Il silenzio e le discriminazioni contro gli indigeni canadesi

di Rupa Subramanya /
11 Giugno 2021 /

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La scoperta dei resti di 215 bambini nei terreni dell’ex scuola residenziale indiana di Kamloops ha suscitato nuovi esami di coscienza in Canada, a proposito della condizione dei popoli indigeni del paese. Gli orrori del sistema delle scuole residenziali, che aveva lo scopo di assimilare gli indigeni e che, secondo il rapporto del 2015 della Commissione per la verità e la riconciliazione, equivaleva a un “genocidio culturale”, sono solo la punta dell’iceberg. I canadesi indigeni, che comprendono i popoli autoctoni delle Prime nazioni, i métis e gli inuit, sono indietro rispetto agli altri canadesi in ogni importante indicatore di benessere economico e sociale, oltre che di sviluppo umano.

I dati del Rapporto annuale del parlamento 2020, e del ministro degli affari indigeni, documentano la sconvolgente portata di questa disparità. Non è esagerato dire che gli indicatori socioeconomici dei canadesi indigeni sono più simili a quelli prevalenti nei paesi in via di sviluppo che a quelli che ci si aspetterebbe in un paese ricco come il Canada. Il reddito medio di tutti i gruppi indigeni, per esempio, è significativamente inferiore a quello dei canadesi non indigeni. Nel 2015, l’ultimo anno per il quale abbiamo dati confrontabili, il canadese medio non indigeno di età compresa tra 25 e 64 anni guadagnava poco meno di 43mila dollari canadesi all’anno (circa 29mila euro). Gli “indiani nelle riserve” (stranamente questo termine dispregiativo è ancora usato legalmente in Canada) ufficialmente registrati guadagnavano poco più di ventimila dollari, meno della metà dei non indigeni.

Allo stesso modo, mentre sono circa il 14 per cento i canadesi non indigeni che vivono in una “situazione di basso reddito” (un eufemismo del governo per indicare la povertà), quasi il 48 per cento degli indiani registrati nelle riserve si trova in questa situazione. Altri gruppi indigeni stanno un po’ meglio, ma restano comunque indietro rispetto ai canadesi non indigeni.

Trudeau ha ripetuto i soliti luoghi comuni sulla necessità di fare di più, dedicandosi a concessioni simboliche e limitandosi ad abbassare a mezz’asta le bandiere

Gli indicatori non di reddito sono altrettanto desolanti. Quasi il 90 per cento dei canadesi non indigeni ha un diploma di scuola superiore, secondo i dati del 2016, ma questo traguardo è raggiunto solo dal 56 per cento degli inuit e dal 57 per cento per gli indiani registrati nelle riserve. L’aspettativa di vita media all’età di un anno, secondo i dati del 2011, è di 87 anni per le donne non indigene e di 81 per gli uomini, ma scende addirittura a settanta per gli uomini inuit e al 76 per le donne. Anche altri gruppi autoctoni sono indietro rispetto ai canadesi non indigeni nell’aspettativa di vita. La lista va avanti, ma il senso è chiaro. Le esperienze e le possibilità di vita per gli indigeni canadesi sono cupe. E rappresentano un fallimento politico di proporzioni enormi per un paese avanzato come il Canada, dotato di uno stato sociale ben sviluppato.

Il 31 maggio, nel suo discorso tenuto dopo la terribile scoperta di Kamloops, ci si poteva forse aspettare che il primo ministro Justin Trudeau affrontasse il sistematico ritardo dei canadesi indigeni in tutti questi indicatori economici e sociali, e che indicasse una strada per affrontarli. Ma siamo rimasti delusi. Trudeau ha ripetuto i soliti luoghi comuni sulla necessità di fare di più, dedicandosi a una politica di concessioni simboliche e limitandosi ad abbassare a mezz’asta le bandiere canadesi in ricordo delle vittime.

Promesse retoriche
In realtà, nonostante la sua retorica progressista, Trudeau è stato determinato quanto il precedente governo di Stephen Harper nello spendere milioni di dollari per combattere battaglie legali contro le rivendicazioni indigene.

Come riportato in un notiziario dell’Aboriginal Peoples Television Network (Rete televisiva dei popoli aborigeni del Canada), il dipartimento della giustizia ha ammesso di aver speso 3,2 milioni di dollari dal 2013 in spese legali contro i sopravvissuti della scuola residenziale indiana St. Anne, dove i bambini indigeni furono sottoposti ad abusi fisici, psicologici e sessuali. All’epoca del governo Harper il dipartimento degli affari indigeni e nazionali ha speso 92,4 milioni di dollari tra il 2012 e il 2015 per combattere battaglie legali contro le rivendicazioni indigene. Con Trudeau il dipartimento ha speso 95,9 milioni di dollari tra il 2015 e il 2018. È chiaro che alla retorica progressista di Trudeau non corrispondono azioni coerenti.

I sopravvissuti di St. Anne stanno ancora lottando con il governo federale perché renda accessibili documenti giudiziari non censurati, che potrebbero aiutarli a combattere le loro sfide processuali in vista di accordi di risarcimento che erano stati negoziati prima che i documenti fossero scoperti. Ma il governo Trudeau ha preso tempo.

Questa politica delle concessioni simboliche è la norma tra le élite progressiste: quante volte avete visto avvertenze con le quali una particolare istituzione o individuo ammette di trovarsi su un territorio “non concesso” dai popoli autoctoni, cioè sottratto? Eppure quanti sarebbero disposti a rinunciare a quel terreno o ai redditi derivanti dalle istituzioni che occupano quella terra?

La realtà è che raddrizzare un’ingiustizia storica come quella affrontata dai popoli indigeni del Canada è un argomento complesso, e non ci sono risposte facili. Ed è altrettanto vero che, se ogni terreno rivendicato fosse effettivamente restituito, il Canada come lo conosciamo cesserebbe di esistere. È il caso di tutti i paesi del mondo in cui i coloni invadono e poi si impadroniscono della terra dei popoli nativi, i quali finiscono per diventare una piccola sottoclasse emarginata.

Gli indigeni canadesi rappresentano solo il 5 per cento della popolazione. La cruda verità è che non hanno un peso elettorale, a differenza di altri gruppi minoritari. Ecco perché Trudeau o chi dovesse sostituirlo può accontentarsi di una politica di concessioni simboliche, sapendo bene che, semplicemente, non esiste la pressione politica necessaria ad affrontare in modo significativo la situazione.

Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 10 giugno 2021

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