive. Possiamo farlo in varie forme, ma l’importante è che continui la capacità orizzontale di rimandi tra lotte e reti politiche, sociali e sindacali esistenti.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 18 maggio 2022