Piazza Fontana e la strategia della tensione. Conversazione con Mirco Dondi

di Emanuele D’Amario /
27 Marzo 2022 /

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Mirco Dondi è professore associato di Storia Contemporanea presso il dipartimento di Storia cultura e civiltà dell’Università di Bologna. Nel corso dei suoi studi si è occupato di conflitti sociali nelle campagne e della storia della Resistenza ed è autore di diverse sintesi della storia dell’Italia repubblicana, con particolare attenzione agli anni Sessanta e Settanta del Novecento, alla Strategia della Tensione ed al rapporto fra stampa, terrorismo e opinione pubblica.

Emanuele D’Amario: Professore, nel corso dei suoi studi lei si è occupato a lungo dell’eversione nera in Italia nel corso degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. All’interno della sua ricerca ha avuto modo di affrontare il tema della cosiddetta Strategia della tensione. Questa espressione, coniata per la prima volta dal giornale britannico “The Observer” nel 1969, indica una strategia comprendente una serie di attentati terroristici, i quali avevano il fine, attraverso l’uso della stampa e dei mezzi di comunicazione di massa, di influenzare e radicalizzare il clima politico del paese. Questo quadro d’azione, perseguito da settori conniventi dello Stato e dei Servizi Segreti che si servivano di militanti dell’estrema destra neofascista nel ruolo di esecutori materiali, aveva in primo luogo il fine di attribuire all’estrema sinistra questi attentati al fine di isolarla politicamente. Un altro fine era quello di iniettare paura nel corpo sociale in modo tale da influenzare e radicalizzare settori politici anche moderati che avrebbero così appoggiato, se non un ritorno ad un regime autoritario che stroncasse il pericolo terrorista e comunista, quantomeno una democrazia “protetta” che fosse capace di autosospendersi selettivamente per meglio combattere i propri nemici. Nel suo libro  L’eco del boato lei afferma che questa strategia sia intimamente connessa con quello che lei chiama, riprendendo proprio il titolo, “L’eco del boato”, ossia con l’effetto che l’attentato terroristico sortisce sulla stampa e sulla società dopo la deflagrazione della bomba. Cosa può dirci della relazione fra la bomba ed il suo eco, qual è il meccanismo che agisce dietro questa strategia? 

Mirco Dondi: La strategia della tensione e l’eco del boato hanno un rapporto molto stretto. L’obiettivo è creare consenso attraverso la paura. Quando si parla di terrorismo si indica, di solito, una strategia di lotta per la quale un movimento con rivendicazioni politiche persegue i suoi obiettivi attraverso le tattiche della guerriglia o attraverso l’attentato. Il terrorismo colpisce due volte: la prima volta materialmente, con la bomba, e la seconda volta attraverso l’informazione. I giornali di destra strumentalizzarono gli attentati al fine di ottenere un cambiamento politico o addirittura un cambiamento istituzionale. Questo clima si esprime in forma più ampia con la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 dove anche il “Corriere della Sera”, espressione dell’opinione pubblica moderata, costruisce la trappola della paura, radicalizzando i suoi titoli e le istanze di cui si faceva portatore, influenzando in profondità il dibattito pubblico.

D’A.: Si può dire dunque che la strategia della tensione fu una sorta di teatralizzazione della violenza attraverso la stampa?

D.: Si tratta di una teatralizzazione non paragonabile a quanto accade oggi. Negli anni Sessanta e Settanta l’immagine non ha ancora quel ruolo preponderante che ha al giorno d’oggi. Si pensi ad esempio al telegiornale che documentò i fatti già citati del 12 dicembre del 1969. Oggi ci aspetteremmo lunghe dirette dando un grande spazio in video ai testimoni. Al tempo la RAI realizzò pochi minuti di riprese. L’impatto vero si ebbe sulla stampa, con approfondimenti sulle indagini e costruite rivelazioni su personaggi chiave, come il tassista milanese Cornelio Rolandi che, indirizzato dal questore Marcello Guida, accusò ingiustamente l’anarchico Pietro Valpreda di essere stato autore dell’attentato.

D’A.: D’altronde, le tattiche da lei descritte si riscontravano nel nostro Paese quando il mondo sperimentava le logiche della Guerra Fredda. La strategia della tensione si inscrive dopotutto all’interno della lotta globale all’espansione del comunismo che, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, non aveva subito battute d’arresto. Eggardo Beltrametti, scrivendo la prefazione al volume dell’agente del Sid (il Servizio Informazioni per la Difesa, ossia il nostro servizio segreto) Guido Giannettini implicato nella strage di Piazza Fontana, affermò che il comunismo stava conducendo una vera e propria opera di accerchiamento nei confronti dell’Europa prendendo piede in Asia, in Africa ed in America Latina. Con questa consapevolezza, nei primi anni Sessanta inizia a diffondersi negli ambienti che appoggeranno la strategia della tensione un interesse verso le tattiche dei movimenti comunisti e anticolonialisti. Che relazione esiste fra queste considerazioni tattico-militari e la categoria più ampia della Guerra Psicologica?

D.: La Guerra Psicologica fa riferimento alla lotta, attraverso la parola e la propaganda, per la conquista delle menti e dei cuori degli uomini, per parafrasare il presidente statunitense Dwight Eisenhower. Tuttavia, questa è rivolta più verso il nemico interno che verso il nemico esterno. Per quanto riguarda la Guerra Rivoluzionaria, lo spartiacque per il caso italiano è il convegno all’Istituto Pollio, tenutosi nel maggio 1965 a Roma all’hotel Parco dei Principi. In questa sede uomini vicini agli alti gradi dell’esercito, giornalisti e uomini politici si diedero appuntamento per riflettere sulle tecniche rivoluzionarie “rosse”, che tanto successo stavano riscuotendo in tutto il mondo, per poterle utilizzare in chiave autoritaria.

D’A.: Quanto fu forte, a questo proposito, lo shock indocinese? Vedere per la prima volta un esercito professionale occidentale sconfitto da movimenti di guerriglieri deve aver influito molto sulle loro riflessioni.

D.: Senza dubbio lo shock indocinese fu forte. Tuttavia, la sconfitta di Dien Bien Phu in Vietnam subita dai francesi avvenne nel 1954. Dieci anni più tardi la guerra in Vietnam coinvolge gli Stati Uniti e non si preannuncia vittoriosa. C’era poi la guerra condotta dal Fronte di Liberazione Nazionale algerino contro gli occupanti francesi, la vittoriosa rivoluzione a Cuba di Fidel Castro e i movimenti di liberazione nazionale africani. Ciò che attira l’attenzione del gruppo del Pollio è la natura di un successo che giunge non grazie alla forza militare ma soprattutto attraverso la guerriglia e la propaganda legata però (e questo aspetto venne sottovalutato) a un seguito reale fra le popolazioni.

D’A.: Ma qual era in definitiva il risultato che gli strateghi della tensione volevano raggiungere?

D.: Comprimere il seguito del Partito Comunista e delle istanze riformatrici. Una democrazia “protetta”, nel disegno atlantista, o uno Stato autoritario sul modello greco nell’intento dei gruppi neofascisti.

D’A.: Ma se questo era il piano, per quale ragione la fase stragista della Strategia della tensione nel 1974 si ferma per poi riapparire negli anni Ottanta? Perché c’è questa falla? Lei crede che l’arrestarsi del terrorismo nero nel ’74 e l’insorgenza del rosso nello stesso anno possano essere visti sostanzialmente come un continuum di una stessa strategia tesa a colpire la sinistra in Italia?

D.: Le stragi si fermano nel 1974 sia perché progressivamente cambia lo scenario internazionale con le dimissioni del presidente statunitense Richard Nixon e la fine dei regimi autoritari nel Mediterraneo, sia perché le stragi non sortiscono l’effetto sperato dagli strateghi della tensione. Le stragi che avrebbero dovuto isolare la sinistra stavano in realtà rafforzandola con una larga parte dell’opinione pubblica che maturava una chiara coscienza antifascista. Il terrorismo rosso che cresce di intensità a partire proprio dal 1974 logora molto di più il Partito comunista rispetto a quanto non sia accaduto con le stragi nere.

D’A.: A sinistra esiste un atteggiamento ambiguo nei confronti del terrorismo rosso?

D.: Inizialmente l’opinione pubblica stentava a credere a movimenti terroristici di matrice rossa perché l’inversione delle responsabilità che ci si prefiggeva di raggiungere con la strategia della tensione attribuendo attentati non commessi all’estrema sinistra, rende il pubblico scettico. Nei primi tempi si parla delle sedicenti Brigate rosse. Quando la matrice rossa dei terroristi appare chiara, a sinistra e soprattutto nell’estrema sinistra, c’è chi dice che i brigatisti sono “compagni che sbagliano”. Il Pci assumerà una linea di netta condanna dei movimenti terroristici rossi e fornirà un importante contributo a combattere e a isolare il terrorismo rosso. 

Per saperne di più:

Mirco Dondi, 12 dicembre 1969, Laterza, Roma-Bari, 2021.

Mirco Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Laterza, Roma-Bari, 2015.

Angelo Ventrone, La strategia della paura. Eversione e stragismo nell’Italia del Novecento, Milano, Mondadori 2019

Quersto articolo è stato pubblicato su Treccani il 20 marzo 2022

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