L’ultima idea per Bagnoli, l’area a ovest di Napoli che per quasi tutto il novecento ha ospitato un imponente insediamento industriale, era quella di piazzarci un carcere. L’istituto penitenziario sarebbe dovuto sorgere non esattamente dov’erano gli impianti dell’Italsider, che smisero la produzione nel 1991, ma un po’ più indietro rispetto a dove ora sopravvive questo edificio diroccato, senza infissi, crepato in più punti e aggredito da muffe e da grovigli di arbusti frondosi, che un tempo alloggiava i militari della caserma Cesare Battisti. L’idea, in realtà, sembra durata un batter d’ali. Ora va sfumando, come tanti progetti che hanno svolazzato sui manti erbosi che da qui, da questo campo di rovi ai bordi del quartiere di Cavalleggeri d’Aosta, che con un po’ di fantasia e poca spesa potrebbe diventare un rigoglioso parco, arrivano fino al mare di Coroglio, carezzato dal vento caldo che oggi increspa le onde.
Il progetto del carcere nasceva da un’intesa tra due ministeri, quello della difesa e quello della giustizia, siglata nelle battute finali del primo governo Conte, poi confermata dal governo Conte 2 con l’assenso dei beni culturali. Nelle scorse settimane però è arrivato lo stop della ministra Mara Carfagna, che nell’esecutivo di Mario Draghi si occupa del Mezzogiorno. Motivo del dietrofront, richiesto anche dagli assessori regionale e comunale all’urbanistica? Il carcere contraddice i princìpi cardine del piano per rigenerare Bagnoli, fissati già nel 1996: un grande parco pubblico, campi sportivi, attrezzature turistiche e residenze. Insomma, un luogo per il tempo libero o anche solo per contemplarne la bellezza, sottratta da un secolo di industrie inquinanti.
A Bagnoli hanno tirato un sospiro di sollievo, ma quando se ne parla, un velo di stupore cala sugli sguardi: com’è possibile che a trent’anni dalla dismissione dell’Italsider, dopo tanti progetti, tanti dibattiti e tanti litigi, dopo concorsi d’architettura, una controversa bonifica avviata e naufragata, una nuova progettata ma altrettanto controversa, una grande quantità di soldi pubblici spesi, un processo celebrato in primo grado, e dopo diversi commissari si stia ancora lì a registrare che organi dello stato facciano programmi che confliggono con quelli redatti da altri organi dello stato? E che insomma a Bagnoli tocca sempre ripartire daccapo, come in un drammatico gioco dell’oca?
Un piano da riscrivere
Sconcerto, delusione, fatalismo. L’ipotesi del carcere è una delle micce che hanno riacceso a Napoli la polemica su Bagnoli, un classico che va avanti da un quarto di secolo. Altre micce le hanno fatto compagnia, in attesa che entri nel vivo la campagna per eleggere il nuovo sindaco. A marzo l’Istituto per la protezione ambientale (Ispra) e l’Agenzia campana per la protezione ambientale (Arpac) hanno contestato l’ennesimo piano di bonifica, l’altro grande classico di Bagnoli, stavolta messo a punto da Invitalia, l’azienda pubblica che dal 2014 dovrebbe attuare la trasformazione dell’area.
Il commissario di governo, che guida le operazioni, ne ha preso atto e ha dovuto rimandare il progetto al mittente. Per diverse settimane nessuno in città ha saputo nulla del contenzioso. Nel frattempo Invitalia ha rimesso mano al piano, riscrivendolo e accogliendo le diverse decine di osservazioni pesantemente critiche.
Di nuovo si è tornati punto e a capo, nonostante dalla legge cosiddetta Sblocca Italia del 2014 si sia deciso di derogare gran parte delle normative in materia di urbanistica per semplificare e velocizzare. Sono stati tolti poteri al comune di Napoli, è stato nominato un commissario straordinario e ci si è affidati al braccio operativo di Invitalia. Fino al 2018 il primo commissario è stato Salvo Nastasi, specialista in questo genere di missioni, sebbene nel settore dello spettacolo (lo è stato al teatro San Carlo, al Maggio fiorentino, al Petruzzelli di Bari e all’arena di Verona), attualmente segretario generale del ministero della cultura, abile navigatore dalle acque berlusconiane a quelle renziane.
A Nastasi è subentrato Francesco Floro Flores, proposto dall’allora ministra dei cinquestelle, Barbara Lezzi. Floro Flores è ingegnere, oltre che imprenditore nei settori aerospaziale e nautico con quattrocento dipendenti, proprietario anche dello zoo di Napoli e gestore dell’arena Flegrea, due strutture assai vicine a Bagnoli.
La riconversione di Bagnoli avrebbe dovuto ridare ossigeno a Napoli. L’area occupata dallo stabilimento siderurgico dell’Italsider, poi Ilva, e da tre fabbriche (Eternit, Cementir e Federconsorzi), in totale sette milioni di metri cubi, è grande 250 ettari e giace in questa conca compresa tra la collina di Posillipo, l’isolotto di Nisida e le frastagliate alture dei Campi Flegrei che chiudono il golfo con il capo Miseno. La piana è vincolata dalla soprintendenza e comprende un’altra sessantina di ettari, considerando anche il quadrato erboso che abbraccia la caserma Battisti. In questi trent’anni il verde si è in gran parte ripreso lo spazio nel quale sopravvivono alcuni pregevoli reperti come l’altoforno dell’acciaieria, anch’essi vincolati.
Il primo piano per la riconversione di Bagnoli risale agli anni tra il 1994 e il 1996. Ne sono stati artefici Vezio De Lucia, urbanista e assessore nella giunta di Antonio Bassolino, e l’ufficio di piano del comune di Napoli. Contro le tante ipotesi di riportare l’industria, seppur leggera, nella conca di Bagnoli, De Lucia e Bassolino proposero una svolta paesaggistico-ambientale. Due terzi dello spazio erano destinati a verde e a spiaggia: sarebbe sorto un parco di 120 ettari, uno dei più grandi della città, davanti al quale un arenile lungo due chilometri e senza più ingombri avrebbe restituito a tutti l’uso del mare. Un approdo avrebbe ospitato settecento barche e indietro, nella zona a ridosso dell’abitato, erano previsti alloggi pubblici e privati per quattromila abitanti, oltre ad alberghi, commercio e a un centro congressi.
Nel 1997 De Lucia lascia l’assessorato. L’anno successivo la regione approva definitivamente il piano. Comincia la tortuosa vicenda della bonifica, una vera dannazione per Bagnoli, che si trascina fino al 2013, quando la magistratura sequestra l’area e imputa ai vertici dell’azienda pubblica Bagnolifutura, fallita l’anno dopo, i reati di truffa, disastro ambientale, smaltimento illecito di rifiuti. In primo grado sono state emesse condanne da due a quattro anni. In sostanza, stando alle accuse, invece di bonificare è stata peggiorata la situazione.
Stranieri a casa propria
Del piano urbanistico si vedono sparute tracce. Non era prevista, ma c’è, una Porta del parco: un complesso con un auditorium, un centro benessere, caffetterie, parcheggi e una piazza. È costato 45 milioni di euro. Lo usa sporadicamente Invitalia, ma per lo più è chiuso e inutilizzato. Tutta l’area è blindata, inaccessibile. È un pezzo di città sottratto a una città che ne avrebbe un gran bisogno. Anche solo per avvicinarsi alla caserma Battisti bisogna infilarsi carponi in un buco nel muro di cinta alto una cinquantina di centimetri. Fuori dal muro, lungo la strada, un uomo scorta un bambino sul triciclo per proteggerlo dalle auto.
“Chi abita a Bagnoli è straniero a casa sua”, dice Massimo Di Dato, architetto, storico protagonista di battaglie per la riconversione del sito, autore di studi, a cominciare dalla tesi di laurea. “Di questo immenso luogo gli abitanti possono disporre in piccola parte, devono guardarlo attraverso le cancellate”, aggiunge, indicando una specie di terrazzino affacciato sulla distesa, dove fu sistemato perfino un cannocchiale, ora divelto. “Ma anche chi vive in altri quartieri di Napoli, città intasata e con poco verde pubblico, viene privato del diritto a uno spazio dove fare sport o passeggiare”, dice l’agronomo Antonio Di Gennaro, da tempo impegnato a denunciare il vuoto delle politiche per Bagnoli.
Poco distante dalla caserma ci sono i venti ettari del Parco dello sport. Sono stati attrezzati a partire dal 2007 e chiusi da un cancello con buffe figure geometriche in ferro battuto. La vegetazione alta e arruffata impedisce che dalla strada si scorga quel che c’è dentro. “Bisogna affacciarsi dalla collina di Posillipo”, dice Di Dato, “per vedere tanti campi di calcio, di calcetto e di tennis inscritti in alcune circonferenze che sembrano crateri e poi quel che resta di piste d’atletica, di un biolago, di un arboreto mediterraneo e di un camping. I lavori sono costati 35 milioni di euro, 25 erano fondi europei, e si sono fermati nel 2010. Nel tempo sono stati tanti gli atti vandalici”.
Il punto dolente resta la bonifica: come farla, certo, ma anche se farla o se invece sarebbe preferibile adottare altre procedure
Nonostante sia rinserrato nel suo degrado, racconta Di Gennaro, “il Parco dello sport è però vissuto da frotte di ragazzini che s’infilano negli squarci della recinzione”. Entrano di soppiatto, come nella caserma, saltellano fra i rovi fino ai campi di calcio, il pallone sotto braccio e ai piedi le scarpe con i tacchetti. Sfidano tutti i divieti e senza intenti rivendicativi mostrano che uso si deve fare dei luoghi.
Tante parti di Bagnoli, esterne all’area industriale, hanno ripreso a vivere non appena l’Italsider ha smesso di affumicarle e si è parlato di riconversione. Di Dato mostra come, accanto al grande progetto fermo al palo, si siano manifestati segnali contrastanti. “Sono cresciuti i valori immobiliari”, aggiunge l’architetto, “con il rischio che siano allontanate le fasce di popolazione più deboli. Nonostante il divieto di balneazione, alcuni stabilimenti hanno privatizzato parti dell’arenile, con piscine e altre strutture. Proliferano gli spazi dove si fa musica, che prima del covid attraevano folle di ragazzi fino a notte”.
Oggi il pontile che si inoltra sul mare per oltre un chilometro è pieno di gente a passeggio. Un tempo era solcato dai binari sui quali scorrevano i vagoni diretti all’acciaieria. Ora è una struggente promenade. Si arriva fino all’estremità e da lì, voltato lo sguardo, l’occhio si spalanca a grandangolo sulle falesie di Posillipo e sulle creste dei Campi Flegrei, che rimandano ai racconti mitologici costruiti sulle fonti virgiliane.
L’ultimo scempio
Se ci fosse il parco, il pontile ne sarebbe il prolungamento nel mare. Ora invece sovrasta la colmata, una piattaforma grande 27 ettari, costruita negli anni sessanta per ampliare l’acciaieria. Fu giudicata l’ultimo violento scempio inferto alla conca di Bagnoli. Il piano di De Lucia prevede che sia rimossa, per ripristinare l’integra linea di costa.
“Ma anche questo, come la bonifica, è l’elemento che garantisce l’inconcludenza di quanto si sta facendo a Bagnoli”, denuncia Carlo Iannello, professore di diritto dell’ambiente e di diritto pubblico alla seconda università di Napoli. Aggiunge Iannello, figlio di Antonio, che fu segretario generale di Italia nostra e che, architetto della soprintendenza, nel 1996 scrisse il vincolo su Bagnoli: “Non solo quello di De Lucia, tutti i piani successivi dicono che la colmata va eliminata. Poi nei fatti si traccheggia. E qualche settimana fa in un incontro pubblico anche il commissario Floro Flores ha detto che potrebbe restare dov’è”.
In questo balletto di sì e no, qual è il problema della colmata, ormai ricoperta da un manto erboso? Sempre lo stesso: i materiali inquinanti che custodisce. “Ma è dal 1999 che si fanno carotaggi nella colmata”, insiste Iannello, “e, stando a quanto sostiene anche Invitalia, solo in pochi campioni prelevati c’è contaminazione. Poi la stessa Invitalia vorrebbe approfondire il perché vi sia una forte concentrazione di arsenico: che invece è una sostanza assolutamente naturale in un cratere vulcanico qual è Bagnoli”.
Invitalia assicura comunque di voler eliminare la colmata. Dal punto di vista tecnico non ci sono ostacoli, conferma il program manager dell’agenzia, Claudio Collinvitti. E dunque? La procedura è aggrovigliata, stando alla sua spiegazione: “I sedimenti sotto la colmata interagiscono con le sostanze inquinanti presenti nei fondali marini e nell’arenile. Dovremo affidare il risanamento complessivo a un unico soggetto. Entro l’estate lanceremo il bando di gara, tenendo conto che non siamo ancora entrati materialmente in possesso della colmata, che è in carico all’autorità portuale di Napoli”.
Invitalia e il commissario snocciolano dati, annunciano che a lavori finiti, nel 2025, verranno ogni anno a Bagnoli dai nove ai dieci milioni di visitatori e che ci sarà lavoro per diecimila persone. È stato bandito un concorso di idee per la Bagnoli del futuro, c’è perfino un vincitore, lo studio d’architettura Bargone, che ha sede a Roma e a Foligno. Il progetto grafico è pieno di colorate attrattive, dominano il verde del parco e l’azzurro del mare. “Mai come in questi due anni si è fatto qualcosa”, ripete a più riprese Floro Flores, “stiamo smaltendo l’amianto dell’Eternit e due milioni di cumuli contaminati lasciati da Bagnolifutura. Abbiamo diviso l’area in sette lotti, ognuno caratterizzato da una sostanza inquinante e non appena saranno terminate le bonifiche, si potrà intervenire con le opere, lotto per lotto”. A disposizione del commissario ci sono 320 milioni di euro, più 70 della regione e 45 del comune. In un incontro pubblico, però, Floro Flores ne ha chiesti altri settecento.
Il nodo della bonifica
Il punto dolente resta la bonifica: come farla, certo, ma anche se farla o se invece sarebbe preferibile adottare altre procedure, meno impattanti, meno lunghe e meno dispendiose. E, soprattutto, che non proseguano un cammino già battuto da quasi tre decenni con i risultati che si son visti.
La bonifica è un pilastro del piano di risanamento ambientale e di rigenerazione urbana (Praru) messo a punto da Invitalia, approvato definitivamente nel 2019. Da allora non sono mancati ricorsi e obiezioni, ma quel testo ha comunque valore di legge. Anche i passaggi successivi sono stati accidentati, come l’iter del piano di bonifica di una zona fondamentale dell’ex area industriale, i 17 ettari in cui sarebbe prevista nuova edificazione, iter inciampato nelle contestazioni dell’Ispra e dell’Arpac. La bonifica prevista è imponente: si scaverebbero in tutta la superficie mediamente due metri di terreno, arrivando in alcuni punti fino a 5,76 metri; i materiali estratti, poco meno di 400mila metri cubi, verrebbero poi trattati e quindi ricollocati o smaltiti.
Stando però ai due istituti, nella sua versione originaria quel programma era lacunoso: mancavano, per esempio, “gli obiettivi di bonifica che si prevede di raggiungere per ciascuno dei trattamenti applicati”. Inoltre s’invitava a intervenire sulla parte superficiale del suolo e ad andare in profondità solo “qualora il rischio di lisciviazione (che contamina gli strati inferiori, ndr) sia validato dai risultati dei monitoraggi”. Invitalia ha preso atto di tutte le osservazioni e le ha trasferite nel nuovo progetto.
Ma sulla necessità di scavare, di trattare e di smaltire quantità enormi di terreno la discussione si è accesa. “In un anno o poco più almeno metà degli oltre trecento ettari dell’area potrebbero essere restituiti alla città”, dice Massimo Fagnano, professore di agronomia ed ecologia agraria all’università Federico II di Napoli. Come? “Rivolgendosi a un buon giardiniere”. Al di là del paradosso, l’ipotesi suggerita da Fagnano è di guardare ad altre esperienze europee, come al parco paesaggistico dell’Emscher, nella regione tedesca della Ruhr, grande 32mila ettari. “Lì la contaminazione era molto più grave che a Bagnoli”, spiega Fagnano, “eppure la trasformazione da area mineraria, siderurgica e chimica in parco è avvenuta in dieci anni, dal 1989 al 1999, prediligendo la procedura della messa in sicurezza, coprendo il suolo con uno strato di terreno e sistemando un manto erboso molto fitto. Questo è il sistema che si adotta in tante parti del mondo. L’importante è evitare il contatto con le sostanze inquinanti, sigillarle e impedire il movimento sia verso l’aria sia verso le acque sotterranee. A Marcianise, in provincia di Caserta, abbiamo steso un tappeto erboso fertilizzato con il compost su tre ettari e mezzo di un terreno pesantemente contaminato dal piombo. E l’esperimento è stato anche premiato dall’Unione europea”.
L’obiettivo di chi predilige una pratica di messa in sicurezza, a sua volta articolata in diversi interventi, è di restituire al più presto Bagnoli ai suoi abitanti e a tutta Napoli, andando avanti per tappe, ma offrendo anche segnali tangibili di una vera rigenerazione urbana. “Sento dire da Invitalia che il parco è soprattutto un costo, calcolato in diversi milioni di euro all’anno”, incalza Fagnano, “ma, a parte la sua primaria funzione sociale, non si considera che in un parco si possono svolgere attività che portano entrate, come quelle sportive. E quanto alla gestione, non è necessario mettere piante che hanno bisogno di innaffiamento costante: ecco perché dicevo che serve soprattutto un buon giardiniere. Il bosco di Capodimonte, per rimanere a Napoli, sta lì da quasi tre secoli eppure nessuno lo ha mai irrigato”.
“Ricordo che tanti anni fa, a Parigi, mentre si costruiva il quartiere della Villette, il cantiere era aperto e chi voleva, in condizioni di sicurezza, poteva vedere di persona come cambiava la città. Ecco così dovrebbe succedere a Bagnoli”: l’auspicio di Vezio De Lucia ha il sapore amaro dei progetti a lungo elaborati e verificati, ma rimasti inattuati.
Sul piano si è molto discusso, lo si è accusato di eccessiva rigidità, di non essere sufficientemente attrattivo per gli investitori privati, a causa del troppo spazio destinato al verde. Di essere insomma la causa della paralisi. Ma alla prova del tempo è stata l’ingarbugliata e opaca storia delle bonifiche a tener ferma la riconversione e a scoraggiare chi volesse investire a Bagnoli. “Fin dagli anni novanta”, prosegue De Lucia, “c’era chi ingigantiva il problema dell’inquinamento del suolo, anche in buona fede e forte della triste memoria dei fumi che per un secolo hanno asfissiato Bagnoli e Napoli. Non si considerava quel che si era realizzato nella Ruhr, a Bilbao, a Manchester. Sono passati tanti anni, non mi occupo più direttamente di Napoli, né ho notizia di operazioni poco chiare, inoltre tutti i piani confermano l’impostazione fissata a suo tempo. Però mi torna sempre in mente una frase che ripeteva un grande economista, Paolo Leon. La rendita sa attendere, diceva. Non vorrei che da qualche parte si coltivino aspettative di tipo speculativo, come quelle emerse negli anni ottanta, ancor prima che l’Italsider chiudesse definitivamente: noi prevedevamo, tra vecchia edificazione riqualificata e nuova edificazione, poco più di due milioni di metri cubi, la precedente amministrazione comunale ne avrebbe voluti quasi quattro milioni. I piani urbanistici possono essere anche bellissimi, ma finché non si attuano sono carta. E nessun piano finché resta carta è irreversibile”.
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 5 luglio 2021