Sotto il nobile cappello delle linee guida per il nuovo contratto di servizio che lega l’azienda allo stato, si appalesa un improprio riferimento ai programmi di approfondimento. Lì si rintraccerebbero, infatti, valutazioni di merito sulla struttura e sui modelli dei talk. In verità, il sapore della vicenda è proprio quello tipico delle censure. Il riferimento a casi concreti non è puramente casuale. Voci di dentro inducono a pensare che sul banco degli imputati vi sia Cartabianca, il programma condotto da Bianca Berlinguer. Dagli altari alle polveri?
Paradossalmente, l’unica serata dedicata dalla Rai al citato format ormai dilagante nei palinsesti, verrebbe cancellata. La scelta del tempo televisivo ha dell’incredibile. Visto che nelle logiche di chi dirige la baracca l’indice di ascolto è considerato un valore sacrale, Cartabianca viene cacciata all’inferno quando è ai suoi massimi di consenso, avendo battuto ultimamente gli immediati concorrenti della serata Fuori dal coro di rete quattro e Di martedì de La7.
Ovviamente, il delitto è tutto politico: le interlocuzioni scelte non sono univoche, ci sono pensieri diversi e calca gli studi il conclamato nemico pubblico Alessandro Orsini (nessuno è perfetto, ma qui non conta). In epoca di liste di proscrizione, di disinteresse verso il 48% della popolazione che vuole la pace e non le armi, di dileggio bullistico verso chi dissente un po’ dalla linea bellicosa e subalterna alla Nato scelta a palazzo Chigi, Bianca Berlinguer va messa all’indice. Del resto, l’etichetta di putinismo è appiccicata alle vesti di chiunque non reciti il copione prestabilito, ivi compreso Papa Francesco.
Non si intende lisciare il pelo ai talk, troppo spesso luoghi di lite studiata a tavolino, popolati da ospiti che interpretano un personaggio prestabilito, a pagamento o meno. Naturalmente, l’esibizione è richiesta con lo stile delle curve da stadio, per favorire risse cui si attribuisce il potere salvifico di aumentare lo share. Serve, certamente, una riflessione operosa, volta a correggere non una punta polemica o l’altra, bensì una tendenza moltiplicata dall’età del Covid e ora dalla tragedia della guerra.
Lo scorso mercoledì 4 maggio la commissione parlamentare di vigilanza ha ascoltato in audizione l’amministratore delegato Carlo Fuortes. Già in tale sede è emersa, pur senza indicare titoli o nomi, l’ostilità verso i talk. Tuttavia, il discorso poteva essere un monito contro volgarità o calcolate esasperazioni, non il prequel di una restaurazione. Eppure, la lettura dei commentatori – chi entusiasta, chi critico- è stata pressoché univoca.
Sarà il direttore della apposita direzione degli approfondimenti Mario Orfeo a dire l’ultima parola? La Berlinguer è il capro espiatorio di una Rai in difficoltà? E non è stato irrituale l’incontro dell’ad -avvenuto a ridosso dell’audizione- con il sottosegretario alla presidenza del consiglio Roberto Garofoli? La Rai è definitivamente una costola del governo, come preconizzò la brutta legge del 2015 voluta da Matteo Renzi?
Insomma, si sta perdendo una delle caratteristiche peculiari del servizio pubblico radiotelevisivo, prevista dalla riforma del 1975. La vecchia azienda monopolistica cambiò natura, ma a condizione di divenire il tempio del pluralismo. Se quest’ultimo tratto lascia il passo all’omologazione coatta, il contratto di servizio diviene un inutile orpello, in quanto è lo stesso servizio pubblico a cessare di esistere.
Ecco la posta in gioco. La critica non deve mai sfociare nella censura.
In simile quadro colpisce la determinazione contro Cartabianca di esponenti di un partito democratico in passato tutore delle libertà e dell’articolo 21 della Costituzione. Quanta acqua, davvero troppa, è passata sotto i ponti. Che cos’è oggi il Pd? Il giudizio va dato non sulle intenzioni astratte espresse nei convegni o nelle Agorà, bensì sulle pratiche reali.
Siamo di fronte ad una sequenza allarmante della vita mediale italiana: sintomo di una malattia grave.
Si è arrivati al punto di evocare l’intervento del Copasir (il comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica) per vagliare ipotetiche velleità spionistiche delle giornaliste o dei giornalisti russi invitati nelle trasmissioni. Se si adottasse un così bizzarro metro di misura, avremmo scenografie spoglie e programmi deserti. Chissà quante o quanti che si siedono sotto i riflettori hanno (magari legittimamente) relazioni più o meno commendevoli.
Una proposta a Carlo Fuortes. Si eviti qualsiasi tentazione coercitiva. La Rai si esporrebbe ad una inevitabile (e sacrosanta) polemica senza fine.
Non si vuole proporre la beatificazione di Bianca Berlinguer, ma gli attacchi che subisce sono l’indice di un clima sgradevole: scene di caccia in bassa frequenza.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto l’8 maggio 20223