Il respiro della matematica

di Cristian Raimo /
30 Gennaio 2022 /

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Se vogliamo parlare seriamente di divulgazione scientifica dobbiamo affrontare quello che è il vero nodo politico. Una divulgazione scientifica di alto livello non può esistere senza una ragionata riflessione su come condividere saperi matematici. Ed ecco il problema: fatemi un nome di un matematico che interviene nel dibattito pubblico italiano. Non c’è. Ogni tanto Chiara Valerio, da scrittrice che ha avuto una formazione matematica; ogni tanto ancora Piergiorgio Odifreddi, sempre più marginale; ogni tanto Alessio Figalli, medaglia Fields, che ha una fandom, un seguito molto più grande di quello che si pensa. Anche la loro presenza è sporadica, il vuoto rimane e ha un valore simbolico: è il vuoto della matematica nella cultura diffusa di un Paese. Con la pandemia è stato lampante: persone istruite che potevano ignorare benissimo la differenza tra una crescita lineare e una crescita esponenziale, che non hanno idea di come funzioni una scala logaritmica, che si impicciano a calcolare le percentuali.

Qualche mese fa sul Corriere della sera usciva un pezzo firmato dall’ultimo premio Strega, Emanuele Trevi, che scriveva: «Non so nulla di matematica e statistica, ma è un’operazione elementare: prendi il bollettino di oggi, quello dello stesso giorno di un anno fa, e li confronti. Scacco matto? Macché. Rimane comunque un discreto numero di persone pronte a riderti in faccia. A volte mi sembra che l’unica vera consolazione rimasta sia lo studio dei tipi umani e psicologici rivelati da questa catastrofe a tempo indeterminato».

Il pezzo, come è capitato spesso negli ultimi due anni, conteneva una serie di rilievi sulla gestione politica del contrasto alla pandemia. Ma non è questo il punto su cui focalizzarci, quanto piuttosto l’espressione di preterizione che Trevi usa: «Non so nulla di matematica e statistica».

La matematica e la statistica non sono saperi specialistici, sono discipline che si studiano in forma non specialistica alla scuola dell’obbligo in tutti gli indirizzi di studio. Posso non sapere nulla di angiologia o di ingegneria aerospaziale, anche se comunque posso formarmi delle idee di base, ma non di matematica e statistica. È come se uno scienziato dicesse: «Non so nulla di storia e di poesia». Non si screditerebbe da solo?

A partire dalla stima infinita che provo per Trevi e al contempo dalla preoccupazione che dichiarazioni di questo genere mi suscitano, ho deciso dopo avere letto il suo articolo di provare a innescare una mobilitazione politica sul bisogno esteso di matematica. Ho scritto un post su Facebook, in cui chiedevo a professori e appassionati di matematica se avessero voluto far parte di un collettivo che si occupasse in modo militante della diffusione dei saperi matematici. Mi hanno risposto circa 130 persone, rettori e insegnanti delle medie, premi Nobel e studenti universitari. Tutti condividevano la stessa urgenza: più matematica.

Se vogliamo parlare seriamente di divulgazione scientifica dobbiamo affrontare quello che è il vero nodo politico. Una divulgazione scientifica di alto livello non può esistere senza una ragionata riflessione su come condividere saperi matematici. Ed ecco il problema: fatemi un nome di un matematico che interviene nel dibattito pubblico italiano. Non c’è. Ogni tanto Chiara Valerio, da scrittrice che ha avuto una formazione matematica; ogni tanto ancora Piergiorgio Odifreddi, sempre più marginale; ogni tanto Alessio Figalli, medaglia Fields, che ha una fandom, un seguito molto più grande di quello che si pensa. Anche la loro presenza è sporadica, il vuoto rimane e ha un valore simbolico: è il vuoto della matematica nella cultura diffusa di un Paese. Con la pandemia è stato lampante: persone istruite che potevano ignorare benissimo la differenza tra una crescita lineare e una crescita esponenziale, che non hanno idea di come funzioni una scala logaritmica, che si impicciano a calcolare le percentuali.

Qualche mese fa sul Corriere della sera usciva un pezzo firmato dall’ultimo premio Strega, Emanuele Trevi, che scriveva: «Non so nulla di matematica e statistica, ma è un’operazione elementare: prendi il bollettino di oggi, quello dello stesso giorno di un anno fa, e li confronti. Scacco matto? Macché. Rimane comunque un discreto numero di persone pronte a riderti in faccia. A volte mi sembra che l’unica vera consolazione rimasta sia lo studio dei tipi umani e psicologici rivelati da questa catastrofe a tempo indeterminato».

Il pezzo, come è capitato spesso negli ultimi due anni, conteneva una serie di rilievi sulla gestione politica del contrasto alla pandemia. Ma non è questo il punto su cui focalizzarci, quanto piuttosto l’espressione di preterizione che Trevi usa: «Non so nulla di matematica e statistica».

La matematica e la statistica non sono saperi specialistici, sono discipline che si studiano in forma non specialistica alla scuola dell’obbligo in tutti gli indirizzi di studio. Posso non sapere nulla di angiologia o di ingegneria aerospaziale, anche se comunque posso formarmi delle idee di base, ma non di matematica e statistica. È come se uno scienziato dicesse: «Non so nulla di storia e di poesia». Non si screditerebbe da solo?

A partire dalla stima infinita che provo per Trevi e al contempo dalla preoccupazione che dichiarazioni di questo genere mi suscitano, ho deciso dopo avere letto il suo articolo di provare a innescare una mobilitazione politica sul bisogno esteso di matematica. Ho scritto un post su Facebook, in cui chiedevo a professori e appassionati di matematica se avessero voluto far parte di un collettivo che si occupasse in modo militante della diffusione dei saperi matematici. Mi hanno risposto circa 130 persone, rettori e insegnanti delle medie, premi Nobel e studenti universitari. Tutti condividevano la stessa urgenza: più matematica.

Esistono centinaia di iniziative di divulgazione matematica in Italia, ci sono migliaia di persone coinvolte in progetti di rinnovamento della didattica della matematica, ma tutto questo riesce difficilmente ad avere un accento dichiaratamente politico. La conoscenza matematica invece è politica, proprio perché si tratta di «rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana» e la sua partecipazione all’organizzazione della società, come recita l’art. 3 della Costituzione. C’è una tradizione smagliante in Italia di matematici – e di matematiche anche, e la questione di genere anche qui non è secondaria – che hanno interpretato in questo modo la loro ricerca scientifica, la loro attività didattica, il loro attivismo politico: da Vito Volterra, uno dei dodici professori che rifiutò di giurare fedeltà al fascismo e che pagò questa scelta con l’espulsione dall’università, a Emma Castelnuovo, che nel dopoguerra per esempio decise di creare i convitti per la rinascita dove i reduci della Resistenza potevano studiare e diplomarsi, a Lucio Lombardo Radice, di cui da pochissimo Viella ha ripubblicato le lettere che tra il 1939 al 1941 scrisse dal carcere ai suoi familiari, a Renato Caccioppoli, la cui militanza antifascista era ancora più franca e iconoclasta, come Mario Martone raccontò in Morte di un matematico napoletano. Del resto, come potrebbe essere se non così? La matematica è la condivisione di un linguaggio universale, e l’ambizione a trovare un codice comune per la conoscenza del mondo intorno a noi che ci possa aiutare a migliorarlo.

Questo articolo è stato pubblicato su Treccani il 30 gennaio 2022

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