Raramente mi è capitato di vedere un’idea tanto buona essere stroncata così nettamente.
Era il 12 febbraio, un paio di settimane prima che la pandemia da coronavirus raggiungesse i Paesi Bassi, e il politico dei Democratici D66 Maarten Groothuizen presentava alla camera la sua proposta: “Gestire la migrazione dei lavoratori”. Sottotitolo: “Per una migrazione dei lavoratori sicura, organizzata e temporanea”.
La proposta non era particolarmente allettante: i Democratici chiedono di guardare più seriamente alle possibilità che la migrazione per motivi di lavoro può offrire al paese. Questo istituendo una commissione che stabilisca quali siano i mestieri di cui c’è carenza e partecipando a progetti pilota europei nell’ambito dei quali venga rilasciato un visto di lavoro a un ristretto numero di lavoratori stranieri che si candidano per questi posti. Niente di clamoroso. Ma la camera non si è mostrata d’accordo.
Ecco un piccolo esempio delle invettive che sono piovute su Groothuizen sia da destra sia da sinistra: “Poco trasparente e miope” (Partito del lavoro), “Folle e pericolosissimo” (Partito per la libertà), “Manodopera a basso prezzo dall’Africa” (Partito socialista), “Ingenuo e fuori dalla realtà” (Partito popolare per la libertà e la democrazia). Viene da chiedersi se gli altri rappresentanti della camera abbiano letto la proposta dei D66, vista la facilità con la quale è stata gettata tra la carta straccia. Neanche i GroenLinks (Sinistra verde) si sono mostrati interessati, perché “è necessario pensare prima di tutto ai profughi”. Un po’ come i cavoli a merenda, insomma.
La chiave giusta
La creazione di nuovi canali d’immigrazione legale è uno dei pilastri della politica del governo olandese sull’immigrazione. Ma le reazioni alla proposta dei D66, e i risultati ottenuti finora dall’esecutivo, mostrano che si tratta più di un fregio decorativo che di una colonna portante.
Eppure l’immigrazione organizzata e temporanea di lavoratori da paesi a basso reddito sarebbe la soluzione a moltissimi problemi. Ogni porta sbarrata del dibattito sulla migrazione può essere aperta con questa chiave. E sia la destra sia la sinistra potrebbero rivenderla bene ai propri elettori, perché offre vantaggi a livello umanitario ed economico. Può salvare le società europee dall’invecchiamento e rendere il sistema di asilo più accessibile per i profughi. Converrebbe ai paesi europei e a quelli di provenienza dei migranti.
Ma fermi tutti: qualcuno ha detto “più immigrati”? Questa combinazione di parole sembra essere l’unico motivo per cui nei Paesi Bassi non può esistere un normale dibattito sull’immigrazione temporanea per motivi di lavoro.
Le cose però devono cambiare. Mi occupo d’immigrazione da anni e ho cercato insieme a esperti di tutto il mondo idee costruttive per una politica dell’immigrazione migliore (vale a dire: più umana, più onesta, più intelligente, più utile dal punto di vista economico). E ogni volta arrivo allo stesso risultato: la chiave è consentire una maggiore migrazione temporanea per motivi di lavoro. E non sono l’unica a pensarlo: centri studi, commissioni d’inchiesta e studiosi si dichiarano a favore di questa soluzione ormai da anni.
Ora che stiamo entrando in una gigantesca recessione, dobbiamo prendere sul serio questa ipotesi.
Posti vacanti
Proviamo a elencare i vantaggi. A cominciare da quello più evidente: stiamo diventando troppo vecchi. Di conseguenza l’economia olandese e quella europea avranno presto un gran bisogno di lavoratori extraeuropei. Bastano le cifre per far venire i capelli bianchi. La Commissione europea stima che tra il 2015 e il 2035 la popolazione europea di lavoratori diminuirà di 18 milioni di unità, più del 7 per cento. Nel 2012 nei Paesi Bassi c’erano ancora quattro potenziali lavoratori per ogni persona sopra i 65 anni, nel 2040 ne rimarranno solo due.
Nei paesi dell’Unione europea ci sono milioni di posti di lavoro vacanti, soprattutto nel settore tecnologico, nell’assistenza, nell’edilizia e in mansioni meno qualificate come quelle di commessi, addetti alle pulizie e autisti. Quasi un quarto dei datori di lavoro olandesi lamenta la carenza di personale adeguato. E per risolvere questa carenza l’immigrazione dagli altri paesi europei, come la Polonia e la Bulgaria, non è sufficiente.
La recessione causata dalla pandemia di covid-19 cambia poco: invecchiamo lo stesso e i nuovi disoccupati non si ritrovano all’improvviso con un diploma da elettricista, infermiere o sviluppatore di software in mano. E riqualificarsi in un altro settore non è una cosa che tutti vogliono fare e che tutti possono permettersi.
Un recente studio del ministero degli esteri olandese ha rilevato che negli stessi ambiti lavorativi in cui i Paesi Bassi hanno carenza di personale qualificato, in paesi come la Nigeria, la Giordania e la Tunisia le persone sono invece disoccupate o fortemente sottopagate.
I nigeriani continuano a fare richiesta di asilo, per il semplice motivo che non hanno altra scelta
Eppure è praticamente impossibile che ottengano un visto di lavoro per i Paesi Bassi, che invece hanno delle norme per favorire l’arrivo dei cosiddetti “migranti altamente qualificati”, vale a dire gli espatriati che guadagnano più di 4.612 euro lordi al mese. Qualcosa di simile esiste anche a livello europeo (la Blue card, un permesso di lavoro che può ottenere solo chi guadagna almeno il 50 per cento in più rispetto al salario medio nel paese di destinazione).
Ma l’offerta e la domanda riguardano soprattutto i lavori pagati un po’ meno. Tecnici, infermieri, personale di vendita. È per questi lavoratori che dobbiamo creare visti.
Ci sono anche altri vantaggi, che non riguardano l’economia ma la lotta al traffico di esseri umani e la prevenzione dei naufragi nel Mediterraneo.
Il sistema europeo di asilo è sovraccarico. In Europa quasi mezzo milione di richiedenti asilo attendono che la loro domanda venga esaminata. Tutto questo costa un sacco di soldi (i richiedenti asilo devono essere alloggiati e sfamati) e fa perdere ai profughi anni preziosi (non possono né lavorare né studiare).
Uno dei più grandi problemi del sistema di asilo è che molti dei richiedenti non ne hanno diritto. Sono i cosiddetti “migranti economici”: persone che fuggono dalla mancanza di prospettive, non dalla guerra. Il sistema di asilo non è pensato per loro. Dei 40mila nigeriani che hanno presentato richiesta di asilo nel 2017, il 91 per cento è stato rifiutato. Praticamente non hanno possibilità. Ma i nigeriani continuano a fare richiesta di asilo, per il semplice motivo che non hanno altra scelta. Non esistono visti di lavoro che possono richiedere. Così rischiano la vita in una traversata pericolosa e tentano la fortuna, finendo per sovraccaricare il sistema. E i nigeriani non sono certo gli unici: da anni ormai più della metà delle richieste di asilo in Europa viene respinta.
Un esempio che un’alternativa è possibile è la regolamentazione della Germania per i Balcani occidentali. Nel 2015 il sistema tedesco ha ricevuto decine di migliaia di richieste di asilo da cittadini dei Balcani occidentali che non avevano nessuna possibilità di ottenerlo. L’anno successivo la Germania ha messo a disposizione 20mila nuovi visti di lavoro per questi paesi. Le richieste d’asilo sono calate di quasi il 90 per cento: da 120mila nel 2015 a 11mila nel 2017.
Il calo non è dovuto solo ai visti. Nello stesso periodo la Germania ha accelerato la procedura di richiesta d’asilo per i paesi della regione e intensificato i controlli ai confini. Ma tutti concordano sul fatto che i visti hanno fatto la loro parte.
Una correlazione tra le possibilità di arrivare in Europa legalmente e i tentativi di entrarci in modo illegale emerge anche dalle cifre sulla migrazione attraverso il Mediterraneo. Quando il numero di visti destinati ai paesi dell’Africa occidentale cala, aumenta il numero di migranti che tentano la traversata.
Nel 2018 la commissione olandese sull’immigrazione ha affermato che più visti per motivi di lavoro e di studio sembrano essere il “modo migliore per limitare l’immigrazione irregolare”. Vale a dire: per ridurre il numero di morti nel Mediterraneo e ostacolare i trafficanti di esseri umani.
Un’altra possibilità
Forse starete pensando: tutto molto bello, ma chi garantisce che questa gente un giorno tornerà a casa? Prendete i marocchini e i turchi che sono venuti a lavorare nei Paesi Bassi negli anni sessanta e settanta. Più della metà di loro è rimasta.
È vero, ma c’è una considerazione interessante. Del primo gruppo di cosiddetti lavoratori ospiti arrivati negli anni sessanta, la maggior parte è ripartita. Solo negli anni settanta, quando i Paesi Bassi hanno fermato il reclutamento di lavoratori stranieri, gli immigrati hanno smesso di tornare in patria, perché sapevano che non avrebbero avuto un’altra occasione per venire. In altre parole, migrare era diventato una partita di poker in cui ci si poteva giocare solo il tutto per tutto: rimanere o andarsene per sempre.
Proprio come succede ora a chi si vede respingere la domanda di asilo. Molti non vogliono farsi espellere e scompaiono nell’illegalità perché sanno che ripartire significa non avere altre occasioni di tornare in Europa. Chi è riuscito a entrare nella fortezza Europa ci resta. Il viaggio è stato troppo costoso e troppo pericoloso per tornare indietro. Ma questo cambierebbe se, come per i marocchini negli anni sessanta, ci fosse la possibilità di entrare di nuovo con un visto di lavoro.
Ci sono diverse soluzioni per incentivare il ritorno nei paesi d’origine: offrire bonus per il rimpatrio, istituire un sistema obbligatorio di risparmio in base al quale una parte delle entrate del lavoratore viene erogata solo alla partenza, premiare i lavoratori che sono tornati in patria dandogli la precedenza per ottenere un nuovo visto o sanzionare i paesi dei cittadini che non rientrano concedendogli meno visti.
Offrire più visti di lavoro renderebbe inoltre maggiormente semplice rimpatriare chi si è visto rifiutare la richiesta di asilo. Attualmente il problema più grande è la scarsa collaborazione dei paesi di provenienza. È un gioco politico: da anni l’Unione europea cerca di concludere con paesi come la Nigeria o l’Etiopia accordi per favorire i rimpatri. Provate a indovinare cosa vogliono questi paesi in cambio? Esatto: più canali d’immigrazione legale.
Un rimedio per la paura
Non ho ancora citato il vantaggio maggiore dell’immigrazione legale: è molto conveniente per i paesi di provenienza. Già oggi i migranti mandano a casa 529 miliardi di euro all’anno. Per l’economia dei paesi in via di sviluppo sono cifre importanti: in Gambia o in Liberia le rimesse corrispondono a più del 20 per cento del pil. Se vogliamo eliminare la povertà e la disuguaglianza, gli aiuti allo sviluppo sono solo una goccia nel mare rispetto ai visti di lavoro temporanei.
Nel suo libro La globalizzazione intelligente (Laterza 2015) l’economista Dani Rodrik ha scritto che se i leader mondiali volessero davvero combattere la disuguaglianza, dovrebbero concentrarsi su un solo obiettivo: riformare le norme che limitano la mobilità internazionale dei lavoratori. Nessun’altra misura avrebbe un effetto paragonabile.
Qualcuno dice che più visti di lavoro causerebbero una fuga di cervelli dai paesi poveri: le persone più capaci verrebbero tutte a lavorare in Europa invece di restare nei loro paesi, dove ce n’è tanto bisogno. Ma gli studi mostrano che questo non sarebbe un problema, perché i numeri non sono così alti. Inoltre bisogna considerare che le rimesse dei migranti possono finanziare la creazione di piccole aziende e l’istruzione dei familiari.
Se i vantaggi sono tanti, perché nessun politico sostiene questa soluzione? Dipende dal fatto che controllo e limitazione dell’immigrazione sono equiparati. “Il fattore principale nell’infuocato dibattito sulla migrazione”, scrive l’esperta Katharina Natter, “è la sensazione di perdere il controllo”. La gente ha l’impressione di essere invasa dagli immigrati, che il proprio “stile di vita” subisca la pressione di nuove culture, di non essere più padrona del proprio paese. Sono questi i sentimenti che i partiti populisti di destra cercano di sfruttare proponendo di limitare l’immigrazione. Gli altri partiti credono di essere costretti ad accodarsi per non perdere voti. Controllo dei confini, collaborazione con la guardia costiera libica o con il governo turco: sono questi i metodi usati oggi per riprendere il controllo. Ma c’è un altro modo per rispondere a queste paure: più visti di lavoro temporanei. Attraverso l’apertura di più rotte legali per i migranti possiamo controllare l’immigrazione: decidere chi può entrare e chi no, rendere le cifre prevedibili e scegliere migranti che offrano un contributo alla nostra economia. E questo può aumentare il sostegno dei cittadini all’immigrazione.
Lavorare integra
L’aggettivo “temporaneo” è cruciale: non stiamo parlando di profughi che non potranno tornare nel loro paese per decenni a causa della guerra, ma di persone che avranno un contratto di qualche anno. Non ho mai sentito una discussione sull’integrazione dei ricchi espatriati. E i migranti economici sono proprio questo: espatriati, ma senza stipendi astronomici. Tutti gli studi confermano che il requisito numero uno per un’integrazione riuscita è avere un lavoro. E i lavoratori immigrati un lavoro ce l’hanno per definizione.
Ci sono diversi modelli a cui ispirarsi. A marzo in Germania è entrata in vigore una legge che favorisce l’immigrazione di lavoratori specializzati dai paesi extraeuropei. In Canada esiste un sistema a punti che coinvolge circa trecentomila immigrati all’anno. Sono stati proposti dei partenariati per eliminare le discrepanze tra la domanda europea e l’offerta dei paesi in via di sviluppo ed evitare la fuga dei cervelli. L’Australia e la Germania hanno addirittura già condotto con successo i primi esperimenti in questa direzione.
Quello che è certo è che dovremmo deciderci ad agire in questo senso. Non sappiamo ancora che effetto avrà la pandemia sul mercato del lavoro, ma l’invecchiamento della popolazione è inevitabile. Una recessione globale è l’occasione giusta per varare una misura che aiuti davvero i paesi poveri, colpiti più duramente da questa crisi, e riduca le disuguaglianze su scala mondiale. Se non dovesse funzionare, mi mangio il cappello.
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 5 ottobre 2020