Semplificare i Balcani

di Giacomo Natali /
25 Maggio 2021 /

Condividi su

Spartire la Bosnia tra Serbia e Croazia, dare il Kosovo all’Albania, ridisegnare i confini dell’ex Iugoslavia su base etnica e così traghettare i Balcani verso la pace e l’ingresso nell’Unione Europea (UE): questo in sintesi il piano riservato e controverso che la Slovenia avrebbe presentato a Bruxelles, in vista del semestre di presidenza europea di Lubiana, che prenderà il via a luglio 2021. Ma cosa c’è di vero? E cosa significa per la regione e per altre zone con conflitti e rivendicazioni territoriali irrisolti?

Una smentita poco credibile

Nell’affrontare questo caso non si può che partire dalla sua successiva smentita. La presunta consegna del piano, infatti, era stata resa pubblica da un portale di giornalismo investigativo sloveno a metà aprile. Ma, nelle settimane successive, le reazioni furibonde delle cancellerie europee hanno portato il primo ministro Janez Janša a sconfessarlo completamente. Mentre gli uffici del presidente del Consiglio europeoCharles Michel, dopo averne apparentemente confermato in un primo tempo la ricezione, si sono infine assestati su un prudente no comment.

La vicenda non può essere ignorata, tuttavia, per due ragioni. La prima è che negli ambienti diplomatici il fatto che tale documento informale sia stato fatto pervenire a Michel nello scorso febbraio è dato sostanzialmente per certo, così come la sua attribuzione al governo sloveno. La seconda è che ci sono diversi precedenti in questo senso da parte delle istituzioni slovene, che fanno pensare che vi sia dietro qualcosa di più strategico di una semplice ipotesi di studio.

I contenuti del piano e i suoi proponenti

Il cuore della proposta riportata dalla stampa slovena è la ridefinizione dei confini dei Balcani occidentali per creare una Grande Serbia (che assorbirebbe l’attuale Republika Srpska dalla Bosnia), una Grande Albania (derivante dall’annessione di Kosovo e di parti della Macedonia del Nord) e una Grande Croazia (con l’aggiunta dei cantoni bosniaci a maggioranza croata).

Secondo i proponenti, questa apparente semplificazione dei confini, su base essenzialmente religiosa, consentirebbe di risolvere alla radice i problemi di convivenza tra le varie etnie, portando alla stabilizzazione della regione necessaria per “andare oltre” (così può essere tradotto il titolo in inglese della proposta): ovvero essenzialmente verso l’adesione di questi Paesi all’UE e alla NATO.

Il primo ministro sloveno, Janez Janša, non è nuovo alle controversie. Nato politicamente comunista, si è gradualmente spostato sempre più a destra fino all’attuale collocazione tra i leader populisti occidentali: emblematiche in tal senso le sue dichiarazioni a sostegno di Trump come vittima di un complotto e reale vincitore delle ultime presidenziali americane. E proprio Trump fu l’unico a mostrarsi possibilista su un simile scambio territoriale ipotizzato nel 2018 tra Serbia e Kosovo.

Nello scorso marzo, tuttavia, anche il presidente della Repubblica sloveno, l’ex socialdemocratico e attualmente centrista Borut Pahor, durante un incontro a Sarajevo con i membri della presidenza della Repubblica bosniaca (che rappresentano le tre comunità: bosniaca, croata e serba) avrebbe chiesto loro se avrebbero sostenuto una spartizione della Bosnia ed Erzegovina tra i Paesi confinanti. Un’ipotesi peraltro già contenuta tra le raccomandazioni di una commissione costituita dallo stesso Pahor nel 2010.

Al di là degli istrionismi personali, dunque, questi episodi fanno pensare che tali posizioni rientrino piuttosto in una strategia geopolitica condivisa e consolidata nelle istituzioni slovene (e forse non solo).

Le reazioni regionali e internazionali

Durante il famigerato incontro a Sarajevo, il presidente sloveno avrebbe riportato ai rappresentanti bosniaci il fatto che le potenze globali e regionali fossero interessate a occuparsi dell’integrazione balcanica, ma soltanto dopo che ne fosse stata completata la disintegrazione.

In quell’occasione, il rappresentante bosniaco e quello croato si dissero assolutamente contrari all’ipotesi. A differenza di quello della comunità serba, più che interessato a un passaggio della Republika Srpska sotto Belgrado.

Partendo da questa osservazione, c’è chi ipotizza addirittura un possibile coinvolgimento del governo serbo nella stesura del piano. Sospetto rafforzato dal fatto che questo non prendesse in nessun modo in considerazione la cessione del Sangiaccato, zona a maggioranza bosgnacca a cavallo tra Serbia e Montenegro.

Analogamente anche la Croazia, che ufficialmente si è unita alle dure critiche contro la proposta slovena, è ritenuta da alcuni osservatori non del tutto disinteressata. E in questa luce potrebbero anche essere viste le continue critiche contro le istituzioni centrali bosniache cui da qualche tempo si dedicano i rappresentanti della locale comunità croata.

Questo documento senza padri, potrebbe dunque averne molti più di quanto non appaia?

Di certo i principali soggetti internazionali, in prima linea Stati Uniti e Germania, hanno sonoramente stroncato ogni ipotesi di messa in discussione degli accordi di pace stabiliti nel 1995 e in generale della ridefinizione dei confini internazionali.

Mentre sorprende, da questo punto di vista, che non risultino reazioni ufficiali altrettanto nette da parte dell’Italia, considerata la vicinanza geografica e il fatto che l’allargamento dell’Unione Europea nei Balcani dovrebbe teoricamente essere una questione geopolitica primaria per il Belpaese. Il quale al momento ha un proprio fianco che confina sostanzialmente con questo grande vuoto nella mappa comunitaria.

I rischi per i Balcani e tutti gli altri conflitti dormienti

Le ragioni di chi si oppone a questi progetti sono da un lato di carattere specifico al contesto balcanico e dall’altro di principio nella gestione delle relazioni internazionali.

Sul piano locale, questi tentativi di semplificazione dei confini finiscono sempre per ignorare la superiore e inerente complessità balcanica. Un esempio già citato è quello plateale del Sangiaccato, che resterebbe a minare questi tentativi di omogeneizzazione. Ma sono decine le altre situazioni potenzialmente esplosive. Con il rischio, qualora fosse sdoganata la possibilità di spostare i confini territoriali, che gli attuali nuclei di tensione si trasformino in conflitti conclamati.

Il rischio di creare un precedente a livello internazionale è l’altro aspetto che preoccupa le diplomazie globali. Il principio di integrità territoriale è stato stabilito dall’art. 2 della Carta ONU per evitare il proliferare di guerre che avessero come obiettivo lo spostamento delle frontiere. Guerre che spesso in passato sono state motivate proprio con la volontà di annettere territori su base etnica.

Questo principio di inviolabilità delle frontiere è stato recentemente messo in seria discussione dalle conquiste territoriali dell’Azerbaigian in Nagorno-Karabakh. Ma già da anni la Russia ha tentato a livello internazionale di giustificare su base etnica i propri interventi in Ucraina (Crimea e Donbass), Georgia (Ossezia e Abkhazia) e Moldavia (Transnistria). Così come altre minoranze russe sarebbero potenzialmente presenti in Estonia e Lettonia. Una proposta come quella slovena avrebbe da questo punto di vista un effetto dirompente sul piano delle rivendicazioni territoriali, oltre a costituire un rischioso esperimento politico in un’area geografica dove è convinzione condivisa che sia meglio non tentare azzardi.

Per questa volta il rischio sembra essere stato evitato, ma sarebbe un errore considerarlo definitivamente archiviato. È evidente, infatti, che la fine delle guerre iugoslave non abbia mai portato a una vera pace ed è perciò comprensibile la volontà dei soggetti più vicini a quest’area di giungere a un superamento dell’attuale stallo. E se secondo l’Unione Europea la formula per ottenerlo non starebbe nella ricerca di una fantomatica omogeneità etnica, ma in riforme democratiche che garantiscano i diritti delle minoranze e delle diverse comunità, è anche vero che queste formule virtuose vengono ripetute vanamente da oltre vent’anni.

Più che le divisioni settarie, infatti, a causare l’instabilità della regione sarebbero piuttosto la poca trasparenza dei processi decisionali, la corruzione endemica e altri elementi di debolezza dei sistemi politici e sociali. Ed è chiaro come, davanti a ostacoli di questo tipo, possa sembrare molto più facile sognare di risolvere tutto con un colpo di matita sulla mappa, anche se la Storia (e purtroppo anche la cronaca) dovrebbero insegnare altrimenti.

Questo articolo è stato pubblicato su Treccani il 20 maggio 2021

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati