Che aria si respira a Odessa mentre incombe la guerra

di Paolo Mossetti /
15 Febbraio 2022 /

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I marinai ammutinati e «l’occhio della madre» occuperanno sempre un posto speciale nella storia, ma vista da vicino, la Scalinata Potemkin di Odessa è piuttosto insignificante. Desolata come un sacrario militare, in una gelida mattinata di inizio febbraio vediamo giusto una famigliola con bimbo che vi si inerpica verso l’alto, seppur senza l’iconica carrozzina eisensteniana. Saliamo anche noi in cima, sotto i colpi di un vento sferzante, notando come la discesa monumentale finisca presso un molo per vaporetti costruito orribilmente, tagliato a sua volta dai binari della ferrovia. In lontananza si scorge la guardia costiera ucraina che pattuglia il Mar Nero, cupo promemoria dei venti di guerra che soffiano sull’Europa orientale mentre in Italia si è da poco concluso Sanremo.

Arriviamo nella città portuale quando la manifestazione musicale si sta concludendo, e in pochi giorni giorni sentiamo Joe Biden consigliare agli statunitensi di andarsene dall’Ucraina, perché la situazione butta male, mentre la visita lampo del presidente francese, Emmanuel Macron, a Mosca si è risolta in un nulla di fatto. Nel momento in cui scriviamo Mosca ha dispiegato oltre 130mila soldati vicino al confine, e minacciato di intraprendere non meglio precisate azioni punitive se le sue richieste non dovessero essere esaurite, tra cui quella di tenere la Nato lontana da Kiev. In questi giorni, la Marina militare russa ha anche annunciato una serie di massicce esercitazioni davanti alle coste ucraine. C’è chi teme che altro non sia che il preludio di un blocco navale.

In questo contesto che qualcuno già descrive come pre-apocalittico, o come l’escalation più grave in Europa dal 1938, la musica italiana è onnipresente. Nella modesta trattoria Nonna si sente la voce dei Måneskin, qui adoratissimi. Nelle bancarelle si vendono vinili di Toto Cutugno. Un cartellone per strada annuncia l’arrivo imminente dei Ricchi e Poveri mentre dall’altoparlante di una giostra immobile che dà sul mare parte Soli, di Celentano. Al tradizionale ristorante Kumanetz, i cui interni sono rivestiti in pesante legno intarsiato, i televisori sono sintonizzati sulla competizione canora più importante della Penisola, nonostante qui la frivolezza genderfluiddei concorrenti non entusiasmi. Ci chiediamo se sarà l’autotune incorporata di Mahmood ad accompagnare la Terza guerra mondiale di cui si parla in questi giorni.

La quiete prima della tempesta?

Odessa sembra vivere in superficie una calma placida: la vita scorre lenta, le folle del turismo estive sono lontane ma l’atmosfera è quella di una qualunque città dell’est in questo periodo: i bar hanno pochi avventori, ma più per le insolite nevicate e le tasche vuote – pil crollato del nove per cento l’anno scorso – che per la paura delle bombe, e meno ancora per il Covid. Nella catena di supermarket Silpo, dove mandano continuamente Mamma Maria, gli odessani fanno la spesa senza accalcarsi e senza scorte. Oppure vanno pazzi per il matcha latte, beverone al sapore di tè verde giapponese. E litigano, stanno su Tinder, producono campagne marketing, codificano, evitano il più possibile la politica.

Ufficialmente la Russia nega di voler invadere il suo vicino. Ma gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna e altre potenze sembrano suggerire invece che un assalto su larga scala potrebbe accadere in qualunque momento. I critici della Nato dicono che il patto atlantista ha tirato troppo la corda circondando Mosca con un numero crescente di truppe e basi missilistiche, mentre tentava di strozzarla con sanzioni economiche. Dall’altra parte il Cremlino è accusato di avere in testa un imperialismo quasi ottocentesco, legato a un’idea di sfera d’influenza ormai più immaginaria che reale, che nasconde una fragilità di fondo.

Se c’è chi disegna un cataclisma capace di mettere a confronto potenze atomiche e di coinvolgere l’intero vicinato, quel che è certo è che la società ucraina è già spaccata, dolorosamente, tra russofili e patrioti, con un allargamento della faglia apertasi nel 2014, quando Mosca fece sua la Crimea e installò gruppi separatisti nei territori orientali.

Secondo Volodymyr Dubovyk, che insegna relazioni internazionali all’università Mechnikov di Odessa, «il miglior sponsor del nazionalismo ucraino è stato in questi anni proprio Vladimir Putin», con il suo tentativo di rosicchiare un pezzettino di Paese alla volta, convinto di non incontrare opposizione. Ma quanto è presente in società la voglia di andare ancora più a ovest? «A livello popolare, moltissimo: la gente sogna l’Ue perché vuole viaggiare, avere opportunità di lavoro migliori, avere più fondi». Gli abitanti di Odessa sono abbastanza equamente divisi tra pessimisti e ottimisti sull’esito delle tensioni in corso. Tra i secondi ci svettano gli autisti dei taxi, che qui competono selvaggiamente per pochi euro tra almeno una mezza dozzina di servizi – Uklon e Bolt le app più popolari – ci dicono che Biden o Macron daranno un contentino a Mosca e tutto tornerà nella mediocrità di sempre. «Il problema principale di Odessa? Il traffico».

L’approccio alla calma viene dall’alto: il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ex attore comico diventato populista professionale, dice che se la comunità internazionale non si dà una calmata la guerra diventerà una profezia che si autoavvera. C’entra anche l’economia: il panico continuo frena gli investimenti, disincentiva i consumi, blocca i cantieri – che nella periferia di Odessa hanno tirato su nell’ultimo decennio palazzate enormi, come il mostruoso complesso di nome Altair.

Conquistare la sonnolenta ma vitale Odessa, che possiede forti connessioni affettive con la Russia, sarebbe la ciliegina sulla torta per Putin. Far risalire le sue truppe verso il nord partendo da qui consentirebbe la creazione di un corridoio che connette il Mar Nero col Donbas, regione controllata dalle milizie filorusse. Altre sono in attesa di un via libera nella vicina Moldova. Attaccare questo centro cruciale, dove ogni famiglia ha almeno un parente che lavora sulle navi, dove ogni quartiere ha la sua agenzia di collocamento per marinai – frequentata peraltro da molti occidentali, stranieri di ogni etnia, balordi e sbandati – spezzerebbe una catena critica di approvvigionamento per Kiev e per la Nato.

Una società divisa

Le facciate della città, decadente ma dall’urbanistica razionale, costruita nel Settecento dall’imperatrice Caterina II di Russia, possono essere deliziosamente decorate, dai colori pastello, con finestre e ingressi sontuosi sorretti da cariatidi, Atlanti, vestali greche come le colonie fondate nell’antichità sul Ponto. Entrando nei portoni si vedono grovigli di cavi elettrici e telefonici inestricabili, che conducono in cortili malmessi con ogni tipo di attività: studi di avvocati, dentisti, calzolai, autorimesse, ma anche vecchie auto sovietiche e camion abbandonati.

Città pianificata a tavolino e insieme regno dell’improvvisazione, uno dei suoi tratti inconfondibili sono i balconi chiusi, a veranda, quasi sempre con terribili lamiere, retaggio degli anni anarchici post-indipendenza. Trent’anni fa molti abitanti, divenuti proprietari degli appartamenti in cui vivevano, si rivolsero a maestranze a basso costo e si fecero costruire estensioni alle finestre con materiale scadente, che regalava spazio ma isolava poco o nulla dal freddo. Così l’abitudine sovietica di fare grandi scorte portò gli odessani, nell’incertezza disperata, ad accumulare cibo sufficiente per più di un anno. Quei balconi ancora oggi nascondono patate, cavoli, conserve di carne e di pesce, ma anche attrezzature da sci, giocattoli che non servono più, pile di giornali.

In questa città il Covid, come in altre dell’ex blocco sovietico, praticamente non esiste. Lasciare il Paese è quasi impossibile ma mascherine al chiuso le porta solo qualche cameriere, o qualche cassiere al supermercato; all’aperto non le ha mai volute nessuno, nemmeno i vecchi, anche quando a novembre i morti per il virus hanno sfiorato i mille al giorno, su una popolazione di 44 milioni. A febbraio i contagi sono ai massimi storici, ma solo un abitante di Odessa su tre è vaccinato. La sfiducia nei confronti della pedagogia di Stato e dello Sputnik russo è radicatissima. Una certa predisposizione stoica della popolazione fa il resto.

In apparenza la guerra è ancora lontana. Quando le temperature scendono sotto lo zero uno dei passatempi preferiti per la borghesia ucraina sono le terme. Nella moderna spa chiamata Nemo, gli adolescenti scattano selfie mentre nuotano con dei delfini e i genitori poltriscono tra i fumi delle saune. Nel grande mercato dell’usato di Starokonka ci sono molte donne attempate, di origine turca o ebraica infagottate in giubotti di piuma, che vendono cianfrusaglie dell’Urss; gli studenti d’arte nel fine settimana si svegliano a mezzogiorno e vanno lì a rovistare. Al’ingresso del discobar Molodost, di venerdì sera, ci perquisiscono da capo a piedi ma poi dentro vediamo dei ventenni alti un metro e novanta ballare i classici dell’hip-hop, altri mangiano la loro insalatina ai tavoli o scorrono Instagram con unghie lunghissime.

A casa però le famiglie sono divise, mi confessa una ragazza che serve ai tavoli. Suo padre è nostalgico dell’Urss, pensa che ricongiungersi alla vecchia patria possa essere uno scossone salutare per la corrotta classe politica ucraina, e tanto l’economia non può andare peggio di così; la madre non ne vuol sentire parlare, vuole per i suoi figli l’opportunità di studiare all’estero, e ricorda che trent’anni prima gli ucraini erano l’ultima ruota del carro, trascurati e derelitti.

A Odessa il russo è parlato come prima lingua da otto abitanti su dieci, nonostante una aggressiva campagna di «ucrainizzazione» che negli ultimi anni ha costretto i palinsesti televisivi a trasmettere almeno il 75 per cento dei programmi in ucraino, e così le radio per almeno il 35 per cento delle canzoni. Un cambiamento vissuto come un affronto illiberale da molti russofoni di Odessa, che continuano a usare la loro lingua franca in pubblico e a casa. E si chiedono come potrebbe mai l’Unione Europea – che ha fatto della tutela delle minoranze uno dei suoi vanti – ammettere un Paese che si comporta in questo modo.

Insomma sotto la calma di Odessa pulsano antiche cicatrici. L’imponente Casa dei Sindacati, che nel maggio 2014 fu data alle fiamme dai nazionalisti ucraini, oggi è restaurata e nel piazzale di Kulykove Pove c’è più movimento umano che in una media città italiana negli stessi giorni. Ma le mura annerite della Casa avevano ricordato per mesi il massacro avvenuto in una città solitamente pacifica: il governo filorusso era stato sostituito con uno filoeuropeo, e una piccola galassia di militanti comunisti, putinisti, e separatisti vari si erano accampati nell’edificio per protesta: in 48 trovarono la morte, carbonizzati.

Se è già successo una volta significa che può succedere ancora. Anche qua, dove i coffee place nei quali gli aspiranti cosmopoliti ripassano per gli esami, s’incontrano e ascoltano podcast sono gli stessi di una qualunque città europea, dove le canzoni non sono quelle del kitsch italiano ma del gusto medio starbucksiano. La vecchia teoria di Thomas Friedman secondo la quale due paesi che hanno McDonald’s non potranno più farsi la guerra è stata smentita già da almeno vent’anni. I conflitti odierni possono coincidere temporalmente anche anche con le più leggiadre o innocenti manifestazioni dell’ingegno dell’uomo – come i meme sanremesi – e chissà se non sarà la Generazione Z ucraina a provarlo sulla sua pelle.

Questo articolo è stato pubblicato su Esquire il 14 febbraio 2022

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