La politica con altri mezzi e in altri posti. Santarcangelo Festival 2050: una chiacchierata con Enrico Casagrande

di Silvia Napoli /
8 Luglio 2021 /

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Ci scherza su, Enrico Casagrande, insieme a Daniela Nicolo, nucleo fondativo di Motus compagnia e Direzione artistica di Santarcangelo 2050, su questa sorta di traversata nel deserto che è stato l’ultimo biennio del festival, pesantemente segnato dalle vicende pandemiche e costretto a reinventarsi continuamente oltre la sua stessa leggenda.

Accidenti, ci siamo anche detti, proprio noi che già avevamo l’impegnativa missione di celebrare i 50 anni del Festival, dovevamo affrontare questa complicatissima situazione. Che oltretutto, non è finita. Ma, a questo punto, con il catalogo segnato dalla visionarietà di una giovane artista taiwanese già in stampa, il bel tempo propiziatore arrivato e il futuro nuovo direttore polacco già nominato e atteso in arrivo a breve come ospite al festival, si capisce che ormai il più è fatto e si può tranquillamente, non tanto tirare una riga di cesura e neppure fare il solito bilancio auto celebrativo, quanto godersi i risultati, farne tesoro e proiettarsi in avanti.

Lo scorso anno, abbiamo fatto una edizione d’emergenza, che coincideva anagraficamente con i 50 anni tondi del Festival, cominciando a lavorare in maggio e riuscendo a portare a casa il risultato di un programma pronto in tempi rapidissimi, grazie al contributo di tutti, con quella sorta di public call, chiamata Futuro fantastico. Un invito a pensare l’Utopia, a configurare altri mondi possibili, partendo si da una situazione e da un immaginario contestualmente distopici, ma con quel sottotesto di implicito ottimismo delle intenzioni che contraddistingue sempre chi combatte l’ovvietà del già dato con armi artistiche.

Abbiamo rinunciato all’attitudine clubbing e danzereccia e a tutti gli spazi chiusi, imparando a conoscere e valorizzare i parchi, a frequentare di più lo Sferisterio, inventandoci la caffetteria punto di ritrovo, post festival Bisonte, spazio chill out, location ideale per il talento carsico da compilatori di playlists se non proprio djsetters, di moltissimi dei nostri performers. Abbiamo fatto in modo che comunque non mancasse la componente musicale per noi sempre cosi fondante e soprattutto la prospettiva di un’uscita da tutto questo e di una svolta, anche se inevitabilmente questi momenti cosi fortemente transitori, cosi celebrativi, richiamano sempre un volgersi indietro, un momento di riflessione storicista, una contemplazione di uno splendore che fu o di una misura aurea delle cose che oggi ci sfugge o comunque non avremmo mai i mezzi per ottenere … una difesa dalle ristrettezze e amarezze del momento, il riempire dei vuoti con la riaffermazione di ciò che siamo stati o l’aggrapparsi a tutto ciò che può suonarci a posteriori come rivelatorio.

In effetti, liberati d’un tratto dalle costrizioni più dure si è tutti ansiosi di ripartire anche troppo in fretta e di inzepparsi di eventi, appuntamenti, rassegne, in modalità persino bulimica, dando la stura a ricorrenze, centenari e quant’altro. Questo il marchio del momento insieme alla spasmodica lettura dei segni, l’artista come profeta, indovino, veggente è ciò che la scena ci sta consegnando.

Ma la Santarcangelo dei Motus è anche molto altro, non rinuncia a quella spinta propulsiva che in fondo è un po’ una politica delle pratiche comunitarie e di una dimensione pubblica estesa nel senso più vasto del discorso teatrale. In effetti noi ci sentiamo un po’ testimoni, un po’ coordinatori, un po’ compagni di strada, di tutto ciò che magmaticamente bolle sotto la crosta delle difficoltà, della stanchezza, della miseria, della rinuncia depressiva. Questo è il secondo movimento del Futuro fantastico, ma è già tutto qui, assolutamente. Le nostre zone di mezzo, sono dedicate alle produzioni italiane più giovani.

Certamente hanno l’assolutismo del candore proprio dell’età giovanile e le tematiche sono spesso legate alle questioni di identità e genere. Chissà perché in Italia, abbiamo da sempre, o almeno avevamo, che ora una certa lucidità difetta, un dibattito teorico culturale sempre raffinato e profondo, riguardo questi assetti, che hanno poi ripercussioni profonde nella società. Poi però, la fase realizzativa, la spinta concreta a cambiare il costume, la morale correnti, hanno fatto sempre difetto.

Concordiamo quindi che l’agone teatrale, la pratica del farsi, la grammatica di linguaggio che implica, siano rispetto alla fumosità circostante, un autentico mettere le mani in pasta e sporcarsi, una prassi, contrapposta ad un livello sempre pensato e mai agito. L’attuale dibattito su certi decreti legge, l’immobilismo su questioni che ormai ci paiono banali come ius soli o altre, ci raccontano di una incapacità culturale e politica di cogliere l’evolversi delle cose dal basso. Esattamente il contrario di quanto accade nel teatro ibridato e vigile che ci piace.

Non è un caso che il sottotitolo di questo lungo cinquantenario del duemila sia festival mutaforme di meduse, cyborg e specie compagne. Perché il teatro si fa gettando il corpo nella lotta, ma è anche vero che dovremmo interrogarci su quale corpo e smetterla comunque sia di temere le tecnologie, sia di pensare la specie umana come prioritaria. Il teatro è un gioco di molte complicità e alleanze, senza dominanti, davvero un grande sforzo collettivo e un mix di molte forme del linguaggio. Penso che l’uso più accorto ed intenso delle tecnologie da remoto non ci abbandonerà più e scorrerà in parallelo. Credo che ci aiuti talvolta anche in termini di sostenibilità economica e dunque ecologica. Anche a livello relazionale è fondante. Ti faccio un esempio. Di solito noi andavamo molto in giro per festivals anche a scegliere cose, stavolta non abbiamo fisicamente visto gran parte degli spettacoli, in compenso però abbiamo curato un lungo e proficuo dialogo con gli artisti. Non si è trattato di fare vetrina, ma di costruire davvero insieme nel dialogo e questo è un portato positivo della emergenza.

Naturalmente, per ciò che riguarda il focus principale su cui ci è sembrato giusto lavorare, dobbiamo dire che la pandemia ci ha sempre più convinti che le questioni legate a ciò che definiamo ormai comunemente Antropocene, siano il tema per eccellenza e che si lega del resto benissimo, a quanto detto sopra.

L’attenzione alle dinamiche di spoliazione ambientale ci affascinavano già da prima, cosi come il rapporto tra spazi naturali, affermazione culturale e azione performativa. Luoghi, habitat, modalità dello stare e del fruire nello spazio. Stili comunitari innovativi. Tutto questo abbiamo trovato che ha una declinazione sorprendentemente femminile e femminista, soprattutto tra coreografe e performers, e globalista internazionalista. Pochi in italia riescono a trattarne cosi sentitamente, ma in fondo anche nel vecchio continente. Mentre dal Ghana, dal Messico, abbiamo intrecciato proficue relazioni e come dicevo, siamo stati facilitati dalle tecnologie in questo. In più dobbiamo dire che se sei interessato al cambiamento, ecco che devi volgerti a questi paesi altri per trovare una profonda aspirazione alla rivolta e al modificarsi dei paradigmi culturali. Quindi si, avremo una presenza estera molto importante e come sempre cercheremo di equilibrare questo con vecchi amici del festival, l’annodare fili territoriali e generazionali: sto pensando a Cristina Kristal Rizzo per esempio, che sarà madrina l’8 di una inaugurazione in stile asiatico, con la performance di fumi colorati beneauguranti soffiati dalle canne di bambu, o a Enrico Malatesta, o a Raffaello Sanzio o Montanari, che debutterà dopo un’anteprima a Castrovillari, con questo poemetto scritto da Marco Martinelli, illustrato elegantemente da Stefano Ricci con accompagnamento musicale, anche se l’espressione è realmente impropria,di Daniele Roccato, dal titolo Madre.

Ci teniamo anche tanto a lasciare per i più giovani una traccia di memoria, tramite la mostra di foto di Uliano Lucas che ripercorre questi anni gloriosi di festival, letteralmente volati via e che ormai sono un pezzo di storia, e naturalmente anche alla riproposizione del docu di Rossi Mellara che l’anno scorso fece da volano a questa ostinata festa teatrale che abbiamo voluto comunque a tutti i costi. Devo dire che rispetto ai giovanissimi, dai 5 ai 99 anni, come scherzosamente diciamo, la cosa più importante per noi è che ci siano molti laboratori e dunque molti modi di partecipazione attiva“.

Il fiore all’occhiello di questo ragionamento è naturalmente la sezione presentata oggi, mentre scrivo, con apposita conferenza stampa dal titolo di per sé estremamente rappresentativo, How to be together, ovvero come stare insieme. Una gemmazione diretta della attuale direzione del festival e di tutti i suoi addentellati internazionali, dai Paesi bassi all’Asia e una sorta di tentativo di riportare la Comune, come utopia praticabile, prefigurazione del futuro auspicato, piu che fantastico, al centro: non sarà in effetti ora di passare a vie di fatto, dopo tanto speculare visionario?

Pertanto, lo scenario è quello di un campeggio comunitario approntato con tende singole, per 50 persone tra performers internazionali e facilitatori, rigorosamente dotato di spazi e strutture di autosufficienza ideate dall’architetto Matteo Ascani sul meraviglioso colle dei Cappuccini, opportunamente ripulito da rami secchi e altri detriti. Un eco villaggio, insomma, che nell’arco di una decina di giorni, ha il compito di interrogarsi su quelle buone pratiche performative che ci fanno comprendere cosa possiamo fare insieme che non potremmo fare da soli. Un ottimo quesito sul fare collettivo al centro di tutto l’impianto di un festival che in fondo da un pezzo non è tale, non tanto perché possono essere saltate sessioni o impegni trasferiti all’inverno dei nostri infiniti lockdowns, ma perché si prefigge da tempo una continuità temporale ed una espansione territoriale globale, che vengono poi a sintesi, in uno specifico localizzalizzato, ad alta intensità internazionalista e di differenze. I gruppi di lavoro, che avranno per tutto il tempo autosufficienza energetica e alimentare, tramite diverse guide, affronteranno, prima dell’incontro pubblico, del 18 luglio, temi come, space commoning, ovvero la dimensione spaziale, come posto delle relazioni, oppure la comunicazione come rituale magico, oppure il discorso già accennato sugli ecosistemi ultraumani, oppure ancora. estetica e politica o il selvatico, come forma di conoscenza alternativa.

La scommessa e speranza di tanto ardire cognitivo è, a mio avviso, che appunto non si perda un filo rosso che viene da lontano e che apparentemente, potrebbe suonare avulso da questi contesti innovativi. Il festival grande recettore e catalizzatore di esperienze, è in verità stato sempre tale, dall’Odin, al Living, a Leo, fino all’oggi, coniugando sempre la popolarità della vita del borgo, con le concezioni più avanguardistiche della pratica artistica. Tutto questo, ricongiungendosi al gran finale del campus di cui sopra, è ben presente nel volume Santarcangelo 50 festival, a cura di Roberta Ferraresi che sarà una sorta di abbrivio e auspicio per questa edizione de luxe, fuori catalogo e che verrà presentato alle 19 dell’8 luglio al mitico Bisonte caffe. Insomma, anche la Romagna val bene più di una messa, specialmente se non avete ancora vista questo piccolo gioiello a ridosso dell’arena Sferisterio. L’invito, come sempre, è a rimanere con occhi, orecchi e, perché no, branchie, se non polmoni, aperti e spalancati alla meraviglia .

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