Esiste una questione democratica nel nostro Paese? Alcuni segnali sono preoccupanti e sarebbe bene discuterne apertamente, prendendo anche le iniziative necessarie per correggere derive pericolose.
Fuori dall’Italia, con evidenti influenze anche su di noi, cresce il numero dei Paesi che hanno derive autoritarie, settarie, atteggiamenti inumani come avviene verso i migranti al confine tra Polonia e Bielorussia, che si aggiungono ai lager che il papa ha visitato in Grecia, per richiamare un’opinione pubblica distratta, lontana, assuefatta.
Di contro non ci sono reazioni a sostegno della democrazia all’altezza delle emergenze attuali. Al contrario, il presidente del Consiglio europeo, il belga Michel (già noto per non avere battuto ciglio contro lo sgarbo di Erdogan verso La presidente della Commissione Von der Leyen), si è distinto per dichiarazioni a favore di un finanziamento dell’Unione Europea alla Polonia che vuole costruire un muro contro i migranti. Va ricordato che la Polonia è multata un milione al giorno dalla Corte di giustizia europea finchè non riconoscerà la prevalenza del diritto comunitario che imporrebbe l’abrogazione di norme che manomettono l’autonomia dei giudici polacchi.
La Costituzione del nostro paese è sotto attacco da tempo. La nostra Costituzione dal primo gennaio 1948 ha regolato, pur con sofferenze e difficoltà, la dialettica politica e sociale e ha disegnato il sistema istituzionale del nostro Paese che ha la sua centralità nel parlamento. In diverse fasi storiche la democrazia italiana ha corso rischi ma finora è sempre riuscita a trovare una maggioranza di cittadini che ha capito che occorreva reagire e respingere gli attacchi. Si può citare da ultimo il referendum popolare del 2016 (ricorre il 5° anniversario) che ha bocciato la “deformazione” della Costituzione tentata da Renzi e ne ha avviato la crisi politica come confermano i sondaggi su Italia Viva. Tuttavia, l’attuale fase politica confusa e senza chiari valori in campo continua a registrare attacchi di varia natura alla Costituzione. Dall’autonomia regionale differenziata “a la carte” che i ministri del centrodestra presenti nel governo Draghi gestiscono segretamente quasi fosse un fatto privato, trattando direttamente con le Regioni interessate. Alle dichiarazioni di Giorgetti che senza imbarazzo, visto che è ministro di questo governo che ha giurato sulla Costituzione, sostiene che Draghi potrebbe essere eletto alla Presidenza della Repubblica mantenendo alla Presidenza del Consiglio una persona a lui vicina, creando di fatto un semipresidenzialismo senza alcuna legittimità costituzionale. Anzi contro la nostra Costituzione attuale.
Sarebbe un errore sottovalutare le dichiarazioni di Giorgetti. Non sarà un fine costituzionalista, ma rivela chiaramente che per interessi politici contingenti si pensa che la Costituzione potrebbe essere cambiata e che nel frattempo si potrebbe interpretare come la pelle di zigrino. Non so se Draghi abbia reali possibilità di diventare Presidente della Repubblica, ma è indispensabile che comunque prima di votarlo da parte dei parlamentari gli venga chiesto in modo chiaro di respingere queste suggestioni presidenzialiste e di confermare piena lealtà alla Costituzione in vigore, quindi a non favorire un governo di fedelissimi. Lealtà che nel Presidente della Repubblica ha un valore doppio rispetto a qualunque altro incarico istituzionale in Italia, visto che tra i suoi compiti c’è quello di garantire che venga rispettata la Costituzione.
La tentazione presidenzialista oggi è forte, non solo a destra. Ma un conto è che questa scelta venga esplicitata, che il parlamento ne discuta e se dovesse approvarla venga sottoposta a referendum popolare. Altro è procedere di soppiatto cercando di arrivare al fatto compiuto. In un confronto aperto è evidente che ciascuno condurrebbe una battaglia politica nella consapevolezza della gravità della scelta e mi auguro che esista ancora un fronte tale da respingere questa possibilità.
Il presidenzialismo, in qualunque versione, non può essere affrontato come la sola casella del Presidente della Repubblica, quindi si porterebbe dietro inevitabilmente la ridefinizione di tutti i poteri e rapporti istituzionali. Ad esempio sarebbe necessario rivedere le modalità per garantire l’autonomia della Magistratura. visto che il Presidente è attualmente a capo del Csm e in caso di presidenzialismo non potrebbe essere più una figura di garanzia. Non sono pochi gli altri aspetti istituzionali collegati.
Soprattutto due aspetti dovrebbero essere presi in considerazione prima dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.
Il primo è come ridare ruolo e centralità al parlamento. È fuori discussione che il parlamento in diverse occasioni è stato il peggior nemico di sé stesso. Dal voto sul documento che affermava che Ruby era la nipote di Mubarak, evento più lontano, fino all’ultimo stop alla legge Zan, che difficilmente verrà approvata prima della fine della legislatura, con motivazioni strumentali che hanno ricordato episodi più lontani come i Dico. Il parlamento, tuttavia, ha subìto, fino a sminuire la sua credibilità a livelli mai visti, perché è sostanzialmente composto da nominati dall’alto che debbono la loro elezione a meccanismi elettorali che mettono la scelta di chi deve essere eletto nelle mani dei capipartito, da cui dipende anche la eventuale rielezione. Il criterio di fondo è la fedeltà ai capi, al massimo si può cambiare casacca. Un po’ come si diceva della monarchia che sarebbe temperata dal regicidio. Infatti non è casuale che siamo arrivati al record delle trasmigrazioni tra gruppi parlamentari, di cui l’esempio più eclatante è l’esodo di più di 40 deputati e senatori dal Pd per dare vita ad Italia Viva, reso possibile da un meccanismo di elezione che ha stabilito un legame di fedeltà non con la propria coscienza e con gli elettori ma con il capo da cui dipende l’elezione e la rielezione.
Con il governo Draghi stiamo arrivando ad un punto oltre il quale il parlamento non sarà più come prevede la Costituzione. Certo, gli omaggi formali si sprecano, ma in sostanza il parlamento può solo approvare quanto deciso nelle sedi di mediazione tra il presidente del Consiglio e i rappresentanti dei partiti nel governo, queste sedi ristrette finiscono per obbligare ad approvare i provvedimenti, scaricano sul parlamento le contraddizioni e impediscono alle forze sociali, soprattutto ai sindacati, di avere un ruolo incisivo.
Da tempo abbiamo i maxiemendamenti approvati con i voti di fiducia, i decreti a valanga che ingessano il lavoro parlamentare che non a caso ha nella legge sulla parità retributiva uomo-donna l’unico fiore all’occhiello di iniziativa parlamentare. Il resto è praticamente deciso dal governo, con i voti di fiducia a mitraglia per tagliare la discussione.
La novità che sta diventando routine è un monocameralismo di fatto. Ad esempio, la legge di bilancio, fondamentale nel nostro ordinamento, verrà esaminata, di corsa in un solo ramo del parlamento, il Senato, la Camera si limiterà ad approvarla.
A cosa serve avere due camere se in modo alternato solo una camera discuterà e voterà un provvedimento? Per di più quasi sempre un decreto legge, mentre l’altro ramo del parlamento farà la stessa cosa per il provvedimento successivo.
Chi ha voluto e chi ha subito il taglio del numero dei parlamentari dovrebbe chiedersi se la scelta non sia stata improvvida. Resto convinto che è stato un errore che avrà effetti per molto tempo. Per lo meno si poteva ragionare su un monocameralismo effettivamente rappresentativo, sommando il numero dei deputati e dei senatori, senza aumentare il numero dei parlamentari. Comunque sia nella prossima legislatura avremo una camera di 400 deputati e un Senato di 200, almeno si cerchi di approvare una buona legge elettorale prima delle prossime elezioni.
La legge elettorale infatti non è di per sé risolutiva dei problemi di credibilità del parlamento ma potrebbe almeno risolvere due aspetti fondamentali. Il primo è ripristinare una rappresentanza delle posizioni reali esistenti nel territorio del nostro paese, pur con un numero ridotto di parlamentari. Il proporzionale a questo punto è la via migliore. Del resto il rosatellum rivisto da Calderoli, attualmente in vigore, prevede una soglia di accesso del 3%, che con la riduzione dei parlamentari del 33% diventa in realtà circa il 4,5%. È già una soglia alta e al senato senza una nuova legge elettorale la proporzionalità in 9 regioni è un sogno irrealizzabile o con soglie altissime.
Il secondo aspetto è che occorre ripristinare il rapporto tra eletto ed elettori. Sono gli elettori che votano, il mandato per gli eletti deve discendere da loro non da trucchi per consegnare la scelta ai capipartito. Le preferenze hanno certamente difetti, ma oggi sappiamo quali sono le misure per prevenire e una preferenza unica per ogni genere sarebbe una soluzione accettabile. Altrimenti ci sono altre vie, ad esempio il Senato originariamente veniva eletto per collegi e insieme era garantita la proporzionalità, del resto era così anche per le Province, fino a quando gli elettori hanno votato.
L’eletto deve essere spinto a stabilire un rapporto con gli elettori, deve rispondere a loro del suo operato. Una gestione nazionale dei resti potrebbe aiutare ad arrivare alla massima proporzionalità possibile tenendo conto del taglio del parlamento.
Rischiare che con l’elezione del Presidente della Repubblica si apra uno scenario che precipita nelle elezioni anticipate dice che non essere pronti al voto è pura miopia, un rischio forte.
Perché il punto centrale è che sta allargandosi a macchia d’olio una disaffezione politica, un allontanamento degli elettori e delle elettrici dal voto che deve preoccupare tutti. Senza misure per contrastare la disaffezione la base della partecipazione democratica si restringe e questo minaccia i fondamenti della democrazia stessa. Non basta sapere quali sono le percentuali, occorre che siano significative in un ambito di partecipazione e se non vota un elettore su due è un grosso problema.
La ricerca spasmodica di alleati per vincere in un sistema maggioritario, con un bipolarismo coatto, non ha dato buoni frutti né a destra né a sinistra
Pochi voti marginali hanno fatto cadere il governo Prodi, una maggioranza parlamentare enorme non ha salvato Berlusconi dalla crisi nel 2011, e nemmeno ha impedito la vittoria dei no nei referendum abrogativi sull’acqua pubblica e sul nucleare. Molto meglio votare con le proprie posizioni, e dopo il voto costruire una maggioranza di governo come in Germania, dove la garanzia che diversi possono lavorare insieme è data sia dal mandato certo di ogni soggetto politico, sia da un ponderoso programma di impegni precisi concordati a cui ogni componente si impegna a restare leale. Il programma del Prodi 2 non era troppo lungo e dettagliato ma era invece appeso ad una maggioranza posticcia.
La scarsa determinazione dei dirigenti politici, il trascinamento del vecchio sulla cui crisi non si è mai voluto riflettere, la evaporazione della struttura stessa dei partiti che vivono largamente perché presentano le candidature, potrebbero portare ad esiti preoccupanti per la democrazia, per la sua sostanza e provocare un definitivo allontanamento di elettrici ed elettori dal voto, allargando la diffidenza verso una politica che non riesce ad arrivare alle persone con scelte di fondo chiare e nette.
La pandemia non aiuta, questo è evidente, ma non può giustificare tutto e portare a rassegnarsi al declino della democrazia italiana, conquistata con tanta fatica e tanti lutti, con la vittoria sul nazifascismo, sarebbe un errore imperdonabile.
Occorre parlare con chiarezza e nettezza per evitare almeno di essere corresponsabili.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto sardo il 6 dicembre 2021