Le fonti di energia «pulita» sono indispensabili per evitare il baratro climatico. Ma bisogna individuare le contraddizioni della loro produzione dentro il paradigma dell’accumulazione perpetua
Samadhi Lipari, dottorando della Scuola di geografia dell’università di Leeds, consegnerà a breve la propria ricerca che si concentra sull’analisi delle contraddizioni del produrre energia «pulita» dentro il paradigma dell’accumulazione perpetua, con due casi di studio: l’eolico nell’Appennino Meridionale e il biogas in Germania. Per lui, che è un attivista della Valle del Mela (nel nord-est della Sicilia), ed è parte attiva dei movimenti che hanno fronteggiato due colossi come A2A (che a Milazzo voleva installare un inceneritore) e l’accoppiata Eni+Kuwait (che possiedono la raffineria di Milazzo), il tempo della lotta non è mai finito. E le rinnovabili, in questo senso, rischiano di essere un nuovo fronte. Come ricercatore Samadhi ha già analizzato la cospicua parte del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ben 6,91 miliardi di euro, che punta all’incremento delle energie rinnovabili, così suddivisi: sviluppo agrovoltaico (2,1 miliardi), promozione rinnovabili per le comunità energetiche e l’autoconsumo (2,2 miliardi), promozione impianti innovativi, incluso offshore (680 milioni), sviluppo biometano (1,92 miliardi). Ora però il decreto Semplificazioni, col quale il governo Draghi mira a rendere concreti i progetti di massima presentati nel Pnrr, diventerà a breve realtà.
Le rinnovabili godono di un consenso trasversale, anzi in più casi dal tifo acceso si passa alla cieca e acritica esaltazione, come se da sole potessero risolvere le lacerazioni del capitalismo che ci hanno condotto alla crisi climatica in corso e ai più noti disastri ambientali. Raramente, insomma, le fonti rinnovabili – fotovoltaico ed eolico in primis, ma anche idroelettrico, geotermico e biomasse – sono state problematizzate.
Quali sono gli errori delle fonti fossili che le rinnovabili potrebbero replicare? E davvero le rinnovabili possono essere, da sole, la panacea a ogni male?
Se le paragoniamo alle fonti fossili come dispositivi di estrazione e accumulazione di valore, oltre che di energia, le rinnovabili – nel paradigma dell’accumulazione privata – rischiano di riprodurre gli stessi meccanismi estrattivi e le stesse ingiustizie. Gli ingredienti ci sono tutti: regimi autorizzativi agevolati, sostanziosi sistemi di incentivazione che raccolgono valore tramite la fiscalità e lo canalizzano ai capitali «verdi», marginalità dei territori di estrazione, con in più la legittimazione di mitigare la crisi climatica. Intendiamoci, le fonti rinnovabili sono uno strumento indispensabile per evitare il baratro climatico. Tuttavia, rinnovabile e sostenibile non sono sempre sinonimi. Innanzitutto, il reale impatto di una filiera rinnovabile va calcolato nel complesso: dall’estrazione dei materiali, come il silicio dei pannelli o i metalli per le turbine, fino al loro smaltimento. In secondo luogo, le centrali rinnovabili costruite in aree tutelate o in aree confinanti, come prevede la bozza del Decreto Semplificazioni, possono incrinare equilibri delicati fra ecosistemi e comunità umane assestatisi nei millenni. In sostanza, la sostenibilità è una condizione concreta, non astratta. Va valutata e concertata, non presupposta o imposta. Per la stessa ragione, la sostenibilità non può che essere anche sociale. E ciò è vero tanto più in un paese come il nostro, dove complessità e fragilità ecosistemica si intrecciano con una antropizzazione storicamente stratificata e una grande varietà di paesaggi. Quindi, per tornare alla tua domanda, le rinnovabili nello schema della governance neoliberale, più che panacea possono trasformarsi in cornucopia, per pochi, ovviamente.
Andiamo per ordine. E partiamo da una domanda essenziale: le energie rinnovabili sono anche convenienti dal punto di vista economico per i territori che le dovranno sviluppare?
Nei territori c’è chi guadagna e ha guadagnato molto con le rinnovabili. Ma alle comunità nel complesso rimangono pochi spiccioli. Nei casi che ho studiato in Italia meridionale, la fetta più grossa del valore estratto è accaparrata dai capitali che controllano le centrali, nella stragrande maggioranza esterni ai territori. Ai proprietari delle terre, pubblici o privati che siano, va invece una piccola frazione. I terreni vengono venduti, più spesso affittati, per pochi spiccioli. Prezzi generalmente bassi, dovuti alla marginalità dei territori, sono stati ulteriormente compressi dall’introduzione da parte dell’allora governo Berlusconi dell’esproprio per pubblica utilità, col d.lgs 387/2003. In sostanza, individuata un’area per l’installazione di un impianto di scala industriale, l’investitore può procedere a espropriarla. Ricapitolando, siamo di fronte a un esproprio garantito dalla forza pubblica per consentire un investimento privato. Un caso di land grabbing o accaparramento di terra da manuale, che si aggiunge a quelli documentati in Messico, in Grecia o in Germania, intorno alle transizioni rinnovabili. Tornado all’Italia, lo spauracchio dell’esproprio rintuzza le pretese dei proprietari delle terre riducendo i costi dell’investimento. Va detto che le trattative con i proprietari non vengono gestite direttamente dai grandi i capitali che investono, ma delegate a più prosaici attori locali, i cosiddetti «mediatori». Possiamo pensare a queste figure più o meno professionalizzate come fornitori di servizi. Oltre ai rapporti coi proprietari mediano le relazioni con le amministrazioni locali e le ditte subappaltanti. Sono, per capirci, quelli che nei territori riescono più spesso a «fare i soldi». Alcuni sono anche diventati famosi, loro malgrado. Uno è Vito Nicastri [l’imprenditore di Alcamo che fu accusato nel 2019 di aver finanziato la latitanza del boss Matteo Messina Denaro, nda]. Alle amministrazioni locali non vanno invece che le briciole. Da quando nel 2010 le royalties per le centrali rinnovabili [il corrispettivo monetario sugli utili che le società concessionarie di impianti industriali si impegnano a corrispondere ai territori dove operano, nda] sono state dichiarate definitivamente illegali, ai piccoli Comuni rurali non è stata allocata direttamente che il valore redistribuito tramite il sistema fiscale, ovvero maggioritariamente l’Imu. E anche in questo caso, la direzione è quella della centralizzazione, accelerata dalla riforma sugli «imbullonati» introdotta nel 2015 da Renzi. In base a questa, valgono al calcolo della rendita catastale solamente le opere integrate al suolo, come i plinti in cemento delle turbine, ma vengono escluse le strutture e macchinari installati su di essi, gli «imbullonati» appunto. Come se di una centrale termoelettrica fosse calcolato solo il pavimento. Il tutto si traduce in una riduzione dell’Imu per i gestori dell’impianto e quindi del gettito per i Comuni interessati di circa il 20%.
Cosa ne pensi del paradigma, sempre più diffuso, secondo il quale le rinnovabili potrebbero risollevare territori cosiddetti marginali?
Questo fenomeno può essere definito come «attivazione dello stigma territoriale». In pratica, come sottolinei tu, la marginalità di un territorio viene utilizzata come legittimazione per interventi profondamente trasformativi. Il concetto proviene dalla sociologia urbana, ma recentemente è stato usato per ricerche sull’espansione delle centrali eoliche proprio in Danimarca, la cui transizione è stata un esempio di partecipazione e decentralizzazione, almeno fino a quando la liberalizzazione del mercato elettrico non ne ha fatto anche lì terreno di accumulazione per grandi capitali. Nello stato scandinavo, proprio come nell’Italia meridionale e nella Germania dell’Est, a una narrazione ufficiale basata sull’emergenza climatica se ne è affiancata un’altra, legata all’emergenza di sviluppare aree periferiche o marginali. Se si scava sotto lo sbrilluccichio del marketing, le cose sono però diverse. Si scopre che nei territori “ventre molle” degli opulenti capitalismi europei, nelle pieghe del loro sviluppo diseguale, le aree marginali offrono prezzi più bassi della terra, minore resistenza e più condizionabilità delle comunità e istituzioni locali, proprio in ragione del loro maggiore disoccupazione e spopolamento in primis. In cambio di cosa? Be’ se guardiamo all’eolico e al fotovoltaico le ricadute in termini di lavoro sul territorio sono scarse e limitate alla fase dell’installazione, mentre il valore che viene allocato agli enti locali dipende per lo più dalla fiscalità generale, che abbiamo visto essere nel caso italiano estremamente contenuto.
Qualcuno dovrà pur pagare la crisi climatica, si dirà.
Ti dirò di più: bisogna socializzare il più possibile costi e perdite e privatizzare i profitti. Se pensiamo che gli incentivi per le rinnovabili vengono finanziati con il prelievo in bolletta elettrica, da cui sono esentate le aziende che emettono di più, per proteggerne, si dice, la competitività internazionale, non possiamo fare a meno di pensare che la cosiddetta governance neoliberale delle rinnovabili si riduca a questo. Ossia a distribuire i costi sulla massa fiscale e sacrificare comunità e territori marginali. Il rischio così è di minare la base di consenso di cui le transizioni rinnovabili hanno bisogno e alimentare quello che viene definito «populismo energetico».
Vale a dire?
Se si sovrappone l’investimento privato con la transizione ecologica, e lo si presenta come nesso inscindibile, il rischio è che tutto lo scontento verso le ingiustizie che il capitalismo immancabilmente genera, anche quello «verde», scivoli verso le rinnovabili. Dobbiamo evitare che la giusta resistenza a meccanismi verticistici e di soppressione della democrazia sostanziale si trasformi in opposizione alle rinnovabili tout court. Gli esempi purtroppo già ci sono e raccontano di una Francia dove il Front National strizza l’occhio ai comitati critici verso le centrali eoliche o anche di una Italia dove associazioni «ambientaliste» nazionali finanziate da grandi aziende del fossile fingono di affiancare i comitati locali, cercando in realtà di veicolare messaggi pro-fossili. Su questo, molta strada va fatta anche a sinistra, dove le rinnovabili vengono troppo spesso assunte acriticamente. Molti attivisti e intellettuali dimenticano di vivere nel capitalismo, sotto cui tutto finisce per diventare merce e strumento di speculazione… Sarà arrivato il momento di reclamare la proprietà pubblica delle rinnovabili, che non coincide necessariamente con statale?
La tesi di fondo di questo governo, propugnata in primis dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, è che bisogna agevolare gli investimenti privati sulle rinnovabili, rendendo più facile il percorso che porta all’installazione di nuovi impianti:le aste pubbliche andrebbero deserte perché gli imprenditori non vogliono più rischiare anni di attesa, ricorsi al Tar con conseguenti sospensioni dei lavori. Cingolaniripete spesso lo stesso esempio: «in Spagna la domanda relativa agli impianti eolici è stata tre volte superiore all’offerta, mentre in Italia è stata aggiudicata meno di un quarto della capacità messa a gara». Tutta colpa della burocrazia, per sintetizzare. Non è una tesi, anche questa, già vista mille volte?
Una tesi vista mille volte e smentita altrettante, mi viene da dire. La narrazione ufficiale, senza molte differenze tra questo e i governi precedenti, è che la burocrazia sia farraginosa e che vi sia troppo spazio per amministrazioni e comitati locali per bloccare tutto. «Sblocca Italia», «Sblocca cantieri» ecc., dove sblocca significa il puro e semplice allentamento delle tutele, sotto tutti i profili e come previsto anche dal dl Semplificazioni. Eppure la storia che emerge da molte ricerche, compresa la mia, descrive un quadro diverso, fatto di incapacità e insufficienza amministrativa, cattiva modulazione degli incentivi, speculazione, corruzione, evasione e infiltrazioni mafiose. In questo contesto pensare ad allentare tutele e controlli appare quantomeno sinistro.
Eppure sull’agrovoltaico si registra una strana sinergia. Tutti lo vogliono, verrebbe da dire: da Enel, che ha avviato le prime sperimentazioni, a Enea fino ai recenti appelli di Legambiente per «sbloccare il settore». È vero che si fa riferimento soprattutto alle aree abbandonate ma resta sullo sfondo una questione invece dirimente: cosa vogliamo farne di terre destinate per secoli all’agricoltura? «Soltanto» produzione di energia? E che ne sarà di chi per secoli ha coltivato la terra e non saprà, o vorrà, adeguarsi alla nuova tendenza?
Sembra profilarsi all’orizzonte un fenomeno che ho potuto osservare con la produzione di biogas in Germania, con gli agricoltori che da coltivatori di cibo verranno invitati a trasformarsi in coltivatori di energia e la produzione rinnovabile che diventerà un capitolo importante nei bilanci delle aziende agricole. Di per sé non è un fenomeno dannoso, a patto che gli agricoltori non vengano ingabbiati in schemi finanziari troppo dipendenti dalla volatilità dei mercati. In questo caso, come già successo con il fotovoltaico in Grecia, in caso di shock esterni o taglio agli incentivi, gli agricoltori potrebbero trovarsifortemente indebitati e costretti alla bancarotta. Ciò potrebbe avere delle ripercussioni importanti sulla filiera alimentare. Inoltre, come ulteriore elemento di complessità, va aggiunto che bisognerà valutare anche gli utilizzi della Politica Agricola Comune, che da sola impegna il 39% del bilancio dell’Unione Europea. La Pac è storicamente contestata per la sua tendenza afavorire la concentrazione fondiaria allocando più sussidi alle grandi aziende. Una combinazione di sussidi agricoli e sussidi per l’agrovoltaico, potrebbe favorire schemi speculativi e far lievitare i prezzi fondiari, favorendo ulteriormente la concentrazione adiscapito dei piccoli agricoltori.
Insomma: sulle rinnovabili, e più in generale in materia energetica, si registra ancora un’ingenua delega allo Stato, in cui basta creare un ministero ad hoc sul tema e tutto andrà come deve andare. Tu cosa ne pensi?
Le differenze vanno marcate, senza dubbio. Nella mia ricerca ho potuto appurare che il no alle rinnovabili viene spinto spesso dalle aziende fossili o viene associato a forme di nazionalismo, come in alcuni casi in Germania. Il rischio appunto è che le rinnovabili diventino insostenibili dal punto di vista sociale. In questo momento gli strumenti a disposizione dei territori sono pochissimi. È facile prevedere che si andrà incontro, se tutto rimane così com’è, a resistenze e ricorsi contro i nuovi impianti. Col risultato che, prevedibilmente, si risponderà con un’ulteriore centralizzazione e una pericolosa delegittimazione delle rinnovabili, a fronte di un cambiamento climatico che viene percepito ma non viene compreso perché non viene spiegato abbastanza dalle fonti ufficiali. Basta fare un giro per la Sicilia o per la Sardegna: i territori sono già pieni di impianti eolici e fotovoltaici, che però si sono rivelati spesso di origine mafiosa. Agli occhi delle comunità territoriali, troppo spesso rinnovabile diviene sinonimo di sopraffazione e speculazione mafiosa.
Mi viene in mente una storia che conosco bene, essendo originario di Gela. Si tratta del «caso Ciliegino»: tra Gela e Licata avrebbe dovuto sorgere il più grande parco agrovoltaico d’Europa, chiamato Ciliegino perché prevedeva la coltivazione in serra del pomodoro locale e raccontato come l’alternativa green alla raffineria di Eni; invece a distanza di otto anni dall’inaugurazione in pompa magna (con tanto di ostriche) di quel fantasmagorico progettosono rimasti solo gli espropri ai piccoli proprietari terrieri. Parlare ora di rinnovabili a quelle latitudini significa rischiare il linciaggio. Episodi isolati o che rischiano di ripetersi?
La vicenda che racconti è emblematica, perché davvero non possiamo permetterci di avere persone contrarie alle energie rinnovabili. Per evitare ciò serve un lungo lavoro di programmazione, di contatto col territorio. Servono meccanismi di partecipazione, che coinvolgano le comunità dalla programmazione fino alla gestione, anche attraverso formule cooperative o l’azionariato popolare. Non si può pensare di destinare milioni di euro di soldi pubblici, pagati con le diseguaglianze di cui abbiamo discusso in precedenza, in territori che poi di questa trasformazione si devono beccare la parte peggiore. Siamo di fronte a un processo che, al netto delle differenze tra petrolio (certamente dagli effetti incomparabilmente più distruttivi) e rinnovabili, ricorda la scelta di industrializzare il Mezzogiorno con il modello dei grandi poli concentrati geograficamente.
E, per rimanere all’esempio, Gela potrebbe sì passare dal petrolio alle rinnovabili – si comincia ad esempio a parlare di idrogeno verde anche lì – ma sempre sotto l’egida dello sfruttamento. E si dirà: almeno petrolio e gas portavano le royalties, le rinnovabili manco quelle.
Verissimo. Ma c’è anche la Basilicata, dove trivelle e pale eoliche si fondono spesso in maniera indistinguibile, tanto per fare un altro esempio. E a ciò si può aggiungere la questione dei rifiuti, col biometano che è diventato una nuova risorsa da valorizzare. I territori marginali vengono sempre più intesi come bacini di servizi ecosistemici o stock di risorse, dall’energia verde alla capacità di assorbire rifiuti prodotti nei centri urbani.
In questo senso ti riporto un altro esempio: a un recente DataRoom la giornalista Milena Gabanelli, per criticare il processo di metanizzazione della Sardegna, usava ancora una volta il mantra delle risorse naturali di cui è ricca l’Isola. Ti sembra una contrapposizione valida?
A me sembra che con le rinnovabili si stia riproponendo il mito dello sviluppo del Mezzogiorno attraverso l’industrializzazione col modello dei grandi poli, un fenomeno a cui abbiamo assistito nel secondo Dopoguerra. L’energia primaria del sud in quel caso serviva ad alimentare l’industria manifatturiera del nord. Ora, invece, le risorse naturali del Sud sono fondamentali per fronteggiare la crisi climatica e realizzare gli obiettivi di politica energetica nazionale. Con tutto ciò che ne consegue. Ma, per riprendere una nota lezione marxista, non c’è libertà se non c’è libertà dal bisogno. Tra la semplificazione della Via (la valutazione di impatto ambientale), l’accentramento delle scelte e la mancata redistribuzione dei guadagni, la transizione ecologica così come è stata finora tracciata diventa un nuovo atto di territorializzazione interna, per cui a un’area del paese viene assegnato un preciso ruolo nella divisione del lavoro a livello nazionale o europeo e reso operativo attraverso i meccanismi coercitivi dell’ordinamento, senza che la sua arretratezza venga risolta e anzi rendendola funzionale all’accumulazione stessa. Un riferimento è ancora all’accaparramento delle terre cui accennavamo prima, favorito dall’esproprio per pubblica utilità. Ma ci sono anche forme di sfruttamento che sono ancora più subdole.
Che intendi dire?
Dei terreni dove vengono installate le centrali rinnovabili, viene molto spesso affittato il diritto di superficie, evitando di acquistarli. Perché in questo modo gli obblighi di ripristino dopo la dismissione dell’impianto rimangono in capo al proprietario ignaro. Soprattutto le grandi aziende sono consapevoli di questo meccanismo. Tanto da lasciare ai piccoli proprietari anche le eventuali e future magagne.
Di fronte a tutto questo, come stiamo agendo? Ti sembra che almeno nel dibattito pubblico si stiano affrontando questi aspetti?Macché. C’è un’incredibile discrasia tra astrazione e realtà del vissuto nel discorso dominante sull’ambiente. La crisi climatica e le azioni da intraprendere per mitigarla vengono raccontate e intelaiate, per usare una categoria filosofica, su un universalismo che è astratto, rendendola funzionale all’accumulazione perpetua. Si prende un fenomeno universale, la crisi climatica, e lo si astrae a mero problema tecnico e orizzonte di accumulazione. Un esempio è il concetto di Antropocene, che ultimamente ha travalicato i muri dell’accademia e va molto di moda. La colpa della crisi climatica sarebbe dell’anthropos, di tutti gli umani in astratto. E invece studiosi come Jason Moore o Donna Haraway hanno chiarito che la responsabilità per la distruzione del clima, e per le crisi ecologiche in generale, sono distribuite in maniera diversa tra le classi, con il grande capitale, impersonato dal maschio bianco e occidentale per buona parte della sua storia, in posizione prominente. Perciò suggeriscono di usare piuttosto il termine capitalocene. D’altronde,se è colpa di tutti gli esseri umani in generale, allora perché i profitti accumulati non sono di proprietà di tutti? Ma questa è un’altra storia…
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin Italia il 29 maggio 2021