Ormai Valter Malosti, direttore di Emilia Romagna Teatro Fondazione, è avvezzo a cavalcare il clima emergenziale perenne che avvolge e coinvolge le nostre vite non risparmiando certo il mondo della Cultura. Nominato in una fase interlocutoria della pandemia dopo un processo selettivo per la successione della direzione Longhi che parve a tanti un filo troppo lungo e laborioso, si è da subito trovato davanti una situazione complessa da gestire con fermezza e flessibilità. Gli ostacoli sono stati tanti e diversi, a partire dal tema di festival molto amati e attesi, forzatamente messi per il momento da parte, dei recuperi sugli spettacoli rimandati, delle produzioni comunque da avviare perché anche la quantità vuole la sua parte, dalla momentanea cancellazione di debutti molto attesi, quale quello di Kepler452 e appunto, dal tema di improvvise nuove sortite del virus tra le compagnie anche in questa Primavera che viene dal freddo, per non parlare di inciampi e ritardi sulla risistemazione prevista di diversi luoghi teatrali appartenenti al circuito di ERT.
Valter Malosti nonostante la sua pacatezza, trasmette tuttavia la sensazione di una determinazione appassionata e di idee chiare anche se aperte in molteplici direzioni: certo è ben consapevole del fatto che la direzione di un teatro nazionale vasto come una regione intera e frastagliato come un arcipelago, richieda una buona capacità di mediazione e una attenta conoscenza del territorio, specialmente se si viene da fuori, come nel suo caso. Ma è proprio cosi, o, in qualche modo esistono da parte sua relazioni forti già da tempi più remoti con Bologna, città da sempre attenta ad un certo tipo di welfare culturale, nel contempo pero, ricca anche di spinte e correnti sotterranee dal basso, intrecciate con alterne vicende, a quelle più composte e codificate?
Scorro velocemente la biografia artistica di Malosti, che di nascita torinese, arriva qui proprio da quella capitale culturale nel momento della sua più incisiva presenza pubblica li,ovvero la direzione della Fondazione Teatro Europa, una avventura riuscita sotto molteplici aspetti, come poi approfondiremo nella conversazione e che rappresenta una sfida vinta per poter rilanciare altre ambite sfide, naturalmente
Tuttavia, ben prima che accadesse tutto questo,la sottoscritta ricorda benissimo, uno spettacolo -rivelazione quale Ella, testo teatrale ricavato dal capitolo topico di un noto romanzo, creazione di quella figura anarcoide che è stata Herbert Achternbusch, poeta, cineasta, artista scomodo della cultura di lingua tedesca. Uno spettacolo onusto di rappresentazioni e premi che vedeva Malosti sorprendente protagonista in sdoppiamento femminile maschile per una tragica rappresentazione della marginalità sociale e della devianza percepita come (anche), uno stato del corpo, un modo di occupare lo spazio, una possessione quasi afasica, che il linguaggio della logica non può esprimere. La scena era quella scarna, bohemienne e fascinosissima del Teatro delle Moline, era il 1989 e in qualche modo, tutta la nostra storia stava per iniziare. Se c’è una caratteristica di cui Malosti non difetta è una certa qualità di lucidità che gli permette di non disunirsi, come direbbe Sorrentino e tenere insieme quello che è stato, con quello che è diventato all’interno di una cornice evolutiva dello stato delle cose culturali.
Ed è per questo che non ha difficoltà a rievocare quel lavoro e tutto ciò che ha rappresentato per lui, indirettamente anche per noi, mi verrebbe da aggiungere ed anche a stabilire subito collegamenti con le sue cose più recenti, quando gli chiedo dei suoi rapporti con il nostro territorio.
“In effetti, mi dice, fu quello il mio punto di svolta anche perché venne a vederlo Leo e da li in poi molte cose cambiarono. Fino a quel momento io che avevo molte passioni e un’indole piuttosto refrattaria alle appartenenze precise e alle catalogazioni, mi ero provato in varie direzioni. Nasco come artista visivo e credo tuttora sarebbe fondamentale una educazione alla storia dell’Arte e alla decodifica artistica dei linguaggi. Ho sempre cercato all’interno delle stagioni festivaliere di Ivrea, Asti e le Colline torinesi, collaterali all’incarico centrale,di collocare incontri pedagogici in questo senso, per esempio con gente del calibro di Tomaso Montanari. Ma, tornando al me stesso di allora, avevo già realizzato anche mostre, tuttavia non so se non fossi abbastanza dotato per le mie ambizioni o avessi una esigenza di totalità, fatto sta che non ero soddisfatto. Sentivo che era importante il coinvolgimento del corpo, in un contesto performativo: forse c’era poi una tradizione espressiva in tal senso, dalle mie parti.. Inoltre anche la musica mi attraeva enormemente.pensa che io posseggo una collezione di 8000 vinili…Mentre Malosti racconta, non posso fare a meno di pensare alle esperienze e collaborazioni in ambito musicale di cui le sue note biografiche mi parlano e che sono francamente un po’ più impegnative del pur ragguardevole possesso di una nutrita collezione discografica. Esperienze che non soltanto contemplano collaborazioni con musicisti colti, compositori di contemporanea tra i più raffinati, o organizzazioni di concerti ed esibizioni organiche ad ambiti teatrali, ma contemplano proprio la direzione musicale ed orchestrale da parte di Malosti stesso.
Gli chiedo del suo rapporto con Leo e mi spiega di considerarlo simile a quello che si ha con un fratello maggiore: lui era il mio vero trait d’union con Bologna, allora, mi dice. Lui mi incoraggiava a perseguire la strada attoriale e ho fatto delle cose con lui sia allo spazio della Memoria che poi al S Leonardo.
Pensa che quando poi fondai con Michela Cescon, il Teatro di Dioniso e per un periodo mi dedicai soltanto a cose organizzative,aggiunge, mi chiamò a Bologna a casa sua, per coprirmi di improperi, tirarmi le orecchie e richiamarmi alla mia autentica vocazione, per come almeno la vedeva lui. Negli anni ’90, un altro incontro fondativo per me fu quello con Luca Ronconi. Anche in questo caso, fui notato come attore in una selezione tra tanti, tutti provenienti da scuole molto illustri. Io ero l’unico li in mezzo a non averne mai fatte.Tuttavia, ero ossessionato da una mia idea di attore, forse poco praticata ancora in quei tempi e che consisteva nel coniugare un lavoro, una ricerca, sulle possibilità espressive del corpo con quella più canonica del porgere le battute. Sentivo che voce e dinamismo corporeo dovevano stare in relazione. Ricordo come importantissimo il mio incontro con quello che era il maestro della voce di Grotowsky.li ho capito che la voce, lo scandire le parole, fanno succedere, essere, delle cose in scena. Cosi come, spesso anche un certo tipo di stare con il corpo in scena, stare fermi è, può essere, come una forma del movimento. In questo senso c’è un legame speciale tra Ella, il mio lavoro sperimentale degli esordi e una delle mie ultime fatiche, Se questo è un uomo, produzione da Primo Levi che si è vista tra Modena e Bologna. Non solo per l’atmosfera plumbea, le tonalità fioche e grigiastre dell’illuminazione e della scena complessiva o per la intrinseca tragicità, ma proprio per l’uso della corporeità in un certo modo coercitivo, punitivo, concentrazionario e dunque molto trattenuto. Altrettanto in ambo i casi, si può tracciare un parallelismo a contrasto per l’uso della voce, chiamata ad interpretare il caos. Soltanto che in Ella si esprime come turbolenza, disturbo delle onde della comunicazione, mentre nel caso dei testi cristallini di Levi, si tratta di palesare la loro terribile bellezza, quella di una logica che trattiene l’orrore, in un dire pubblico che la emancipa dall’intimismo della lettura privata.
A questo punto sorge spontanea una mia considerazione sulla progressiva prevalenza nell’uomo di teatro Malosti degli aspetti registici su quelli attoriali e naturalmente una domanda su come tutto questo si concili o sia considerato conciliabile con l’attività di curatela organizzativa, la gestione di molteplici spazi, stante che si sono appena tenute due conferenze stampa sulle prossime programmazioni alle gloriose Moline e alla new entry teatro Tempio di Modena.
Valter Malosti da tempo dev’essere abituato a queste interrogazioni sul suo status e prosegue il suo ragionamento: “Certo, sempre più, ho desiderato di imparare a poter realizzare le mie idee poetiche. Ad un certo punto con Ronconi, ho chiesto di poter stare li, come una sorta di assistente, o meglio ragazzo di bottega, ad osservare, assorbire, tutto quello che c’era da sapere su questa impresa collettiva e artigiana che è costruire uno spettacolo, ma non ho mai del tutto smesso di pensare alla recitazione, anche diretto da altri per il semplice fatto che ne ho fisicamente bisogno, rappresenta una sorta di terapia personale e un modo di sperimentare lo stare e l’essere per la Scena. Certo, in Italia, so benissimo esserci un certo sospetto per chi presuma di provarsi come un tutto, ovvero un pienamente attore ed un appassionato regista, ma anche un traduttore eppoi un capocomico.. Adesso si, anche un Direttore a tutto titolo e so che anche questo può far discutere. Però ecco, ci sono due o tre cose da considerare anche su questo.
Dirigere ERT, ovvero un polo di Teatri costituitosi nel corso di una gloriosa storia di welfare culturale tipico di questi territori, per me è veramente una tappa importantissima all’interno di un percorso in progress, che mi ha portato a considerare che, dopo tanto mio far parte per me stesso, non riconoscendomi nel rincorrersi delle tendenze, potevo essere anche un artista che si mette a servizio di una comunità e non credo si possa mai prescindere dal fatto che Ert sia un servizio pubblico di qualità. Sapevo di potermi misurare su questo livello di discorso perché mi ero provato appunto a Torino trasformando un luogo, che era stato il cinema Astra in un teatro europeo, correlato a diversi festival e perché ci sono stati risultati tangibili, in un quasi raddoppio del numero degli abbonamenti nel corso del decennio. Quindi ho pensato di poter scrivere un progetto anche per i teatri di Ert
Quale consideri sia il punto del tuo operare in cui ha preso spazio questa tua disposizione?
“Nel corso della mia storia torinese ho sviluppato moltissimo l’attitudine pedagogica. Ho diretto scuole per attori e molti di loro hanno vinto premi Ubu o altri riconoscimenti: costituiscono tuttora non più semplicemente promesse, ma autentiche eccellenze del nostro teatro. Li, ho compreso che c’era anche questo mio risvolto un po’ idealistico, nell’attenzione anche al futuro della comunità teatrale, che forse, come molti della mia generazione, non avevo saputo o voluto affrontare da un punto di vista politico alto come aveva saputo fare Leo. Però di nuovo, il magistero di Leo, lavorava inconsciamente dentro di me da qualche parte. Ricordi che Leo diceva sempre che dalle cantine, sicuramente fase importante di avanguardie espressive, però bisognava poi essere in grado di andare ad occupare i grandi teatri, di parlare a pubblici vasti e differenziati, di non aver paura dei riconoscimenti?”
Quale il tuo approccio, venendo qui, visto che esiste comunque qui un policentrismo di comunità progettuali molto vivace e radicato?
“Anzitutto, quando sono arrivato qui, molto lavoro era già stato benissimo impostato dal mio predecessore e casomai era bloccato per via dell’emergenza. il tourbillon di spettacoli cui assistiamo adesso e che si rincorrono nelle varie sedi, è anche dovuto al fatto di dover recuperare spettacoli già opzionati, perché il punto vero è onorare i contratti, offrire opportunità di lavoro, salvaguardare posti di lavoro, incentivare al miglioramento, alla formazione continua, stimolare un’attenzione su questo settore delle arti performative dal vivo, che possono essere rivissute, ridisegnate, elaborate, ricreate persino in cento modalità diverse, per poter comunque arrivare democraticamente a tanti ovunque e diventare seminali di discorso pubblico, ma che, innegabilmente hanno la loro primaria ragion d’essere nell’incontro e nell’essere fisicamente esperibili. Qui ed ora, ogni volta diversamente. Ti posso dire che anche nella stagione 2023, stante intoppi pandemici continui, avremo dei “recuperi”. Ma, da un lato, il mio approccio, al di là delle contingenze e ovunque io mi sia trovato a dirigere, è sempre stato molto soft. Non si arriva in nessun posto e in nessuna situazione a fare cose, se prima non si conosce e riconosce il lavoro di chi sta li e opera da tempo. Non fraintendermi, non si tratta di una melassa di volemose bene, ma di una questione di rispetto delle identità. Percio, certo che mi sono impegnato in una indagine conoscitiva approfondita prima di venire qui, sapendo anche mi spettasse di riqualificare certi spazi, pieni di storia e memoria, anche se memoria giovane, anche molto…rock, come il DaDà di Castelfranco, che presto sarà pronto, mentre si sono risolte le altre criticità del circuito in Romagna. Certo, non abbiamo ancora le Passioni pronto, che è in via di edificazione, tramite una ristrutturazione di edifici non lontani da quelli ultimamente conosciuti. Ma poiché non si poteva lasciare Modena, che è il cuore propulsore di ERT, senza il suo baluardo più connotato, abbiamo provveduto ad avviare una piccola stagione significativa al Teatro Tempio, vicino alla Stazione, cominciando con i Kepler 452, che hanno visto rimandare il loro debutto in Arena con il nuovo lavoro all’autunno. Sempre su Bologna, abbiamo anche riaperto in questi giorni, seppure con i soliti intralci dovuti al virus, le mitiche Moline e puoi capire da quanto ci siamo raccontati fin qui, quanto io possa esserci affezionato.”
Certo, le Moline sono uno spazio storico, ma pur sempre connotato non certo alla conservazione. Allora, quale la tua policy, rispetto ai più giovani, intesi anche come pubblico e cittadinanza, non necessariamente di settore,o addetti ai lavori?
“Sia a Modena che Bologna, l’idea è di riprendere il discorso delle residenze che vengono fatte in luoghi topici in questo senso, sia geografico che artistico, come Mondaino e Santarcangelo per riproporre cose a Modena come anche alle Moline. Le Moline fanno parte di un discorso strategico rispetto a quello che dici sui giovani, data la loro collocazione nel cuore universitario e nel contempo la loro vicinanza ad Arena.
Per il resto, la mia idea sui giovani, a livello artistico personale, non è quella di puntare su forme di teatro partecipativo, che non è la mia per formazione, anche se ovviamente questo è comunque con piacere molto presente nella stagione, quanto di favorire l’accesso con forme di abbonamento e lavorare in maniera laboratoriale con loro all’anamnesi, come altrimenti potrei dire, di uno spettacolo. Sto ovviamente ritornando a Levi, alla mia rilettura di Se questo è un uomo. Io ho lavorato a lungo, con meticolosità con la Fondazione, con l’Università, con tutte le istituzioni torinesi deputate del caso, per documentarmi, per prepararmi e avrai visto che appunto si è lavorato di dettaglio e di rigore, sul suono, sulla parola, sul gesto, sulla composizione quasi pittorica e comunque il lavoro ha una sua misura, una sua classicità. Tutto possiamo definirlo fuorché pop. Ma tutti gli incontri che io ho avuto in merito con le Scuole o in Teatro con i giovani, mi hanno spalancato mondi percettivi e interpretativi profondi e inediti. La loro adesione alla dimensione tragica mi ha molto colpito, datala nostra supposta idea di una o più generazioni votate alla superficialità, indotta dalla velocità degli stimoli, all’adesione acritica ad un certo sentire edonistico, svincolato da obblighi morali nei confronti del corpo sociale. Ebbene, io posso dire che non è affatto cosi e che si sono colti tantissimi risvolti del personaggio Levi in quanto deportato, come ad esempio la dialettica serrata tra pragmatismo resiliente e vita elaborativa onirica e inconscia o anche tutto il portato di rabbia per una ingiusta condizione, di solito sommerso sotto il politically correct che la sua figura si porta dietro.
Quindi io a mio modo ho assolutamente cercato e trovato la partecipazione giovanile. Che poi questa si esplichi direttamente in forme creative -artistiche, dipende dal livello della vocazione e della proposta pedagogica. Un altro modo di rivolgersi ai giovani, è senza dubbio quello dei festival. Vie, con le sue proposte internazionali di elevatissima qualità, è senza meno uno degli appuntamenti più attesi di stagione ERT. Ebbene verrà finalmente ripreso quest’anno con recuperi e novità, che soddisfaranno habitué, addetti ai lavori, pubblici come quelli appunto giovanili avvezzi alla relazione culturale. Ci saranno sorprese, perché intendo riprendere in qualche modo lo spirito di Atlas of Transitions, un progetto molto significativo nell’ambito di Vie” [a cura di Piersandra Dimatteo, ora alla direzione di Short Teather a Roma, ndr].
Questo discorso di respiro internazionale, direi che ci proietta su un altro scenario, che è quello di genere. Saprai che ormai ci si aspetta un’ascesa femminile a vertici direttivi in moltissimi campi anche qui in Italia, unitamente ad una più evidente rappresentanza artistica delle donne nelle più svariate forme di spettacolo. Forse avrai anche sentito di questa associazione Amleta, formata da donne di Teatro. Quale la tua opinione in merito?
“Io posso dire che lo staff di Ert è sostanzialmente formato da Donne e che sono donne di rara competenza ed efficienza, ben oltre gli standard richiesti. Sono praticamente circondato da Donne nel mio lavoro e sono in gran parte attrici le mie scoperte ed allieve migliori. Credo semplicemente sia solo questione di tempo e di consapevolezza culturale generale, complessiva, della nostra società, per arrivare a quei riconoscimenti che sanciscono il riconoscimento di uno status guadagnato sul campo. Dobbiamo recuperare anche qui”
A questo punto, consideri questa direzione di Ert, un punto d’arrivo in sé o ritieni di avere desiderata e sogni nel cassetto ancora da realizzare?
“Intanto, spero comunque di aver non tanto impresso un segno, quanto di aver fatto comunque intuire almeno un certo impulso identitario, anche nelle iniziative ereditate o nelle situazioni forzate.
Tornando ai giovani, potrei per esempio riferirmi alla neonata rassegna estiva di piazza S Francesco. Fa parte un po’ del fatto di dilatare una stagione fuori dai confini abituali per affermare diversi principi di centralità artistica e di cittadinanza nelle condizioni ambientali migliori data la situazione emergenziale. E se, del resto, c’è una storica programmazione estiva cinematografica di successo in piazza, perché non potrebbe essercene una di teatro? Una opportunità in più per i lavoratori più giovani o sperimentali dello spettacolo dal vivo, cosi duramente colpiti negli ultimi tempi, una occasione in più per la cittadinanza. Non bisogna nascondersi che c’è anche un po’ l’idea di riequilibrare la fruizione di certi spazi cittadini dietro questo esperimento. L’idea di un Teatro pret à porter, non è precisamente la mia, per intenderci. Io lotto per un teatro che abbia la centralità del palcoscenico. Questo, non significa, attenzione, sempre seguendo il fil rouge del pensiero di Leo, che non possa come dicevamo, decentrarsi e farsi ovunque, significa una cosa diversa, che si sta parlando di Arte scenica che trova la sua ragion d’essere in se stessa, nella ricerca continua di forzature ai propri limiti, non certo in ragioni di mero contrasto al degrado. Ma questo comunque non mi pare sia avvenuto l’anno scorso, con numeri che hanno segnato un successo e dunque penso si rinnoverà questa programmazione. Credo che Ert nel panorama nazionale avrebbe tutte le carte in regola per vedersi assegnato lo status di polo del Teatro di ricerca. Io so che all’interno di questo discorso, vorrei ritagliarmi il ruolo di quello che cerca di portare alla massima espressione la dialettica di linguaggi tra alto e basso, tragico, comico, grottesco, esattamente come cercava di fare Leo e vorrei riformulare la figura dell’attore-autore, a partire dalla sua formazione Come avrai intuito, una delle mie chiavi interpretative del ruolo dell’uomo di teatro è quella legata alla trasmissione dell’esperienza e all’insegnamento.
Perciò si, intendo lavorare su una riorganizzazione della scuola Jolanda Gazziero( la scuola teatrale di ERT con sede a Modena), perché penso tutto si debba recuperare della tradizione del teatrante, persino da quella più retorica e trombonesca dell’800, per avere professionisti delle scene a tutto tondo e veramente resilienti. Sono convinto che si possano creare capolavori anche su commissione e anche in condizioni di semiclausura o esilio. Anche Shakespeare dovette stare lontano dal Globe, per motivi legati ad una pestilenza eppure compose in quel periodo i suoi poemetti più belli. Per questo noi non ci faremo intimidire o scoraggiare dalle circostanze.”