“Caro mio, la seconda botta non perdona”. Sono le ultime parole, chissà se premonitrici, che mi ha detto Aldo Garzia giovedì sera quando l’ho accompagnato fino alla porta della sua camera, commentando la scomparsa di un comune amico. Aldo aveva avuto già la prima botta, pesante, cattiva, ma ne era uscito grazie alla tenacia, all’attaccamento alla vita e alla solidarietà affettuosa di tante compagne e compagni. Aveva ancora tante cose da dire e da scrivere e ce l’aveva fatta, ma un incubo lo inseguiva ed era proprio il timore di un nuovo colpo che è arrivato poche ore più tardi e non l’ha perdonato: al mattino la persona che si prendeva cura di lui l’ha trovato immobile sul letto. Un ictus cerebrale, l’operazione d’urgenza, l’emorragia, il coma. Ha stretto i denti per una settimana, poi ha dovuto cedere. Forse il suo ultimo pensiero sarà stato: avrei ancora tanto da dire e da scrivere.
Con Aldo abbiamo perso un intellettuale gentile, un compagno colto, ironico e autoironico. Capace di impegnate relazioni “situazione internazionale quadro politico e nostri compiti” e di puro gossip, il compagno e la “pettegola”, sempre con il sorriso sulle labbra, una fonte inesauribile di notizie tra il serio e il faceto. Chi in tanti anni al manifesto, qualcuno a Pace e guerra o ad Aprile, l’aveva frequentato e lo accusava di politicismo non aveva capito molto di lui: la sua era una passione vera per la politica che sapeva leggere, interpretare e raccontare. Potremmo dire senza tentazioni verso l’autonomia del sociale, pur essendo attentissimo al sociale. Una vita passata tutta a sinistra, liberamente ingraiano, più precisamente magriano, non postcomunista ma semmai, se fosse obbligatoria un’etichetta, neocomunista per usare un’autodefinizione cara a Lucio Magri. “Sei diventato di sinistra?”, lo sfottemmo giovedì a cena, l’ultima cena, quando ci spiegò il suo punto di vista sulla pericolosità politica e militare insita nell’invio di armi all’esercito ucraino. Perché da sempre, finché è rimasto al manifesto, Aldo si collocava orgogliosamente “a destra”. La sera della vittoria dell’Ulivo di Prodi, al giornale c’era un clima preoccupato, quasi cupo di chi si interroga fino allo sfinimento sui limiti del riformismo. Improvvisamente, con un’irruzione al centralino fece partire la musica che invase tutte le stanze, “alzati che si sta alzando/ la bandiera popolare” e, imbracciata una bandiera, Aldo volò per quanto la sua struttura fisica gli permettesse a piazza SS. Apostoli a festeggiare. Antiautoritario, sicuramente eretico, mai settario, mi ha aiutato a rimettere insieme pezzi della comune storia superando antiche e talvolta insensate contrapposizioni, alimento e veleno della sinistra.
Aldo era un intellettuale poliedrico, di passioni ne aveva tante. Spaziava e scriveva libri, dalla Svezia di Olof Palme e Bergman alla Cuba di Fidel Castro e Che Guevara, alla Spagna di Zapatero. Amava la canzone italiana e ne decodificava i messaggi e i passaggi d’epoca, ha scritto libri su Sanremo (“Testi e storie da De Gasperi a Pippo Baudo”), parlava con professionalità di generi che facevano storcere il naso ai compagni del politically correct, aveva un debole per Gino Paoli seguito a ruota da Ornella Vanoni ma ha scavalcato gli anni Sessanta e Settanta continuando a ricercare e decodificare. Così scriveva nel 2019: “Non ho ancora deciso per chi votare alle politiche a sinistra, ma ho deciso per chi votare a Sanremo”, per Nina Zilli che pochi di noi che lo frequentavamo sapevamo chi fosse. Sapeva tutto di cinema e di letteratura cui dedicava tempo e passione, nonostante l’impegno politico nella salvaguardia della memoria: rifletteva su Aldo Natoli, su Eliseo Milani, ricostruiva un pezzo di storia del Pci e del manifesto (“Da Natta a Natta”, dalla radiazione del gruppo eretico alla guida del partito dopo la morte di Enrico Berlinguer).
Aldo ci mancherai, non lo dico per ritualità ma con le lacrime agli occhi.