Dal Covid non siamo ancora usciti ma a due anni di distanza sentiamo la necessità di guardarci indietro per riflettere sui comportamenti collettivi e sull’informazione durante i primi giorni della pandemia. Dopo che il 30 gennaio 2020 l’Organizzazione mondiale della Sanità ha dichiarato l’emergenza internazionale, il Covid-19 si è presentato come il quinto virus apparso dal 2003 dopo Sars (sindrome acuta respiratoria, parente stretto del Covid-19), influenza aviaria, Mers mediorientale ed Ebola.
L’estensione senza pari della malattia con il suo procedere esponenziale (sono 157mila i morti in Italia e oltre sei milioni i decessi nel mondo) ha imposto ovunque restrizioni mai viste alla vita sociale in tempi di pace. Si è inoltre trasmessa una sensazione di vulnerabilità resa reale, nelle prime fasi, dall’assenza di anticorpi nei nostri organismi. È stato però deluso chi cercava nella scienza una risposta immediata e sicura, dimenticando che in una situazione in divenire le soluzioni risentono di un’inevitabile provvisorietà e – come accade in qualunque consesso scientifico – le opinioni non sono sempre uniformi con i progressi che nascono dai dissensi e dai confronti. In questo caso non si poteva contare su un ampio patrimonio acquisitivo consolidato, dovendo, innanzitutto, identificare i responsabili molecolari dell’infettività e la dinamica della loro azione.
L’incertezza ha portato una parte del pubblico ad assumere atteggiamenti antiscientisti, per ostinata diffidenza e per la necessità di avere da subito risposte inequivocabili sulla natura delle cure e, soprattutto, sui tempi di estinzione del virus. Ogni pandemia ha poi sempre generato credenze parallele, egoismi e istigazioni contro supposti untori. La più invasiva pandemia planetaria è stata accompagnata dal più alto corrispettivo di bufale, frutto tanto di ossessività quanto della necessità di trovare scorciatoie esplicative: “Un virus cinese contro l’Occidente” o, all’opposto, “un attacco batteriologico voluto da Trump contro la Cina” o ancora, a casa nostra, “un’azione di riduzione dei pensionati ordita dall’Inps”. Sono solo alcune delle migliaia di fantasmagorie che hanno affollato la rete e che hanno indotto l’Organizzazione mondiale della sanità a parlare di infodemia, la proliferazione di pseudo notizie cresciute più rapidamente del virus, nonostante si fosse intervenuti sui social network affinché questi indirizzassero gli utenti su siti sicuri.
Trattandosi di supposizioni infondate, molte voci si sono arenate al loro primo apparire, lasciandoci soltanto testimonianza di uno stato d’animo. Si sa che ignoto e immaginazione viaggiano di conserva, con il tratto di molte dicerie pronto a offrire un motivo universale sull’equilibrio turbato. In ragione di un’ansia diffusa da una maligna sconosciuta novità, si è insinuato forte il bisogno di credere, quasi a soppiantare la necessità di sapere e di confrontarsi con i dati scientifici che emergevano.
L’evoluzione imprevedibile dei contagi ha tratto in inganno anche i mezzi di informazione. “Un’epidemia […] ampiamente sovrastimata” scriveva il Quotidiano di Sicilia il 27 febbraio del 2020. Cinque giorni dopo, il 4 marzo, Il Riformista titolava: “Virus arginato. Nessuna epidemia. Ora la smettiamo con il panico?”. Ma tutto questo era anche il riflesso delle dichiarazioni che giungevano dai centri di ricerca. Il 24 febbraio la responsabile del Laboratorio di Macrobiologia Clinica, Virologia e Diagnostica dell’ospedale Sacco di Milano escludeva che si trattasse di pandemia. Erano i giorni di un serrato confronto fra i virologi, divisi tra chi sosteneva si trattasse di un’infezione appena più seria di un’influenza e chi ammoniva sulla maggiore letalità del virus.
A livello planetario si sono sviluppate artefatte divisioni tra “noi” e “gli altri”, dove al passaggio di ciascun confine, sempre più reticolato, “i noi” sono diventati “gli altri” ovvero a seconda del luogo in cui ci siamo trovati, ciascuno di noi è divenuto “potenzialmente contagiante”. Anche in Italia abbiamo visto crescere i nostri confini, decisamente più solcati nelle tracciature regionali (“i contagi dai turisti del Nord”) accanto a una dialettica, anche accesa, tra poteri locali e governo nazionale.
La ricerca di informazioni, il martellamento ossessivo che i media hanno effettuato sul Covid, è stata in funzione di dominare l’angoscia che cresceva benché l’intento didascalico abbia prodotto anche ragguagli erronei, distillando nuove ansie anziché dominarle, ma non ci si poteva girare dall’altra parte. La conta quotidiana dei morti non è stata “una danza macabra dell’informazione”, ma un atto di rispetto verso i cittadini e verso i parenti delle vittime.
“Attraverso i muri”, il documentario dell’Archivio italiano della memoria del quale sono responsabile scientifico, andrà in onda su Rete4 sabato 19 marzo in prima serata.
Questo articolo è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 18 marzo 2022