La bella stagione continua nella bassa. Le nuove programmazioni di Agorà per Unione Reno Galliera

di Silvia Napoli /
1 Ottobre 2021 /

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La nostra recuperata nuova vita sociale avrà da essere policentrica. Sono questi i segnali che ci arrivano da più parti, indizi del desiderio e infine necessità di rileggere in versione smart, iperconnessa, plurilinguistica il tema del decentramento e la politica culturale che ne consegue. Ci sono operatori culturali che interpretano la loro mission in maniera filologica, procedendo come l’agricoltore a dissodare territori i ancora incolti, magari infestati da erbe spontanee che crescono con malagrazia o non ricevono, se buone, sufficiente apporto idrico. Queste attente soggettività sono appunto in contatto stretto con i territori e quelle urgenze che vi segnalavo, le hanno colte da un pezzo.

Questo è il caso di Elena Digioia, cui, fuori da espressioni aride o in odor di burocratese è più che mai corretto attribuire il termine curatrice e che lavora instancabilmente alla direzione artistica e alla progettazione nonché produzione teatrale per associazione Liberty, in diversi contesti locali e nazionali , ma che porta appuntato come un fiore, l’indubbia riuscita di ben sei stagioni multiple di Agorà.

Agorà è certamente teatro con la maiuscola, ma anche tanto di più, una polis estesa che ha sempre il piacere di ritrovarsi in questa dimensione di scambio culturale persino nei momenti più complicati che si ricordino da diversi decenni a questa parte, per dirne una. Un insieme di programmazioni affatto periferiche nella concezione, che ci insegnano a vedere il centro da molti punti di fuga.

Negli anni 8 comuni di Unione Reno Galliera sono stati attraversati dal meglio dei talenti teatrali italiani e soprattutto da una magia poetica che ha investito spazi, luoghi, locations suggestive, dimenticate, appartate, rivissute e rilette.

È trascorso pochissimo tempo del festival estivo Epica, il primo, auspichiamo, di una lunga serie di proposte incastonate in un format itinerante, informale, ma denso di pensieri belli da portare con sé come talismani per le stagioni a venire. Ora, Di Gioia e con lei, la presidente dell’Unione, nonché sindaca di Castelmaggiore, Gottardi, rilanciano, con una prima ardita uscita, che brucia le tappe rispetto ad altre stagioni e si avvale di una doppia modularità, tra eventi outdoor e indoor. Come sempre per questa situazione di Agorà, i fili si tengono e si intrecciano in continuità. Fare e disfare come succede per proposte di impatto immediato e poi corto respiro, non si addice a questo team agguerrito e insieme gentile, a forza trainante femminile. Pertanto abbiamo pronta una parte di rassegna iniziata già l’undici di settembre, quando ancora si girava per Feste dell’Unità e sagre estive, che ci traghetta fino a dicembre e in cui il discorso progettuale , al posto dell’evento o intervento estemporaneo, è molto presente. Nel rispetto e assunzione a numi tutelari, degli ingegni e degli artisti che queste terre hanno saputo far sbocciare: due su tutti, Roberto Roversi, la cui Tombola in piazza è stata ricreata per inaugurare alle scuole di Pieve di Cento e Giulietta Masina, musa felliniana da quel di S. Giorgio di Piano, celebrata a S. Pietro in Casale da una mostra e da una vivida lettura interpretativa dalle lettere, cui Giulietta rispose tra i sessanta e i settanta per ben 8 anni inviate ad una rubrica dedicata del quotidiano torinese La Stampa.

Bello vedere che in questo significativo scorcio di stagione, accanto a presenze che sono una benedizione, un imprimatur, un auspicio, un possesso per sempre da tenersi in cuore, come il caso di Teatro delle Albe in tutte le sue declinazioni, da Pianura a Pianura, si può proprio dire, sia anche ricco di esperienze innovative. Citiamo tra le tante, la proposta di due giovani attrici-autrici molto diverse tra loro, ma legate dal livello qualitativo del loro lavoro e da un mega laboratorio al femminile a bassissima soglia d’accesso, che certo stupirà per gli esiti futuri. Ci stiamo riferendo a Francesca Sarteanesi, ex Compagnia Omini, che a Castelmaggiore il 9 ottobre inaugura la tranche al chiuso, con una sua sorprendente drammaturgia dal titolo Sergio, un lavoro sulla vicinanza nell’assenza e sugli infiniti stratagemmi di sopravvivenza del cuore e a Carolina Cametti, attrice per il Teatro dell’Elfo, ma anche ora autrice dramaturg con questo BOB Rapsodhy, un rap a perdifiato e rotta di collo che ci parla del nostro frammentato presente. Per quanto riguarda i laboratori, sono diversi, sono pregevoli, non sono una novità, ma un tassello che ha preso spazio e definizione specialmente ora nel post isolamento, e che in questo caso, trovano un traino formidabile nel primo di questi,a partire proprio da domani per chi sta scrivendo, 30 settembre, condotto da Anna Amadori, vibrante interprete drammatica. Si tratta di un lungo arco temporale di elaborazione che accompagna donne, senza alcuna soglia di sbarramento, attraverso un percorso intimo oggettivato dai racconti Il Cuore delle Donne, di Maurizio Garuti, da S Giovanni in Persiceto. L’altro grande segnale di una voglia di rilanci e innovazioni che tuttavia non smarriscono la fitta rete di senso costruita fin qui, è l’accento sulla danza, destinata ad occupare uno spazio sempre più riconosciuto e progettuale. In questa prima parte di stagione, che si allunga fino alle feste natalizie, ci sono due eventi notevoli, quali Danza cieca del maestro Virgilio Sieni e How to destroy your dance di Collettivo cinetico.

Una esplorazione delle infinite possibilità del gesto, considerando che si tratta di una danza condotta da Sieni insieme ad un performer non vedente, a rimarcare assunzione di responsabilità e mappa di possibilità per l’incontro dei corpi nel primo caso , un adrenalinico e frenetico prima , dopo e durante la performance, nel secondo, agito dal gruppo di giovani danzatori coreografato e diretto da Francesca Pennini, ospitato eccezionalmente all’interno del Museo Lamborghini di Funo di Argelato. Assolutamente da segnalare anche una ripresa che celebra i 25 anni di lavoro della Compagnia Teatrino del Giullare con quel finale di Partita beckettiano concepito per scacchiera, pedine e due giocatori che ha registrato enorme plauso nel corso della sua ricorrente riproposizione in giro per palchi internazionali.

La vocazione alla continuità delle stagioni – mi dice Digioia – deriva dalla nostra concezione del lavoro teatrale come progettualità che si riempe di senso ben oltre la logica spettacolare ,se inserito in un contesto ampio.

Il contesto qui c’è, anzi è una vera comunità estesa, dal punto di vista geografico e amministrativo certamente, ma soprattutto dal punto di vista di quel peculiare associarsi di persone che lo spazio pubblico del Teatro consente e favorisce. La comunità la segui al meglio in una logica di progetto complessivo, come nel caso di Roberto Roversi, cui ogni tanto ci piace tornare, riprendendo anche cose non nate apparentemente per la rappresentazione o come nel caso di Giulietta Masina In fondo essi sono parte del genius loci di questa regione. Per questo per noi è molto importante, dare segnali forti di continuità e vicinanza. Non dimentichiamo il periodo tremendo dal quale veniamo e che ha messo a dura prova il senso di coesione sociale.

Per questo diamo enorme importanza ai laboratori, che sono luoghi protetti, non neutri, ma nei quali la connotazione la costruiscono i partecipanti rendendo possibile una messa in comune di verità e di storie, difficilmente esprimibile se non in spazi intimi particolari. Noi abbiamo verificato il bisogno della dimensione collettiva, cosi frustrata dalle ultime vicende pandemiche, una dimensione politica e pubblica dello stare che è mancata tantissimo a molti. In particolare donne. Lo dimostra il fatto che abbiamo dovuto raddoppiare i corsi del laboratorio di Amadori: sfocerà in uno spettacolo, ma non intende nutrire le aspirazioni di carriera , quanto l’esigenza della narrazione, creando una sovrapposizione di piani tra la scrittura non giornalistica, la storia vera di donne vere come Irma Bandiera, entrate in un pantheon eroico quasi loro malgrado e la tempra quotidiana di donne di età e livelli di istruzione diversi desiderose di trovare parole e di ritrovarsi fisicamente.

Per me e quanti lavorano alla stagione è chiaro che debba esistere un moltiplicarsi di piazze, virtuali quando si è costretti, reali quando le condizioni lo permettono. Qui pulsa la vita, organicamente come in un ecosistema dove tutte le componenti sono necessarie. Per questo ogni volta vengono anche recuperati allo sguardo e alla condivisione spazi inusuali, sconosciuti, in disuso o normalmente dedicati ad altro, ogni volta ponendo l’accento su una dimensione figurativa, architettonica o cromatica, o sonora. Per questo abbiamo cercato, lavorando indefessamente praticamente tutta l’estate, di cominciare il primo giorno possibile, per usare una citazione dai Kepler , iniziando primi, non per competizione, ma per necessità, spirito di servizio, verso una comunità che ci chiede ormai di esserci. Iniziando all’aperto possiamo ospitare molti spettatori in più , infatti , confidando in tempi migliori a medio termine.

A proposito della dimensione sonora, vorrei dire che non abbiamo dedicato l’incanto e la tensione emotiva della Parola soffiata, l’esperienza di streaming notturno dalle sale comunali , in cui attrici e attori di comprovato talento interpretativo sceglievano di instaurare una relazione intima e insieme collettiva, one to one e contemporaneamente condivisa, con gli ascoltatori-spettatori potenziali collegati da casa.

In qualche forma rinnovata, che non ci rammenti malinconie, dobbiamo riprendere questo aspetto di assoluto raccoglimento. Stiamo riprendendo anche le produzioni più o meno recenti, prima di entrare in nuove avventure perché mi sembra giusto far recuperare il tempo perduto a tanti lavori bellissimi come il Sadico del villaggio di Cardillo da Marcello Marchesi o le cose dei succitati Kepler: andrà in giro il Primo giorno possibile, ma a ben vedere anche Consegne, cioè atti performativi ancor più specifici sul lungo tempo del coprifuoco, hanno comunque gemmato esperienze e sono andati molto in giro a mo’ di esempio resiliente. Sarebbe curioso anche rivederli adesso, per prendere le misure, non rimuovere da un passato doloroso. Quale è la normalità a cui vogliamo tornare? Dobbiamo interrogarci su questo: se è quella dello stare insieme si, se è quella del consumo usa e getta, no. Infatti credo sia molto importante favorire un discorso di creazioni di repertorio, per tante e tante ragioni. Che cosa anima infatti, la nostra ansia di nuovismo? Quando decidiamo che uno spettacolo è irrimediabilmente datato? Chi soprattutto lo decreta? Che tipo di mercato , di istituzione, di critica o di operatore? Io credo che se un lavoro è parlante per chi lo ha concepito, lo sarà anche per chi lo vede, anche in modo critico e conflittuale. Oggi ci troviamo con una situazione vivaddio in movimento, ma molte compagnie che avevano pronti spettacoli nuovi pre pandemia o pochissimo visti, si sentono dire da alcuni teatri, che sarebbe meglio mettere in cantiere nuove produzioni. Penso anche che il sedimentare di repertori sia utile per favorire da molteplici punti di vista, quel dialogo intergenerazionale, quelle trasmissioni di esperienza che sono state cosi penalizzate in questi ultimi tempi e che sono un motore sociale e culturale importante. Anche per allargare i pubblici e dare agio al lavoro degli artisti giovanissimi o consolidati che siano, credo sia interessante aprire ad una rete di spazi ulteriore ai teatri canonici. Biblioteche, sale del popolo, circoli Arci, possono divenire luoghi dove il Teatro accade o si racconta, dove la parola e l’elaborazione trovano spazio.

Questo, aggiungo io , si chiama lavoro di cura, tornando da dove eravamo partiti. Bisognerà trovare il modo di trasformare il lavoro di organizzazione, selezione, programmazione, in un lavoro di crescita di quanto germoglia spesso a fatica per strade che devono essere necessariamente molto autonome e originali, ma che devono intercettare comunque una amorevole attenzione prima ed una chance di proposta pubblica, poi.

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