Serve una prospettiva internazionale, nel quadro dell’Ue neoliberista, per cogliere ancora di più il senso della lotta di Gkn e della sua portata generale
«Abbiamo le lacrime agli occhi, mille storie umane da raccontare ma oggi non è questo il punto. Non siamo i poveri operai che vanno a casa. Siamo dignità, orgoglio e resistenza. Fate un favore a voi stessi unendovi alla nostra lotta. Insorgiamo». Queste sono le parole delle centinaia di lavoratori e lavoratrici della storica fabbrica di Campi Bisenzio Gkn Driveline Firenze, filiale della multinazionale britannica di componenti automobilistici e aerospaziali, che venerdì 9 luglio vengono a sapere via mail della chiusura immediata della loro fabbrica, e del loro conseguente licenziamento. 422 dipendenti, ai quali bisogna aggiungere almeno ottanta lavoratrici e lavoratori dei servizi in appalto della fabbrica (mensa, pulizie, ecc.). Alcuni ci lavorano da venti o trenta anni, una vita passata là dentro a fabbricare semiassi per i più importanti marchi automobilistici italiani ed europei. Da un giorno all’altro, senza preavviso, arriva una mail e «goodbye». Nonostante le ragioni di crisi addotte dall’azienda, gli operai della Gkn sono categorici: qua non si tratta di una fabbrica in crisi, le commesse e il lavoro ci sono.
Di fronte a una decisione che sembra assurda, i lavoratori e le lavoratrici decidono di lottare: occupano la fabbrica con un’assemblea permanente, organizzano presidi e cortei giganteschi, mettono su una rete locale e nazionale di solidarietà, vanno in giro per l’Italia a costruirla, convocano un’assemblea di giuristi «progressisti» per scrivere con loro una legge contro i licenziamenti e le delocalizzazioni. E ottengono consenso e visibilità mediatica. Da sinistra come da destra piovono le dichiarazioni dei politici successive alla decisione dell’azienda, il sindaco di Campi Bisenzio rilascia addirittura un’ordinanza che vieta i Tir sul territorio per impedire alla multinazionale britannica di venire a ritirare i macchinari. Il governo annuncia una legge antidelocalizzazioni per la quale afferma di volersi ispirare alla – palesemente inefficiente – «loi Florange» francese. E i lavoratori ottengono una prima battaglia: il Tribunale del Lavoro di Firenze revoca l’apertura dei licenziamenti collettivi per «condotta antisindacale». Ovviamente però, la multinazionale non mollerà, e la battaglia non finirà qua.
Da Campi Bisenzio, Birmingham, Offenbach… a Olesnica
Non se ne parla molto nei giornali, ma nel frattempo nel nord industriale dell’Inghilterra, gli operai della Gkn Driveline Birmingham vivono da mesi una situazione molto simile a quella di Campi Bisenzio. Nel gennaio 2021, Gkn annuncia la chiusura, prevista per il 2022, del suo sito automobilistico di Chester Road, a Erdington – anch’esso uno storico sito dell’industria metalmeccanica britannica che data dagli anni Trenta. Si parla di almeno 519 persone licenziate, e fino ad altri 1.000 lavoratori della supply chain che perderanno il posto di lavoro. Anche qua, i lavoratori si mobilitano e ricevono dichiarazioni di solidarietà da destra e da sinistra. Il governo si offre di investire nella formazione professionale e nell’acquisto di nuovi macchinari per prevenire la chiusura. A maggio, i lavoratori presentano un piano aziendale alternativo per salvare il loro impianto. Respinto da Melrose. Fino ad arrivare a qualche giorno fa, quando i lavoratori di Gkn Birmingham votano, con il 95% dei voti favorevoli e il 95% di affluenza, uno sciopero a tempo indeterminato contro la chiusura della loro fabbrica.
Vista a livello europeo la vicenda di Campi assume dunque contorni più nitidi. Al momento della controversa acquisizione della Gkn da parte dal fondo di investimento britannico Melrose Industries per 8,1 miliardi di sterline nel 2018, l’acquirente aveva promesso di mettere al primo posto il «benessere dei dipendenti» delle sue filiali. Per poi fare l’esatto opposto. Prima ancora dei licenziamenti di Campi Bisenzio ed Erdington, infatti, nel 2019, la multinazionale annunciava la chiusura della sua fabbrica Gkn Aerospace a Kings Norton, avvenuta, sempre a Birmingham, nel marzo 2021: almeno 170 persone sono state licenziate. Infine, negli ultimi mesi del 2020, Gkn/Melrose tagliava 540 posti di lavoro nella sua filiale tedesca Gkn-Driveline a Offenbach.
Questi licenziamenti non sono quindi il risultato di una crisi del settore automobilistico, né della multinazionale, né tanto meno del sito di Firenze. In una recente intervista, il Ceo di Gkn Automotive, Liam Butterworth, ha stimato a 102 milioni il numero di macchine che saranno fabbricate nel 2030 contro 89 milioni nel 2019, entusiasmandosi per le gigantesche opportunità offerte dal passaggio ai veicoli elettrici. Con 27.000 lavoratori e 51 siti produttivi in 20 paesi diversi, un fatturato di 4,7 miliardi di sterline nel 2019, l’azienda si vanta di rifornire componenti per il 90% delle aziende automobilistiche mondiali e il 50% delle macchine prodotte nel mondo. Il Ceo inglese intende raddoppiare le dimensioni dell’azienda entro il 2030 rimanendo all’avanguardia nella corsa all’elettrificazione. D’altronde il sito di Firenze, era in piena ripresa economica dopo il rallentamento dovuto alla pandemia: il primo trimestre del 2021 mostrava un aumento del fatturato complessivo dell’azienda del 7% rispetto all’ultimo trimestre del 2020, e un superamento del budget del 14%.
In altre parole, i licenziamenti non rispondono a una gestione economica che mette al centro i bisogni delle persone, dell’ambiente e di una produzione volta a soddisfarli, ma rispondono a una pura logica di speculazione finanziaria. Il motto di Melrose è «buy, improve, sell», cioè «compra, migliora e vendi» – dove «migliora» vuol dire abbassare il costo del lavoro e gonfiare così i dividenti degli azionisti. È molto probabile, in particolare nei casi di Birmingham e di Firenze, che l’intenzione dell’azienda sia quella di trasferire la produzione in altri paesi dell’Ue, in parte, probabilmente, a Olesnica, in Polonia, dove i salari sono più bassi e i sindacati più deboli. Fatto sta che dopo l’annuncio delle chiusure delle fabbriche, il prezzo delle azioni di Melrose in borsa ha ricominciato a salire.
Il destino dei lavoratori Gkn italiani, britannici e tedeschi non ha niente di originale. Anzi, è il destino comune di centinaia di migliaia di lavoratori nell’Europa del capitale che abbiamo costruito da settant’anni a questa parte. Una Unione europea che consacra la libertà di movimento di merci, capitali e aziende, e che si basa sulla concorrenza fiscale, sociale e salariale tra gli Stati membri. In questa Unione europea, i pochi strumenti che dovrebbero proteggere gli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici sono troppo deboli e inefficaci per essere di alcun aiuto a chi sta oggi ai cancelli della Gkn. Eppure, le cose avrebbero potuto essere diverse.
Quando si parlava di democrazia economica
La situazione di estrema ricattabilità delle lavoratrici e dei lavoratori di fronte all’onnipotenza delle multinazionali e del capitale finanziario in Europa e nel mondo non è il frutto del caso o della fatalità. È il risultato di decenni di lotta di classe che, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, ha visto la progressiva riaffermazione degli interessi del capitale a discapito di una classe operaia sempre più frammentata – non solo a livello locale o nazionale, ma soprattutto su scala transnazionale. In questo scenario, il ruolo della «costruzione europea» è stato cruciale.
Già dalla fine degli anni Sessanta, l’intreccio che si stava rafforzando tra le economie europee e mondiali, e il potere crescente delle imprese multinazionali in Europa rendeva evidente la necessità per le sinistre di organizzarsi a livello transnazionale. Fu in questo periodo che si radicò nella sinistra il progetto di un’«Europa sociale» – o «Europa dei lavoratori». Al posto dell’Europa liberale costruita dal dopoguerra, la maggior parte dei partiti e sindacati socialisti, e persino di una parte di quelli comunisti europei, cominciava allora a reclamare una riforma delle politiche e delle istituzioni comunitarie che andasse nel senso degli interessi di lavoratori e lavoratrici. Quel progetto promuoveva la ridistribuzione della ricchezza, la regolamentazione del mercato e la pianificazione economica, l’armonizzazione sociale e fiscale, l’aumento dei fondi sociali e regionali europei, un maggior controllo sulla circolazione dei capitali, sulle grandi imprese e sulle multinazionali, una redistribuzione del lavoro attraverso una riduzione dell’orario di lavoro, ecc. Non lo faceva, però, solo a livello nazionale, bensì continentale, strutturando così un’idea d’Europa molto diversa da quella neoliberale consolidatasi progressivamente, specialmente dagli Ottanta in poi.
Una delle rivendicazioni principali di quest’«Europa dei lavoratori» era la democratizzazione dell’economia e delle imprese. La questione era finita sotto i riflettori in seguito al risveglio della combattività operaia sin dalla fine degli anni Sessanta: assemblee di lavoratori, scioperi selvaggi, occupazioni di fabbriche ed esperimenti di autogestione operaia come quello dell’emblematica azienda Lip in Francia, esprimevano la volontà dei lavoratori di acquisire una voce nella gestione delle imprese. Tale spinta venne fatta propria dalla sinistra europea, seppur in forme variegate e divergenti, anche a seconda del contesto nazionale. Ad esempio, mentre in Francia si diffondeva soprattutto l’idea di autogestione delle fabbriche dagli operai, in Germania dominava l’idea di co-gestione dei rappresentanti dei lavoratori e del padronato.
Negli anni Settanta, il tema ispirò effettivamente molte proposte di riforma in Europa. In Italia l’apparizione dei Consigli di fabbrica dopo il 1968 e lo Statuto dei lavoratori del 1970 rafforzarono il ruolo dei lavoratori e dei loro rappresentanti sindacali nelle aziende. In Germania, la legge sulla co-determinazione (Mitbestimmung) del 1976 estese la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori nei consigli di sorveglianza (ma non nei consigli di amministrazione) a tutte le aziende con più di 2.000 dipendenti. Nel Regno Unito, il rapporto Bullock del 1977, commissionato due anni prima dal primo ministro laburista Harold Wilson (ma mai applicato) andava ben oltre la co-determinazione alla tedesca, formulando una proposta nota come «2x + y», che prevedeva lo stesso numero di amministratori scelti dai lavoratori e dai datori di lavoro nel consiglio di amministrazione, integrato da un numero di amministratori nominati dallo Stato. In Svezia, il Piano Meidner presentato nel 1975 dalla principale confederazione sindacale del paese, la Lo, puntava alla graduale socializzazione della proprietà delle aziende.
Il tema della democratizzazione dell’economica si pose anche a livello europeo, sia per il tramite del sindacato – che si andava organizzando e unificando su scala continentale con la creazione, nel 1973, della Confederazione europea dei sindacati (Ces) – sia attraverso la socialdemocrazia europea, allora in forte ascesa elettorale. Così la Commissione europea elaborò una serie di proposte – poi sistematicamente accantonate dal Consiglio europeo – volte a garantire una rappresentanza dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle aziende, o alla creazione di comitati aziendali transnazionali.
Ai tentativi di rafforzare il controllo operaio sulle aziende se ne affiancò un altro – ricostruito da Francesco Petrini – mosso dal movimento sindacale internazionale e volto a stabilire un controllo democratico sulle multinazionali. Di fronte al fenomeno emergente delle delocalizzazioni o alle tecniche di elusione fiscale adottate dalle grandi aziende, il sindacalismo internazionale sviluppò diverse strategie, volte ad arginare la perdita della capacità di organizzazione e di contrattazione che ne derivava. In primo luogo, tentarono di sviluppare delle strutture sindacali transazionali a livello dell’azienda, i cosiddetti Comitati aziendali mondiali. In secondo luogo, si attivarono dentro le organizzazioni internazionali come le Nazioni unite e l’Organizzazione internazionale del lavoro, per ottenere un quadro normativo che regolasse le attività delle multinazionali. Questo tentativo, che trovò nel movimento dei paesi del Terzo Mondo un importante alleato, incontrò una forte resistenza da parte del big business e dei Governi che lo rappresentavano (Usa in testa) e portò soltanto all’adozione di codici di condotta per le multinazionali vaghi e non vincolanti. La terza strategia si sviluppò all’interno della Comunità europea (CE), l’unica organizzazione internazionale che avesse poteri legislativi sovranazionali. Qui i tentativi di democratizzare le imprese e controllare le multinazionali culminarono nella proposta di direttiva europea sull’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese transnazionali. Essa fu presentata nel 1980 dal commissario europeo per gli affari sociali, il laburista olandese Henk Vredeling – uno dei primi sostenitori delle istanze sindacali e socialiste per un’«Europa sociale» – il quale riuscì a far adottare la sua proposta dalla Commissione, nonostante le vive critiche e l’ostilità di gran parte dei commissari.
Pur non essendo affatto rivoluzionaria – si parlava di informazione e consultazione, non di co-decisione e ancora meno di autogestione – la proposta della Commissione era comunque vista come una seria minaccia dalle multinazionali, perché favoriva la possibilità di organizzazione dei lavoratori a livello transazionale. Il testo prevedeva che le decisioni delle imprese multinazionali su tutte le questioni «suscettibili di influenzare sostanzialmente gli interessi dei lavoratori» (tra cui investimenti, chiusure o trasferimenti, importanti cambiamenti organizzativi, fusioni, e così via) fossero soggette all’informazione e alla consultazione dei rappresentanti dei lavoratori nelle filiali europee. Inoltre, le imprese in questione sarebbero state soggette a obblighi di divulgazione (riguardo alla loro situazione economica, alla produzione, agli investimenti, ai progetti di ristrutturazione, all’introduzione di nuovi metodi e tecnologie di lavoro, ecc.).
Per di più, la proposta di direttiva cercava di rendere i quartieri generali delle multinazionali responsabili nei confronti dei lavoratori delle loro filiali. Infatti, la cosiddetta «clausola di by-pass» permetteva ai rappresentanti dei lavoratori di entrare in consultazione diretta con la sede principale dell’azienda nel caso in cui la sua filiale locale non avesse fornito informazioni soddisfacenti, ciò anche nel caso in cui la sede principale si fosse trovata fuori dalla Comunità europea. In quest’ultimo caso, la casa madre avrebbe dovuto designare un «agente» all’interno della Comunità europea incaricato di informare e consultare i lavoratori; altrimenti, questa responsabilità sarebbe ricaduta sulla più grande filiale dell’azienda all’interno della Comunità europea. La direttiva avrebbe dovuto applicarsi a tutte le società multinazionali con più di 99 dipendent e a tutte le società la cui sede principale si fosse trovata al di fuori della Comunità europea ma che avessero impiegato più di 99 lavoratori in una delle loro filiali europee. In sintesi, contrastando il segreto aziendale, bypassando la gestione locale e potendosi applicare a società extra-CE, la direttiva intendeva colpire la libertà assoluta e l’immunità alle negoziazioni collettive di cui godevano – e godono tutt’oggi – le imprese che operano in più di un paese. Infine, rispetto ad accordi internazionali di altro tipo, la «direttiva Vredeling» sarebbe stata giuridicamente vincolante.
Il fallimento della sinistra europea
Ovviamente, la proposta di direttiva scatenò una feroce reazione da parte delle organizzazioni padronali, delle élite economiche internazionali e delle forze conservatrici-liberali. Essa diede vita a quella che all’epoca venne descritta come la campagna di lobbying più costosa nella storia del Parlamento europeo. Le cerchie affaristiche europee, americane e internazionali si scagliarono con una veemenza senza precedenti contro la Commissione europea, il Consiglio e gli Stati membri, nonché contro il Parlamento europeo e il Comitato economico e sociale, che avevano un potere meramente consultivo. I detrattori descrivevano la direttiva come una «vera e propria rivoluzione». L’Unice – l’organizzazione padronale europea, oggi BusinessEurope – respinse risolutamente la proposta, giudicandola «inaccettabile»; «inutile», poiché esistevano già i (non vincolanti) codici di condotta per le multinazionali stipulati in sede Ocse, Onu e nell’Ilo; «deleteria» per «l’autorità» dei datori di lavoro e per la competitività delle imprese all’interno della Comunità.
Così come l’Unice, innumerevoli camere di commercio internazionali e nazionali, organizzazioni padronali, multinazionali europee, americane, giapponesi, politici e funzionari governativi si impegnarono in sforzi costanti per opporsi alla direttiva, criticarne ogni parte, ritardarne la procedura, con lo scopo di insabbiarla. Nel Congresso degli Stati uniti furono persino presentate proposte di legge volte a proteggere le imprese americane dalla direttiva, per esempio per impedire alle imprese americane di divulgare informazioni in Europa.
Di fronte a una controffensiva così massiccia, come per le sue altre proposte per un’Europa sociale la sinistra europea avrebbe dovuto intensificare i suoi sforzi per costituire un blocco sociale e politico efficiente. Oltre alla Commissione e agli stati membri, uno dei campi di battaglia istituzionali chiave era quello del Parlamento europeo che, anche se aveva ancora solo un ruolo consultivo, stava guadagnando legittimità politica, in particolare in seguito alla prima elezione diretta del 1979. La sua opinione poteva quindi influenzare le decisioni della Commissione e del Consiglio, e le élite economiche ne erano ben consapevoli. Purtroppo per la sinistra europea, le elezioni del 1979 avevano segnato l’emergere di una maggioranza di destra di conservatori, democristiani, liberali e gaullisti. La sinistra al Parlamento europeo avrebbe quindi dovuto lavorare molto duramente per conquistare il consenso dei membri di altri gruppi, soprattutto dei democristiani di sinistra, più vicini ai sindacati.
La battaglia non era persa in partenza, anzi, nei primi mesi sia il Consiglio che il Comitato economico e sociale e la commissione Affari sociali del parlamento davano segnali incoraggianti per la sinistra europea. In vista dei dibattiti in aula nell’autunno 1982, però, la maggioranza di destra aveva presentato quasi 300 emendamenti mentre l’atteggiamento dei deputati socialisti assomigliò a un autosabotaggio, tra assenteismo, mancanza di disciplina al voto, e scarsa capacità di raccogliere adesioni negli altri gruppi. La direttiva venne dunque smantellata al momento del voto. Negli anni seguenti, la lobby industriale proseguì con le sue pressioni volte a seppellire la proposta, ricevendo un aiuto notevole dal governo britannico di Margaret Thatcher. La proposta di Vredeling fu così informalmente abbandonata dopo anni di discussioni inconcludenti. Il sindacalismo europeo, in oltre dieci anni di battaglia, non ottenne dunque quasi niente – non essendo riuscito né a organizzare una mobilitazione transnazionale dei lavoratori europei, né a fronteggiare la lobby padronale nella battaglia istituzionale.
Come per altre battaglie – quella sulla riduzione dell’orario di lavoro ad esempio – la sconfitta della sinistra europea sulla direttiva Vredeling contribuiva e al tempo stesso era il sintomo di un netto cambiamento dei rapporti di forza a livello europeo. Laddove l’egemonia socialdemocratica del lungo Sessantotto aveva aperto uno spiraglio per la costruzione di un’Europa più vicina agli interessi dei lavoratori, sin dai primi anni Ottanta la svolta conservatrice era evidente tanto nella Comunità europea quanto nei suoi stati membri.
Lottare in un’Europa neoliberista
L’odierna Unione europea neoliberista è il risultato di quelle sconfitte, e più in generale della sconfitta subita dai lavoratori nello scontro prodottosi alla fine degli anni Settanta, all’esaurirsi del «compromesso keynesiano». Dalla firma dell’Atto unico europeo del 1986 in poi, l’Ue ha accelerato la liberalizzazione dei mercati di capitali, di merci e servizi, e ha abbandonato l’idea di pianificazione e regolazione economica e sociale che aveva caratterizzato il progetto d’«Europa sociale». Con gli allargamenti successivi, e con gli accordi commerciali stipulati con il resto del mondo, è stata favorita una crescente concorrenza tra i lavoratori d’Europa e del mondo. Del resto, il sindacalismo confederale europeo, così come la socialdemocrazia europea e alcuni degli eredi dell’eurocomunismo, si allinearono progressivamente al compromesso neoliberista, annientando le già scarse possibilità di realizzazione di un’Europa «dei lavoratori e delle lavoratrici».
Nel complesso, nonostante alcune modeste estensioni della «dimensione sociale» dell’Ue (per esempio nel campo della salute e sicurezza al lavoro), si può dire che la politica sociale europea abbia subito dagli anni Ottanta in poi quella che Wolfgang Streeck ha chiamato «regressione progressiva»: sempre più orientata verso gli obiettivi di competitività, flessibilità e «ristrutturazione» del mercato.
Un esempio di tale regressione è stato il destino della direttiva Vredeling: dopo la sconfitta di quel progetto, il principio di informazione e consultazione dei lavoratori europei è rimasto dormiente per diversi anni. Nel 1994, grazie all’estensione del voto a maggioranza qualificata in Consiglio, l’Ue ha adottato finalmente una direttiva sull’istituzione dei Comitati Aziendali Europei (Cae), che ha imposto alle imprese con più di 999 lavoratori, di cui almeno 150 in due diversi paesi europei, di negoziare e installare un organismo transnazionale di rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, con diritti legali di informazione e consultazione. Tuttavia, la direttiva adottata nel 1994 (rivista nel 2009) è molto meno ambiziosa della vecchia direttiva Vredeling. I Cae non sono infatti obbligatori, ma vanno negoziati dopo un’iniziativa di almeno un centinaio di dipendenti; la direttiva fornisce solo requisiti generali invece di un quadro comune sulle competenze, le procedure, il ruolo e la composizione del Cae; promuove la flessibilità e incoraggia la creazione di una cultura aziendale per facilitare la gestione del management; non si estende alle sedi al di fuori dell’Ue o dello Spazio economico europeo; soprattutto, tutti i Cae creati prima del settembre 1996 (39% degli oltre 1.000 Cae esistenti oggi) sono esclusi dal quadro giuridico vincolante della direttiva.
In effetti, gli studi dimostrano che i diritti previsti per i Cae sono molto spesso ignorati e violati: solo una minoranza dei comitati viene infatti informata prima che le decisioni siano finalizzate o addirittura rese pubbliche; quasi un terzo di essi non viene affatto consultato. Così è stato nel caso della Gkn, il cui Cae non è stato minimamente informato o consultato riguardo alla chiusura e ai licenziamenti del sito di Campi Bisenzio. Più in generale, come l’Istituto Sindacale Europeo ha recentemente sottolineato, in Europa la democrazia sul posto di lavoro è in netto declino. Basti constatare la debolezza delle rivendicazioni della Confederazione europea dei sindacati riguardo all’attuale dibattito in commissione Affari Sociali del Parlamento europeo su una riforma della direttiva sui Cae, per comprendere quanto questa tendenza non stia per cambiare in meglio.
I lavoratori della Gkn oggi possono toccarlo con mano: l’Europa attuale non è per niente «dei lavoratori». La settimana scorsa, alcuni lavoratori del Collettivo di fabbrica della Gkn, insieme ad attivisti di Potere al Popolo hanno incontrato degli europarlamentari del gruppo della sinistra europea The Left. L’incontro ha confermato l’assenza, nei trattati e negli strumenti europei, di tutele che possano essere d’aiuto per i lavoratori di Firenze. Il fatto che Gkn abbia ricevuto milioni di fondi pubblici, italiani ma anche europei, e che l’azienda continui a pagare dividendi ai suoi azionari non viene trattato come un fatto rilevante nel quadro di regole europee, come denunciato dall’eurodeputato Marc Botenga in una interrogazione rivolta alla Commissione europea.
Oggi, dunque, la battaglia degli operai della Gkn non può che svolgersi innanzitutto a livello nazionale. Gli operai chiedono giustamente al governo italiano di intervenire con un decreto d’urgenza per fermare la chiusura e i licenziamenti, e di agire per l’adozione di una normativa generale che contrasti le delocalizzazioni e lo smantellamento del tessuto produttivo, assicuri la continuità occupazionale e sanzioni severamente i comportamenti illeciti delle imprese in Italia, in particolare di quelle che hanno fruito di agevolazioni economiche pubbliche. Rimane un obiettivo lontano quello di impedire, all’interno dell’Unione europea e oltre, che le imprese multinazionali possano lucrare sull’ingiusta disparità salariale, sociale e fiscale esistente tra gli Stati membri.
D’altronde, i lavoratori Gkn di Campi, Birmingham, e Offenbach per ora continuano a lottare frammentati. E manca una vera mobilitazione di massa per un salario minimo europeo, per una ridistribuzione del tempo di lavoro a livello europeo, e così via. Finché non ci metteremo nelle condizioni di ricominciare a organizzare, a livello internazionale, un contropotere popolare che riesca laddove la socialdemocrazia ha fallito, non potremo realmente contrastare gli interessi del capitale e ribaltare l’ordine europeo e mondiale ereditato dagli anni Settanta. Per farlo, bisognerà trarre le lezioni dalla storia.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin Italia il 22 settembre 2021