La necessità di controbattere agli investimenti cinesi per la Nuova Via della Seta è stata posta dagli Stati Uniti al centro dell’ultimo summit del G7. Mentre da anni, sulle testate nazionali, si sottolinea il ruolo centrale che l’Italia giocherebbe nei piani di Pechino, come punto d’arrivo in Europa. Ma è davvero così? E più in generale, dopo quasi dieci anni dal suo lancio, cosa sappiamo di questa “Belt and Road Iniative” (BRI) con cui la Cina ufficialmente sembrerebbe voler tracciare un modello di globalizzazione nuovo, che affondi però le proprie radici nel passato dei Polo e dei mercanti di Samarcanda?
Alla costante ubriacatura di notizie e comunicati stampa sul tema, infatti, corrisponde un’incredibile opacità riguardo a cosa ci sia di davvero concreto nell’iniziativa cinese. Quale sia la strategia generale, quali progetti ne facciano effettivamente parte, con quali finanziamenti e con che tempi: sono tutti dettagli che variano a seconda del momento o dell’interlocutore. Pronti ad adattarsi flessibilmente in base alla mano da stringere per siglare un accordo: ma quando si prova a serrarlo, nel pugno rimane assai poco.
Al punto che gli esperti e le diplomazie mondiali si dividono sull’essenza stessa del progetto. È un piano di infrastrutture per una rotta commerciale tra Oriente e Occidente? E se sì, segue allora itinerari definiti? Oppure è un marchio dietro al quale raccogliere tutte le iniziative estere cinesi? E in questo caso si tratterebbe comunque di attività infrastrutturali, oppure anche finanziarie, sociali, politiche? Oppure, come denunciano gli statunitensi, è in realtà una trappola cinese per riempire di debiti i Paesi che aderiscono, finanziando progetti destinati a fallire, per poi farsi cedere sovranità su territori e infrastrutture?
Questa enorme ambiguità sembra avere origine da un lato in un approccio culturale così differente che, sostiene l’analista Moritz Rudolf, per gli occidentali sia impossibile capire cosa sia la Belt and Road Initiative, quanto per i cinesi sia impossibile capire perché gli occidentali non la capiscano.
Dall’altro lato ci sarebbe però anche stata la scelta deliberata, da parte di Pechino, di lasciare libero lo sviluppo di iniziative senza un vero coordinamento centrale. Ciò, in un primo tempo, ha consentito alle aziende cinesi di muoversi indipendentemente e ottenere firme su contratti in mezzo mondo con una velocità che non sarebbe stata possibile nel caso di accordi formali tra Stati.
Più recentemente, tuttavia, questa poca chiarezza ha iniziato a insospettire molti Paesi fino a farli ritirare dalla partecipazione, spingendo il governo cinese da un lato a ridurre massicciamente gli investimenti all’estero, dall’altro a tentare di rendere più comprensibile e misurabile la BRI.
Cerchiamo dunque di partire dalle basi: oggi ci si riferisce a questo piano come “Belt and Road Intiative”, ma qualcuno ricorderà che inizialmente si parlasse di “One Belt One Road” (Una cintura, una strada) che è effettivamente il nome con cui è ancora conosciuta in Cina (一带一路).
Così come presentata nel 2013, la “cintura” farebbe riferimento alla “Via della Seta” terrestre attraverso l’Asia Centrale, mentre la “strada” a quella marittima, attraverso l’Oceano Indiano.
In entrambi i casi, la narrativa centrale dell’iniziativa era proprio la rinascita dell’antica via della seta, ma fin dal principio il progetto mostrò caratteri assai diversi da quest’ultima.
Innanzitutto la via della seta originaria non aveva un proprietario, anzi era inerentemente internazionale. Inoltre, per quanto variata nel corso dei secoli, si trattava di una rotta sommariamente tracciabile su una mappa. Al contrario, nonostante si parli di “una cintura e una strada” la Belt and Road Initiative di strade e cinture ne prevede almeno sei terrestri e due marittime, con tracciati che continuano a moltiplicarsi e al tempo stesso a rimanere indefiniti.
Al punto che, prendendo in considerazione tutti i progetti che si ricollegano alla BRI, si ottiene una fitta rete completamente globale, che oltre all’Eurasia raggiunge anche Africa, Sud America e persino l’Antartico.
In un calcolo aggiornato al 2021, il governo cinese parlava di 140 Paesi partecipanti (ovvero oltre il 70% dei Paesi esistenti), ma in moltissimi casi gli accordi si risolvono semplicemente nella firma di un Memorandum of Understanding ‒ ovvero memorandum d’intesa ‒ e, semplificando, non hanno uno stringente valore legale, non richiedono ratifiche parlamentari e possono essere facilmente modificati o annullati. Così come recentemente dimostrato dall’Australia, che se ne è ritirata senza alcuna penale.
Anche sul fronte economico, le cifre mutano e oscillano, ma sempre viaggiando su dimensioni mai viste prima. Così da essere misurate, di volta in volta, in “piani Marshall”: sette volte il piano Marhsall, si diceva nel 2019, oltre quattordici volte il piano Marshall era invece la stima in una delle ultime versioni ufficiali. Ma in bocca al lupo a chi cerchi davvero dati e tabelle precise su fonti di finanziamento, chilometri di infrastrutture e così via.
Visto l’emergere di questa nuova necessità comunicativa, l’anno scorso il governo cinese ha attivato un sito web che contiene quanto di più simile a un elenco ufficiale dei progetti.
Si tratta in realtà di un altro lavoro incompiuto, ma attuato soprattutto per tentare di porre fine all’abitudine di molte aziende cinesi (e non solo) di fare riferimento alla BRI senza avere con essa alcun collegamento: emblematico il caso del porto di Anaklia, in Georgia, che dal 2016 sosteneva di essere un tassello fondamentale del progetto, senza in realtà avere nessuna partecipazione cinese.
Questa breve panoramica dei problemi che si incontrano nel cercare di definire e comprendere la BRI rende evidente come tale impresa richieda molto di più di queste poche righe. Il viaggio lungo la Belt and Road Initiative, infatti, è destinato a proseguire cercando non solo di tracciarne il percorso, ma anche di individuare i suoi sostenitori e detrattori, i suoi progetti simbolo (nel bene e nel male) e il ruolo specifico dell’Italia in questo grande piano.
Questo articolo è stato pubblicato su Treccani il 22 giugno 2021