Per i profughi afgani i problemi non sono ancora finiti

di Annalisa Camilli /
8 Settembre 2021 /

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Aveva deciso di tornare in Afghanistan nel 2016, dopo sette anni in Italia e la laurea in economia e gestione aziendale all’università di Trento: Malalai Alamuddin era sicura che avrebbe potuto mettere a frutto gli studi nel suo paese di origine e mai avrebbe pensato di essere costretta a fuggire di notte con i due figli, il marito e il fratello, dopo aver distrutto tutti i documenti che riguardavano il suo lavoro come dirigente al ministero delle finanze afgano. “Il mio sogno di avere una vita in Afghanistan rimarrà tale, ero tornata perché volevo essere utile al mio paese, ma non è stato possibile”, afferma.

Ha 32 anni ed è originaria della provincia di Ghazni, la incontro i primi giorni di settembre, nella tendopoli di Avezzano, in Abruzzo, gestita dalla Croce rossa e dalla Protezione civile, prima che sia trasferita in un centro di accoglienza in Campania. È arrivata in Italia cinque giorni prima del nostro incontro grazie al ponte aereo che da Kabul ha portato in Italia più di cinquemila persone quando i taliban hanno preso il potere nel paese. Ora si sente finalmente al sicuro dopo settimane passate a nascondersi in casa, senza viveri, con il terrore di essere uccisa per la sua collaborazione con i governi occidentali e con l’esecutivo di Ashraf Ghani.

Non ha portato niente con sé, né ricordi né documenti: ha preso giusto qualche vestito per cambiare i bambini, ma non sono serviti, perché per raggiungere l’aeroporto di Kabul ha dovuto attraversare un fiume ed è arrivata dall’altra parte completamente inzuppata. Solo parecchie ore dopo essere arrivata nella tendopoli di Avezzano ha potuto mettere dei vestiti puliti ai suoi figli, che hanno rispettivamente quattro anni e un anno.

Malalai Alamuddin ha dovuto affrontare molti ostacoli nella sua vita e ora spera che il suo perfetto italiano la aiuti a trovare un lavoro da interprete o da mediatrice e che i suoi figli possano studiare nel paese che l’ha già accolta quando aveva diciannove anni e le ha permesso di andare all’università con una borsa di studio. Il primo ostacolo che Alamuddin ha dovuto affrontare è stato quello di affrontare un percorso scolastico in un paese in cui il tasso di analfabetismo femminile si aggira ancora tra l’84 e l’87 per cento.

In seguito, convincere i suoi a farla partire per l’Italia non è stato facile: “Nei sette anni in cui sono stata in Italia da sola, la mia famiglia ha subìto migliaia di domande da amici e conoscenti, chiedevano che facessi da sola in Italia. La mia famiglia si è fidata di me, mi ha lasciato partire a 19 anni, visto che io fin da piccola avevo il desiderio di studiare”, racconta. Il giorno che i taliban sono entrati a Kabul ha ricevuto una telefonata: dal suo ufficio le hanno detto di distruggere tutti i documenti in suo possesso, di cancellare tutte le informazioni, perché era in pericolo di vita per il semplice fatto di lavorare per il governo afgano.

“Non avrei mai pensato che sarebbero arrivati al potere così velocemente: avevamo una bella vita, un bel lavoro, una casa, non pensavamo di dover ricominciare tutto da zero all’improvviso. E invece…”. Invece sono stati rinchiusi per giorni nella loro casa di Kabul finché, grazie a due amiche italiane, hanno avuto il lasciapassare per raggiungere l’aeroporto.

“I militari italiani ci hanno detto di raggiungere un certo posto, dovevamo distruggere tutti i messaggi Whatsapp subito dopo averli letti, ma quando siamo arrivati in quel posto, c’erano centinaia di persone ad aspettare”, racconta Alamuddin. “Abbiamo sventolato una cartellina blu come eravamo rimasti d’accordo e questo ci ha salvato”, ricorda.

La felicità di salire sull’aereo che li ha portati prima in Qatar e poi in Italia è stata grande, pari alla preoccupazione per quelli che sono rimasti indietro. “Siamo in contatto con loro, ci scriviamo, la situazione è terribile”. Alamuddin ha fiducia nel futuro: il suo sogno è di potere iscriversi al dottorato o a un master. “Ho sempre sognato di proseguire gli studi”. Ma quando ci sentiamo qualche giorno dopo il nostro incontro mi dice che è stata trasferita a Napoli in una struttura per i malati di covid, l’ospedale del Mare, insieme ad altri 112 profughi. Si trova in quella struttura per essere sottoposta a quarantena, ma teme di prendere il covid e di non essere trasferita a Trento, dove ha degli amici che la potrebbero aiutare.

Un’altra che è preoccupata del suo futuro è Shahrbanu Haidari, un’attivista per i diritti delle donne, che dalla tendopoli di Avezzano è stata trasferita in un centro di accoglienza a Irsina, un comune di 4.500 abitanti in Basilicata. “Siamo arrivati venerdì e per tre giorni non ci hanno detto niente, il centro di accoglienza è sporco, le lenzuola rovinate e non ci stanno dicendo nulla sul futuro, neppure spiegando come possiamo fare per studiare l’italiano”, mi scrive qualche giorno dopo il nostro incontro in Abruzzo.

Haidari è dovuta scappare da sola, lasciando nel suo paese suo padre e i suoi fratelli. La situazione per lei che si era occupata in particolare della condizione femminile era molto pericolosa. “Non sarei voluta partire, ma tutti mi hanno spinto a farlo, perché mi hanno convinto che posso essere più utile al mio paese se sono viva e se sono in Europa”. Anche Haidari ha dovuto distruggere tutti i documenti legati al suo lavoro di attivista e di insegnante, è riuscita a portare con sé solo il suo computer e dei piccoli orecchini d’argento con una pietra azzurra che sono un ricordo di sua madre, morta per una malattia due mesi prima della presa di potere da parte dei taliban. Anche per lei studiare è stata un’impresa: “Dovevo camminare quattro ore per raggiungere la scuola, ma volevo andarci a tutti i costi”.

Lavorare come attivista per i diritti delle donne nel suo paese negli ultimi sette anni è stato in ogni caso pericoloso: “Ricevevamo minacce e non potevamo andare in certe aree del paese, perché era rischioso”. Haidari è ancora scioccata dalla presa di Kabul da parte dei taliban, anche lei non se l’aspettava. Racconta di essere entrata subito in clandestinità e di essersi rifugiata per tre giorni a casa di un’amica, senza uscire. “I taliban ci hanno cercato casa per casa, hanno fatto irruzione nell’appartamento di una collega e dopo questo episodio abbiamo capito che non c’era altro da fare che lasciare il paese”.

Dopo nove giorni è riuscita a mettersi in contatto con i soldati italiani attraverso l’aiuto di un’amica. “Sono andata all’aeroporto di Kabul di notte, mi avevano dato una parola d’ordine da comunicare ai soldati per farmi passare, ma l’aeroporto era pieno di gente, ho aspettato dieci ore”, racconta. Ora la sua preoccupazione è imparare l’italiano, ottenere i documenti e provare a portare in salvo anche la sua famiglia, che ha dovuto lasciare in Afghanistan.

L’Italia è stato il paese europeo che ha accolto più afgani dall’inizio della crisi ad agosto, ma le associazioni del tavolo asilo sono preoccupate che non sia riservato loro un trattamento adeguato. Il centro della Croce rossa di Avezzano ha ospitato fino al 3 settembre una parte dei profughi arrivati con il ponte aereo: in tutto 1.320 persone di cui il 50 per cento donne, 220 nuclei familiari, 324 minori sotto i dodici anni. “Il campo di Avezzano è stato allestito per una prima accoglienza dignitosa a chi è arrivato con il ponte aereo ed è stato organizzato in modo da fare cominciare la quarantena a seconda dell’ordine di arrivo, le tende sono state suddivise per unità familiare”, dice Francesca Basile, responsabile immigrazione della Croce rossa che ha lanciato una raccolta fondi. Ai profughi è stata fornita assistenza sanitaria, vestiti e pasti caldi, infine sono stati vaccinati e sottoposti a tampone.

Mentre alcuni sono in fila per salire sugli autobus militari che li porteranno a destinazione e altri aspettano di sottoporsi al test per il coronavirus, incontro Amena Batori, una ragazza hazara. È la figlia di uno dei leader del gruppo e in Afghanistan era una ciclista e una lottatrice di taekwondo. Ora vorrebbe continuare a fare sport, perché “è tutta la sua vita”. Mi mostra dei video sul telefono con le gare a cui aveva partecipato nel suo paese. “Potrò ancora allenarmi?”, chiede.

Chi invece è preoccupata per la sua famiglia che è rimasta in Afghanistan è Fatima Shefaie, che incontro all’interno di una tenda azzurra, seduta su una branda. Faceva la giornalista radiofonica nel suo paese e aveva lavorato anche con il contingente italiano a Herat. Sono stati proprio i militari italiani a contattarla dopo l’arrivo dei taliban per aiutarla a scappare dal paese: è riuscita a portare con sé suo marito, i suoi due figli e sua suocera, ma ha lasciato suo fratello che ora non ha speranza di uscire.

Le uniche cose che ha portato con sé sono delle foto: ci sono matrimoni, ragazzini in posa di fronte a palazzi storici, tutta la vita della famiglia in quegli scatti. “Mio fratello ha lavorato per gli americani, si aspettava di essere portato in salvo da loro, ma non ha ricevuto in tempo il visto e le indicazioni per uscire”, mi guarda con occhi stanchi. “Non mi darò pace finché saprò che è ancora lì”.

Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 7 settembre 2021

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