La Repubblica in riserva

di Lorenzo Zamponi /
24 Gennaio 2022 /

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Trent’anni di Seconda Repubblica hanno acuito la crisi in cui annega la democrazia italiana. Nella partita per il Quirinale assistiamo a una gara tra forzature autoritarie di segno diverso. La soluzione sarebbe invece nella direzione opposta

Il chiacchiericcio politico quotidiano su stampa, tv e social network è monopolizzato ormai da settimane dall’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Non senza, va detto, un grande sforzo di fantasia per trovare ogni giorno cose e scenari da raccontare, perché la situazione è identica a sei mesi fa, a un anno fa, a due anni fa: la destra candida l’eterno cerone di Silvio Berlusconi, proposta che suonerebbe offensiva dei fondamenti democratici e costituzionali se ormai non fossero ampiamente saltati; l’establishment mediatico e finanziario candida Mario Draghi, presidente del consiglio tecnico in carica e selezionatore designato del proprio successore, senza essere stato mai votato da nessuno; il centrosinistra non ha alcuna proposta né strategia, frastornato dalla prospettiva di non essere più, per la prima volta nella Seconda Repubblica, il partito del Quirinale, e stretto nella morsa del sostegno al governo Draghi; il Movimento Cinque Stelle risulta disperso in guerra, dilaniato dalla competizione interna e impegnato in manovre sotterranee che fanno rimpiangere l’epoca delle «Quirinarie» tra Stefano Rodotà, Milena Gabanelli e Gino Strada. 

Del resto, dopo Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, i «grandi vecchi» della Prima Repubblica sono sostanzialmente finiti, così come le grandi personalità dell’accademia o del sociale in grado di attirare un consenso diffuso. Trent’anni di Seconda Repubblica non sembrano aver prodotto nulla, limitandosi a consumare idee, personalità, traiettorie e consegnandoci una gara tra forzature autoritarie di segno diverso.

B., erede di sé stesso

Trent’anni fa, nel maggio del 1992, il parlamento in seduta comune eleggeva alla Presidenza della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro al sedicesimo scrutinio, con ancora nelle orecchie il boato dell’esplosione che due giorni prima a Capaci aveva ucciso Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della scorta. Morivano in quelle ore drammatiche le ambizioni presidenziali di Giulio Andreotti e di tanti altri protagonisti della Prima Repubblica, sepolta sotto le macerie della propria incapacità di gestire con la minima credibilità la minaccia del terrorismo mafioso, gli scandali di corruzione e la crisi finanziaria. Scalfaro, reduce tra i più antichi e polverosi del vecchio regime, si trovò a essere nei sette anni successivi il contraltare politico e il contrappeso istituzionale al nuovo protagonista della politica italiana, quello che meglio di tutti ha saputo incarnare lo spirito della Seconda Repubblica: Silvio Berlusconi. Trent’anni dopo, alla veneranda età di 85 anni, Berlusconi è il candidato ufficiale al Quirinale del gruppo politico di maggioranza relativa, quello che racchiude Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia e cespugli vari.

Leggere in questi giorni le reazioni mediatiche e social a questa candidatura è un’esperienza interessante, perché, soprattutto a sinistra, si oscilla tra l’incredulità, lo scetticismo e la paura. Davvero potrebbero eleggere Berlusconi? È possibile che un uomo che nel 2011 si dimise dalla presidenza del consiglio nel giubilo popolare nel mezzo di una gigantesca crisi finanziaria, nel 2013 fu espulso dal senato in seguito a una condanna per frode fiscale e pochi mesi fa era riconosciuto in condizioni di salute troppo precarie per partecipare all’ennesimo processo penale a suo carico, stavolta per corruzione di testimoni in un processo per sfruttamento della prostituzione minorile, diventi Capo dello Stato? Se siamo portati tutti a dirci categoricamente che no, non è possibile,  è solo perché, dopo essere stati ossessionati da Berlusconi e non aver parlato d’altro per vent’anni, ora abbiamo completamente rimosso la sua vicenda, senza farne oggetto di alcuna riflessione. 

Qualche mese fa segnalavamo l’incapacità della politica italiana di liberarsi dagli anni Novanta e la necessità di storicizzare la Seconda Repubblica se non vogliamo restarne prigionieri per sempre. Perché Berlusconi non dovrebbe essere un candidato autorevole al Quirinale? La coalizione di maggioranza relativa in parlamento, e vicina alla maggioranza assoluta nei sondaggi, è la stessa destra che lui ha costruito, con lo stesso mix tra populismo autoritario e liberismo e la stessa retorica contro tasse e immigrati. La leader in pectore è Giorgia Meloni, già ministra nell’ultimo governo Berlusconi, nonché beneficiaria storica dello sdoganamento della destra post-fascista operato da Berlusconi. Il presidente del consiglio è Mario Draghi, nominato dallo stesso Berlusconi governatore della Banca d’Italia nel 2005. La politica italiana è tuttora quella che Berlusconi, insieme ad altri ma con un indiscusso protagonismo, ha costruito e animato per due decenni, la coalizione di destra si regge tuttora in buona parte sulle sue risorse economiche e l’agenda politica è tuttora dettata dalle sue televisioni. Il vicedirettore del Giornale da lui posseduto (scusate, posseduto da suo fratello), Nicola Porro, è sistematicamente nella top ten dei giornalisti più seguiti sui social. La sua sostenitrice fin dai tempi dei club di Forza Italia, nonché partecipante alla tristemente famosa occupazione dell’ingresso del Tribunale di Milano in sua difesa, Maria Elisabetta Casellati Alberti, occupa da oltre tre anni lo scranno più alto di Palazzo Madama. Perché Berlusconi non dovrebbe essere candidato al Quirinale?

Ovviamente è estremamente improbabile che la sua candidatura vada in porto: mai nessun leader politico di primo piano c’è riuscito, perché le figure di rilievo in politica sono per loro natura divisive, ed è quasi fisiologico che finiscano impallinate dal fuoco amico dei franchi tiratori, o che comunque mobilitino in senso contrario gli avversari. Difficile immaginare che riesca alla figura più polarizzante della storia della Repubblica. Con ogni probabilità, Silvio Berlusconi non sarà il prossimo Presidente: per quanto a molti commentatori piaccia raccontarlo come onnipotente e invincibile, non lo è. È probabile che la sua candidatura sia stata solo un modo per compattare la coalizione di destra nelle trattative e ottenere un presidente amico, oppure un ultimo giro di vanità per un uomo che ha fatto del narcisismo la cifra di un’era politica.  

Ma il contenuto politico della sua candidatura non si può negare: la destra italiana esiste, nella forma che Silvio Berlusconi le ha dato, è maggioranza nel paese e nelle istituzioni, per quanto relativa, e può proporre il suo esponente storicamente più rappresentativo per il Quirinale. Del resto, il governo Draghi è la cosa più simile a un Berlusconi V che si possa immaginare in questo decennio: Brunetta alla pubblica amministrazione, Carfagna al sud, l’amico Giorgetti a sbloccare i cantieri e gli appalti, l’ex rettrice vicina a Comunione e Liberazione all’università, il manager del privato al digitale e quello pubblico all’ecologia, per non parlare della mitica Mariastella Gelmini. La ricetta politica è proprio quella: una salda alleanza tra un pezzo di impresa settentrionale e l’eternamente democristiana burocrazia di stato, in nome del direzionamento ben orientato dei fondi pubblici e dell’impronta pro-business delle riforme. Una formula politica collaudatissima, made in Arcore.

L’Italia del 2022 è un paese che potrebbe tranquillamente essere presieduto da Berlusconi. Per quanto i commentatori conservatori, in particolare quelli del Foglio, anch’esso a lungo proprietà di Berlusconi (scusate, di sua moglie), raccontino il nostro paese come oppresso dalla dittatura progressista della cancel culture, la realtà è ben diversa: tutte le sere su Canale 5 va in onda Striscia la notizia con tanto di veline, e l’incarnazione più perfetta del privilegio economico e del patriarcato è un padre della patria, o quantomeno di una sua parte. Una parte che, nella disfunzionalità totale che ha caratterizzato questo trentennio di Seconda Repubblica, non ha prodotto molto altro, oltre a lui, e fatica a rottamarlo. Tant’è che, nel 2022, stiamo ancora parlando di Silvio Berlusconi, vecchio bambino come il riccone interpretato da Aldo Fabrizi in C’eravamo tanto amati, che ogni anno metteva fuori casa un fiocco azzurro per festeggiare il suo compleanno come una nuova nascita e sosteneva che non sarebbe mai morto. Ci troviamo di fronte la candidatura di Berlusconi come se fosse un nuovo tour dei Rolling Stones o di qualche altra attempata ex-rockstar: qualcosa di pateticamente rassicurante nella negazione del passare del tempo. Chi non ha eredi, del resto, è condannato in eterno a succedere a sé stesso.

Draghi e una Repubblica in riserva

L’ondata di antiberlusconismo riemersa in queste settimane non può che far sorridere, per la sua aria vintage e per l’inconsistenza politica che l’ha caratterizzata. A squalificare la candidatura della destra, secondo i commentatori mainstream, non sarebbe stato il percorso politico di Berlusconi: non la riforma del lavoro che ha condannato alla precarietà due generazioni, non le guerre imperiali in Iraq e Afghanistan e le loro centinaia di migliaia di morti, non una riforma universitaria che ha devastato il sistema di istruzione e ricerca del nostro paese, non la privatizzazione dell’acqua, non i tagli devastanti alla scuola pubblica, ai servizi sociali, alla sanità territoriale, non il pareggio di bilancio in Costituzione, non l’autorizzazione alla devastazione ambientale sistematica e alla cementificazione sfrenata, non la riduzione del parlamento a una fabbrica di leggi ad personam, non la censura dell’informazione, non il sessismo ostentato e l’oggettivazione sistematica delle donne, non l’avvelenamento costante del dibattito pubblico nazionale prodotto dalle sue televisioni da oltre trent’anni. Tutto questo non desta scandalo. Il problema di Berlusconi, ci hanno spiegato, è che non sarebbe credibile di fronte ai mercati e ai partner internazionali.

Un modo non particolarmente criptico di far emergere il vero obiettivo del neogirotondismo fuori tempo massimo di queste settimane. Se il Presidente della Repubblica dev’essere il più credibile di fronte ai mercati e ai partner internazionali, allora il nome è scontato, ed è quello di Mario Draghi. L’ex presidente della Bce è uno degli italiani più famosi al mondo, è benvoluto in tutte le cancellerie e i consigli di amministrazione, gode già del sostegno parlamentare di una maggioranza ben più ampia di quella necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica: chi può essere un candidato migliore di lui?

Se il ragionamento, nel dibattito politico quotidiano, non fa una grinza, è segno che quel dibattito politico ha qualche problema. Stiamo seriamente parlando di mandare al Quirinale, vertice delle istituzioni repubblicane, una persona che non è mai stata eletta a fare niente in quasi 75 anni di vita, non ha mai militato apertamente in un partito, in un movimento, in una corrente d’opinione organizzata, non ci ha mai fatto sapere né per chi votasse né come la pensasse sui principali temi della nostra epoca. L’anomalia democratica del governo tecnico, una peculiarità tutta italiana, sarebbe cristallizzata per sette anni ed elevata sul colle più alto, invece di vedere rapidamente la fine. 

È già successo che un presidente del consiglio tecnico, anche in quel caso ex governatore della Banca d’Italia, finisse al Quirinale, con l’elezione di Carlo Azeglio Ciampi nel 1999. Si trattò per la verità di un caso meno estremo, dato che Ciampi non era il presidente del consiglio in carica, era da tempo arruolato politicamente nel centrosinistra e comunque una storia politica, nell’azionismo antifascista, ce l’aveva. Ma le similitudini sono evidenti, e non sono un segnale di salute democratica: la democrazia italiana continua a dover ricorrere a periodici commissariamenti da parte delle burocrazie finanziarie, per il governo del paese così come per l’espressione dei vertici istituzionali. L’incapacità di costruire consenso intorno a formule politiche e leadership riconoscibili è tale che, periodicamente, si decide di saltare completamente il meccanismo del consenso popolare e di mettere in piedi governi, e presidenze, che siano estranee al gioco democratico.

In fondo, si legge, la presidenza della Repubblica è un ruolo di garanzia. Ma di garanzia nei confronti di chi? Se si postula che il senso della candidatura di Draghi è il suo ruolo di garanzia nei confronti di mercati e partner istituzionali, si rende evidente come l’equilibrio della rappresentanza sia completamente saltato. E si gioca doppiamente col fuoco: da una parte perché si rafforza l’idea della politica come élite compattamente separata dalla cittadinanza, creando vasti spazi di consenso per la destra radicale che si racconta – del tutto artificialmente – come estranea al gioco; dall’altra, perché si sottopone a stress continui la tenuta stessa del rapporto tra le istituzioni repubblicane, i cittadini, l’economia, l’Europa. Un anno fa fu questo meccanismo a forzare la grande maggioranza del parlamento a votare la fiducia a Draghi: una volta che il nome della persona che più rappresenta, in patria e all’estero, il legame tra Italia e Ue, è sul tavolo, votargli contro significa votare contro l’Ue e aprire un conflitto su quel fronte. Allo stesso modo, ora, se Draghi arrivasse magari secondo o terzo in uno degli scrutini per l’elezione del Presidente della Repubblica, il segnale sarebbe di evidente sfiducia nei confronti del suo governo e di tutto ciò che rappresenta, con conseguenze immaginabili in termini di spread, speculazione, e così via. Il ricatto «che figura ci facciamo se bocciamo Draghi», insomma, è rischioso, e non può essere ripetuto in eterno.

Già un anno fa, per la verità, si leggeva di un governo destinato a durare un anno, per poi trasferire Draghi al Quirinale. Un piano talmente spregiudicato e sprezzante dei rischi e dei danni per il tessuto democratico che non stupisce che la paternità ne sia stata pubblicamente rivendicata da Matteo Renzi. Siamo l’unica democrazia occidentale che a capo del governo non ha una persona delegata a quel ruolo da elettori, partiti, parlamento, e quindi sostituibile con una nuova delega, bensì il fondamento stesso della formula di governo presente, senza la quale c’è il forte rischio che salti tutto. Abbiamo un governo tenuto insieme solo da una cosa: l’autorevolezza di chi lo guida, secondo il ricatto di cui sopra. E in questa situazione, si cerca di promuovere chi lo guida a un’altra carica, sperando che però il governo regga.

E come si pensa di far reggere il governo? Costruendo, nel bel mezzo delle trattative per eleggere il Presidente della Repubblica, un nuovo accordo di governo, sotto la regia dello stesso presidente del consiglio candidato alla Presidenza della Repubblica, facendo guidare magari il nuovo esecutivo da un tecnico di sua fiducia. Un tecnico privo di mandato popolare passa dal governo alla Presidenza della Repubblica, da dove nomina un altro tecnico privo di mandato popolare, scelto da lui stesso, a guidare il nuovo governo, mentre lui mantiene un ruolo di garanzia e regia informale anche dal Quirinale. Tutto legale, tutto legittimo, tutto rispettoso della lettera costituzionale. Ma non dovrebbe sfuggire a nessuno che siamo ben oltre la forzatura della normalità democratica. Draghi presidente del consiglio, Draghi Presidente della Repubblica, Draghi regista del nuovo accordo sulla presidenza del consiglio che gli permetta di diventare Presidente della Repubblica, Draghi guida informalmente semipresidenziale del nuovo governo dalla Presidenza della Repubblica. 

Il dibattito sui quotidiani è su come utilizzare al meglio la risorsa Draghi: «non possiamo permetterci di farne a meno come presidente del consiglio»; «però il mandato del Presidente della Repubblica dura di più». C’è una fame tremenda di Draghi, sulla stampa e in tv, perché questo governo è la politica che l’establishment vuole. Un anno fa, come nel 2011, l’élite economica, infastidita dalla presenza di una mediazione politica tra i propri desideri e le necessità della maggioranza delle persone, è passata all’offensiva. La tentazione di far saltare la mediazione normalmente affidata a personaggi più o meno carismatici, da Silvio Berlusconi a Giuseppe Conte passando per Matteo Renzi, e prendere direttamente il potere, è sempre in agguato. Un anno fa fu colta, il Pnrr su misura delle imprese ne è stato il risultato cercato e voluto, ora si cerca il modo migliore di dare la maggiore continuità possibile a quest’esperienza. Quella che per noi è un’anomalia democratica da sanare il prima possibile, per l’establishment di questo paese è il migliore dei governi possibili: se si potesse farlo durare altri cinque anni, senza passare per fastidiose nuove elezioni, sarebbe la soluzione ideale. Non essendo l’abolizione del voto ancora un’opzione realistica, ci si accontenta di presidiare il colle più alto. In un ruolo o nell’altro, l’importante è che ci sia Draghi. L’ideale sarebbe che ce ne fossero due, in modo da fargli occupare entrambi i ruoli. Una volta sarebbe stato definito «una riserva della Repubblica», un uomo delle istituzioni a disposizione in caso di bisogno: ora, è la Repubblica stessa a essere in riserva. Se l’anomalia tecnocratica trionfa, è perché la normalità democratica, e non da oggi, è in grossa difficoltà.

Il vuoto della politica

Se il candidato che ha oggi maggiori possibilità di essere eletto al Quirinale, nonostante i problemi di equilibrio istituzionale e di accordo politico di cui sopra, è Mario Draghi, infatti, è perché non c’è (quasi) nessun altro. Se torniamo a quel maggio di trent’anni fa, all’elezione di Oscar Luigi Scalfaro, anche in quel caso c’era un gigantesco problema di credibilità del sistema politico, travolto dagli scandali di corruzione, dalla crisi finanziaria e dalle bombe mafiose, e l’unica soluzione fu affidarsi a un uomo delle istituzioni, il presidente della Camera, un vecchio democristiano conservatore di seconda o terza fascia, cercando nel passato un’autorevolezza che il presidente non offriva. Dopo la parentesi di Ciampi, le scelte furono simili: Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella erano tra gli ultimi reduci della Prima Repubblica, con l’autorevolezza e il riconoscimento che ciò comportava, o quantomeno con l’illusione di ciò. Del resto, non è una novità: già nel 1978 il primo socialista eletto alla Presidenza della Repubblica, Sandro Pertini, poteva contare prima di tutto sulla credibilità e il prestigio che gli assicurava il suo passato di combattente antifascista.

Il problema è che, nel frattempo, i reduci della Prima Repubblica, per ovvie ragioni anagrafiche, sono esauriti, e la Seconda non sembra aver prodotto alcuna figura in grado di tenere insieme una legittimità interna al sistema e un consenso popolare diffuso. In un paese in cui la politica è tutt’altro che morta, e molto si muove, come le mobilitazioni degli ultimi mesi su lavoro, clima e genere testimoniano, sembra impossibile connettere tutto ciò con quello che avviene dentro il palazzo. La Seconda Repubblica ha germogliato un sistema bloccato, mefitico, deteriorato, senza alcuna dialettica né interna né con l’esterno. In questo contesto, il centrosinistra sembra schiacciato sul nome di Draghi, come alternativa all’accettazione, per forza o per amore, di qualche nome berlusconiano come Pierferdinando Casini o Franco Frattini, per non parlare di Letizia Moratti o Marta Cartabia, esempi avanzatissimi di pinkwashing in cui mandare finalmente per la prima volta una donna nel palazzo che fu del papa re nasconderebbe il ritorno dell’eterno conservatorismo politico. 

E il Movimento Cinque Stelle, nato esattamente dalla promessa non mantenuta di rappresentanza che la crisi della Seconda Repubblica, dieci anni fa, faceva emergere, non può che prendere atto del proprio fallimento. Se nel 2013 una candidatura come quella di Stefano Rodotà aveva legittimità nelle istituzioni, nei partiti del centrosinistra, nei grillini neoeletti e nelle piazze dei movimenti contro l’austerità e per l’acqua pubblica, oggi niente del genere è in campo. Trent’anni di Seconda Repubblica, di riforme elettorali e di ingegneria istituzionale non hanno risolto la profonda crisi di rappresentanza in cui la democrazia italiana annega. Nella partita per il Quirinale assistiamo solo all’ennesimo tentativo di affrontarla tramite forzature post-democratiche. Sappiamo invece che la soluzione è nella direzione diametralmente opposta: solo una grande ondata di partecipazione democratica, che sappia portare la materialità delle vite delle persone e la vitalità della nostra società nei palazzi della politica, può far germogliare un deserto che, a trent’anni dal 1992, è sempre più arido.

Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 22 gennaio 2022

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