Mi accingo a scrivere suggestioni a margine di due rappresentazioni teatrali molto diverse viste in questo ultimo weekend, che hanno fatto discutere e attirato pubblico da un po’ ovunque mentre ho ancora negli occhi le immagini di Madre, di Montanari-Martinelli e di Tutto brucia, di Motus, capisaldi con alcune altre folgorazioni interessanti ,in questa lunga anomala stagione ininterrotta. Intanto, si prepara anche all’Alighieri di Ravenna un debutto per Fanny e Alexander, ensemble creativo molto importante di una wave a base romagnola davvero molto lunga e diramata.
Le suggestioni infatti partirebbero ad essere onesti, da molto molto lontano, con un insieme sfaccettato di gruppi succedutesi sia nel Teatro che nella danza con ondate appunto successive tutte molto significative e in qualche modo sia relazionate tra loro per ascendenza sia riconducibili al nuovo come matrici persino rispetto ad ambiti musicali di più largo consumo. Sto ovviamente pensando alle incursioni nel mondo del djeeing e del fashion o dell’universo rap in parte generati dal modus operandi di tanta cultura teatrale. Un modo sofisticato e pop, di stare nelle cose cha ha difficilmente eguali altrove e che riprende attraverso un oculato sistema di festival e rassegne sia lo spirito sperimentale degli anni 70 che le sollecitazioni che provengono da una realtà sempre più ambigua, complessa e contraddittoria da decifrare persino sulle sponde della Romagna felix. In qualche modo, infatti, un modello economico e sociale anche riuscito e apparentemente pacificato, sin dagli esordi delle compagnie storiche romagnole viene sottoposto ad una revisione senza sconti che recupera in maniera più o meno storica o rivendicativa l’antico spirito anarcoide di quelle terre fino ad una bruciante seppur mediata riflessione sull’oggi.
Pienamente inscritta in questa prismatica dialettica identitaria è la ricerca che porta avanti da alcuni anni Luigi “Gigio” Dadina, cofondatore di Albe Teatro, insieme a Laura Gambi e che ha prodotto diversi lavori in cui elementi autobiografici vengono sapientemente distillati dentro un’epica della condizione popolare nei risvolti spesso tragici della sua trasformazione da bracciantile ad operaia, fino ad una sorta di lenta decadenza che si accompagna ad inaudite violenze perpetrate ai danni dell’ambiente e del territorio. Fino ad drammatico punto di non ritorno, tale da non consentire la consegna alle future generazioni di un organico lascito culturale, né un esempio per una volta non velleitario e demagogico di rivolta, o tanto meno l’eredità di un habitat vivibile.
Che i difficili tempi pandemici, gli stringenti richiami ad un bla bla bla sempre più colpevole del mondo adulto da parte dei giovani attivisti contro l’estinzione, il martellante e confuso uso e abuso dell’iper infointrattenimento, abbiano indirettamente influenzato verso coloriture dark il lavoro già poco consolatorio di diversi artisti, appare innegabile. Interessante, oltre questa constatazione di fatto, è andare a rintracciare il plus drammaturgico che questo comune sentire ha prodotto nelle varie realtà in esame. Nel caso Dadina si tratta per esempio di una partitura composta sapientemente per colleges, montaggi e sedute di lavoro in remoto con artisti amici e sodali: un processo di maturazione di esigenze espressive condivise dopo lunghi anni di percorsi paralleli su linguaggi e supporti diversi. Stiamo parlando di questo iconico “Mille anni o giu di li,” che dopo una verifica con uno speciale pubblico giovanile a Ravenna, abbiamo ammirato in ambito stagione Agorà e che vede in scena uno straordinario Gigio alle prese con una sorta di personaggio-alterego o meglio, parte ombra, di una intera generazione che pensava di cambiare il mondo, insieme alla pregnante presenza del musicista Francesco Giampaoli, che fa del suono della sua chitarra il deuteragonista e alla immanenza scenografica delle splendide tavole proiettate su questo buio del palco e della mente, ad opera di Davide Reviati, pluripremiato fumettista ravennate. Completa l’organico l’immaterialità cosi presente della voce registrata della grande interprete di scuola Leo, Elena Bucci , che porge, suggerendo tutto un mondo “altro” dalla costrizione in cui siamo tutti immersi, interpreti e spettatori, le parole delle poetesse zingare. Bronislawa Wajs e Mariella Mehr. Un lavoro molto sentito e pensato, urgente di istanze cui Laura Gambi ha saputo dare una scansione efficace.
!I mille anni o giu di li, possono essere il riferimento cronologico retorico, nella testa imbolsita del nostro anziano in regime di isolamento apparentemente autoimposto in cui tutto il disastro ha avuto inizio e che affonda i suoi presupposti nella nostalgia di una selva oscura fiabesca e anche inquietante in cui gli animali selvatici tutti avevano comune destino con gli umani. Se vuoi le proiezioni dalle tavole di Davide sono anche l’incubo-proiezione di una lunga notte insonne in cui i pensieri si affastellano” mi dice Dadina, da me raggiunto per una informale conversazione, “bisogna anche dire che molteplici e stratificati erano a loro volta gli spunti, di noi tre, che siamo figli di quello che è l’altro grande protagonista del nostro racconto, un racconto costruito per decostruzioni, se mi perdoni l’ossimoro e che è il Quartiere Anic di Ravenna. Un quartiere operaio di quelli che sembrano secoli fa, che ti dovrebbe accompagnare dalla culla alla tomba , anzi, in verità denominato villaggio, con il mito degli idrocarburi. Oggi , una sorta di deserto rosso, di cimitero degli elefanti… Noi tre, sempre annusandoci da lontano, siamo cresciuti li, rincorrendo poi le rispettive vocazioni: io comunque ho una passione per la musica, il blues, che sento nonostante tutto, adatto alle nostre terre e avevo collaborato già con Francesco, ma non cosi. Ritrovandoci al Cisim di lido Adriano, coinvolti in un discorso sulle periferie poco prima del lockdown, avevamo già stabilito di dover fare qualcosa che ci riguardasse anche in quella direzione periferica, dal nostro personalissimo punto di vista. Ci sono allusioni diverse alla infermità, al disagio mentale, alla coattazione ricercata o forzata, alla droga, all’invecchiamento quello brutto, non di successo, perché questo è poi quello che abbiamo visto nel tempo in tanta gente che conoscevamo nel quartiere, ridotta ad autentici zombies come tutto quello che nella nostra società è residuale o considerato tale. Lo spettacolo è costruito per contrapposizioni, se vuoi coppie antitetiche di concetti e stili di vita. Ovvero, la ribellione ma anche il conservatorismo ad oltranza, il mugugno fine a se stesso e la mascella volitiva di Mussolini, il canto tradizionale anarchico e un Bob Dylan revisited quasi materializzato e cronachistico, ormai possiamo dirlo, fuori dai recinti della profezia, soprattutto la dialettica più forte è quella costruita tra sedentarietà e nomadismo, ostracizzato e insieme vagheggiato. Difatti – chiosa Dadina – il nostro personaggio, così gonfio di banalità opinionisti che del quotidiano, di luoghi comuni anche fascio leghisti o più che altro confusi, sentendosi un sopravvissuto e asserragliandosi come tale, vive poi una realtà onirico-ancestrale stratificata, in cui è plausibile la sua discendenza da due madri sinti, poiché sono esistiti dei campi prigionia per nomadi in Italia, ancorchè definiti dal nostro ex tutto, come ameni luoghi di villeggiatura. Sono le due poetesse guida che sono in grado, loro si, contrariamente al nostro uomo che pure ha avuto ed ha tanto tempo per pensare e leggere, di restituire il brivido e la sostanza del racconto di memoria, con una struggente epopea di fuga dal campo di concentramento nazista nella neve, sono loro le lupe che vegliano i loro cuccioli, sono loro che forse indicano un riparo ed una speranza di vita anche al protagonista, ispirando l’anelito a rifugiarsi in quel tronco d’albero, l’unico superstite che si vede spiando dalle tapparelle, la disfatta di tutti quelli via via abbattuti. Contraltari peraltro delle vite sradicate e abbruttite che si trascinano in un fuori asfittico come il dentro e alacremente spiate dal nostro reduce. L’azione, per cosi dire, si svolge tra il 15 e il 20 agosto di un futuribile presente, targato 2022 e viene affidata al resoconto giornaliero per registrazioni: evidente l’allusione a Becket, cosi sottinteso a tanto teatro di adesso e che comunque sta ad indicare anche che l’uomo in scena è fondamentalmente un uomo del novecento e per questo l’orizzonte non può essere più lontano che l’anno prossimo. Osservo che il clima plumbeo fa sembrare il tutto una sorta di sci fi distopico e Dadina mi risponde che si, tanti films visti, tante aliene paure sulle diversità ingenerate anche dalla pandemia , scorrono sottotraccia e infatti si allude ad un certo punto anche a quelli con gli occhi a mandorla, cosi come alla fine del Lavoro, che è già un fatto peraltro, ma molto ci ha influenzato in realtà un libro del grande e poco comunemente frequentato Paolo Volponi, targato anni 50, che già collegava condizione operaia e malattia, altro dato spesso incontrovertibile. L’affabulazione delinerante del nostro personaggio, si nutre di molti altri elementi interessanti quali soprattutto una sorta di pattern sonoro totale non solo dato dal basso elettrico che ora accenna, ora storpia suoni, ora contrappunta, ma dal rincorrersi di un campionario straordinario di suoni, versi, sghignazzi, rantoli, mugolii, colpi di tosse prodotti dal nostro e amplificati che lo rendono in tutto simile ad una bestia morente, alternati alla soavità sognante de versi detti da Bucci. Quello che accade è in effetti che Elena pare presente in scena e non registrata, questo perché è stata anche lei parte integrante del progetto e questo doveva necessariamente sentirsi. L’altra istrionica sorpresa dello spettacolo che in effetti non dovrei spoilerarvi è la presenza nella pur teso e tipico”stare”, di Dadina, evidentemente qui enfatizzato, di una sorta di sviluppo coreografico burattinesco , un teatro danza futurista in funzione di stacco sui topici momenti di maggior audacia confusionale. Puoi anche dire che voglio darmi al teatro danza – ironizza Dadina – per fare una grande stagione di festivals e un prossimo autunno con questo lavoro. In definitiva, il tutto risulta poi un affondo sulla nostra cattiva coscienza e incapacità di visionarietà sul futuro, come se l’olocausto tornasse sempre a tormentarci come incubo e paranoia a sottolineare una ascendenza di colpa per tutti i disastri che continuano a susseguirsi. Un lavoro che si mantiene in bilico sapiente tra idealizzazioni, conservatorismi e caustica critica antropologica più che sociale, evitando pur tra colpe e rimpianti, il rischio della nostalgia canaglia.
Anche se Dadina afferma di non aver ancora visto Madre di Montanari-Martinelli e di non averne seguito il processo creativo, è impressionante notare i punti di contatto tra lo spettacolo visionato a Santarcangelo e già da me raccontato e questo Mille anni o giù di li, se non altro per il coinvolgimento di un pittore illustratore e di un musicista e per l’atmosfera quasi gotica e tutt’altro che rassicurante che si respira nel vibrante lavoro di partitura vocale da parte di Ermanna. La disfatta morale e ambientale di una società, forse di una civiltà tutta sta pero in questo ultimo caso iscritta in una sorta di poemetto invettiva che accentua infine i toni di denuncia in vece del ripiegamento “umarellico”n ell’assurdo. Il discorso di uno spirito dei tempi che si articola in tante diverse stupefacenti forme di visione, mi viene buono del resto, ad introdurvi questo You were nothing but wind ideazione e regia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolo per Motus con la straordinaria presenza di Silvia Calderoni, iconica “divina” con attitudine punk delle scene più innovative, ricondotta ad una stilizzata misura di classicità in questa sorta di performance che si pone come ideale proseguimento o complemento del bellissimo Tutto brucia, visto in anteprima estiva a Fabriano. Prima di arrivare a questo racconto, vale la pena spendere due parole sul contesto nel quale si collocava questo atteso evento di una trentina di minuti che ha richiamato a Forlì, critici e appassionati da varie parti d’Italia e che in qualche modo è esemplificativo della tenacia, capacità di resilienza evolutiva e di un certo fare scuola di questa onda lunga di Romagna. Ci stiamo riferendo infatti al Festival “Crisalide”, che Masque Teatro organizza sin dal lontano 1994 nel territorio appunto forlivese e che costituisce uno degli appuntamenti più interessanti per un certo tipo di fare teatro che si nutre di concettualità filosofiche e rimandi incessanti alle piu disparate discipline, financo scientifiche e che è affascinato al contempo dal tema del fare , del produrre per oggettivare, che la pratica artistico-teatrale consente.
Nell’affascinante spazio del Teatro significativamente titolato a Felix Guattari, che ospita per inciso nell’ingresso della parte ristoro, una bellissima mostra fotografica di scatti in bianco e nero, Lorenzo Bazzocchi, direttore e regista di Masque, ma molto altro ancora, per esempio ingegnere chimico e filosofo, racconta ai suoi spettatori ospiti , le origini del luogo, sapientemente ristrutturato.
Ci troviamo infatti in una ex filanda, un luogo manifatturiero per eccellenza e metaforicamente il folto pubblico, poco prima di entrare in sala viene accolto da una campana costruita dal gruppo Masque ed altri artisti dalla fusione di cubetti di bronzo, in una edizione del festival di Santarcangelo del 2004. Bazzocchi ci spiega quanto questa edizione di Crisalide sia stato un insieme di diversi appuntamenti snodatisi dall’estate in avanti, sempre per le gradualità imposte dai regolamenti anti pandemia: non sono mancati nomi che ci riportano ad una storia che è già quasi tradizione come Francesca Proia, Pietro Babina e Roberto Latini . Bazzocchi sorprende e intriga all’interno del Festival, con un laboratorio teorico-pratico di nozioni base per il progetto di assemblaggio di una Tesla Coil, a sottolineare i risvolti performativi del costruire e approntare.
Non stupisce pertanto che ai Motus spetti di chiudere il festival con questa performance ctonia e furente , certo derivazione del lavoro intrapreso come vi abbiamo già riferito sulle Troiane nella riscrittura sartriana.
Come avevamo visto un lavoro di bagliori di incendio, di chitarre straziate e stranianti, di buio della Storia, un tornare ai classici per leggere in filigrana l’attuale dominante cupio dissolvi e quindi in qualche modo una familiarità con il sentire di artisti molto diversi ma di area limitrofa. Del resto, “Tutto brucia”, è anche una battuta nello spettacolo di Dadina. Per tornare in specifico, allo spirito di Crisalide, la vena materiale, in qualche modo agonistica e operaia, la dialettica costruzione-distruzione, sono assi portanti di questo intensissimo lavoro, che mette certo alla prova fino allo stremo le pur note qualità atletico-espressive di Calderoni. Qui, nel buio crepuscolare post combustione che ormai ci compete e ci tocca, una incredibile Ecuba cagna, anche qui connotata da suoni, mugulii, lamenti innaturali eppure bestiali, sorge da un sotterraneo giaciglio e sudario sotto un tumulo di terra, sorta di impressionante sepolta viva, per trascinare carponi una disperazione che non ha più nome né connotazioni precise, se non l’affanno, la fame, l’erraticità, la programmatica cecità, la museruola sadomasochistica che fa sbavare e che forse urta qualche sensibilità tra il pubblico, ma contemporaneamente accende ancora una volta di più l’ammirazione per una performer che sarebbe piaciuta a Gina Pane e che in qualche modo riverbera la lezione e del living e di Abramovic, mutatis mutandis. In onore di tutti i nostri tabula rasa, per santificare il nostro desiderio di pulizia etnica e di cupio dissolvi, per l’appunto, il tumulo che ricopriva la voragine sepolcro e che Ecuba nel corso della performance aveva distrutto, scontornando tutti i nostri borders, viene ripristinato da una sorta di stradino-guastatore in tuta catarifrangente impersonato da Enrico Casagrande. L’uomo della provvidenza che con marchingegni aspiratori ed espiratori, ricrea le condizioni del ritiro, della contenzione, dell’oblio, in cui Ecuba, la sconfitta, deve ritornare e ci appare ormai familiare a teatro la costante presenza in diversi lavori di divise e da riders e da disinfestatori-annientatori. Succede ad esempio anche nelle conclusioni delle Metamorfosi da Kafka ad opera del regista scozzese Lenton per ERT, ma naturalmente questa è decisamente un’altra storia. In tutta evidenza il portato di questi drammatici momenti che l’umanità intera sta vivendo, si traducono a Teatro nella materializzazione della banalità di tutto il nostro spirito di annientamento e autodistruzione: seguono scroscianti comunque gli applausi a sottolineare che si è colto nel segno.