Pubblichiamo un estratto dal libro Sentieri migranti – Tracce che calpestano il confine di Alberto Di Monte, di recente uscita per Ugo Mursia editore (pagg. 194).
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L’immigrazione clandestina è un reato,
uno dei più gravi al mondo.
Umberto Bossi
Il 3% della popolazione mondiale sta muovendo i propri passi altrove. Duecentosessanta milioni di donne e uomini si stanno spostando da qui a là in cerca di migliori condizioni di vita, senza intenzione di far ritorno a breve termine. Nella maggior parte dei casi si diviene migranti per motivi di studio o in cerca di lavoro. È il caso di quanti oggi lasciano l’India e la Cina, o l’America Centrale, ma anche quello di tanti giovani italiani alle prese con una carriera accademica precaria o l’ambizione di maggior meritato guadagno. Qual è la differenza? Se gli italo-parlanti vengono vezzeggiati dai rotocalchi col titolo d «cervelli in fuga» (180.000 laureati espatriati in dieci anni), a quasi tutti gli altri giramondo resta invece appiccicata la piatta etichetta di migranti economici. Sedici milioni di questi vagabondi si spostano attraverso l’Europa e, tra i molti accolti, anche armenti di regolarissimi conterranei e-migrati.
Oltre 50 milioni di persone non passano alcun varco statale, ottenendo il poco empatico titolo di sfollati interni. Venti milioni, in fuga dalla terra natia, atterranno in paesi limitrofi del tutto impreparati a gestire l’accoglienza in termini umanitari, sanitari, di protezione. Non parliamo nemmeno di opportunità di emancipazione sociale ed economica. È questo il caso di chi vede interrotto il proprio nomadismo nei campi di Etiopia, Turchia, Serbia o Pakistan.
Tutti questi migranti sono umani (hanno un sistema nervoso centrale, quattro arti, posizione eretta e spesso un’istruzione di base) e per questo meriterebbero la stessa considerazione, eppure non sono tutti uguali. Non lo sono agli occhi della legge, dei social e probabilmente nemmeno innanzi ai nostri. La distanza e il tempo del loro peregrinare, le motivazioni che li spingono al viaggio, la legalità del loro transito e lo status che li attende nel paese di arrivo li incasellano in precise gabbie tipologiche e, troppo spesso, anche di cemento armato. Nel corso di questa ricognizione prenderemo confidenza con l’irregolarità di quanti hanno un permesso scaduto e sono in procinto di diventare «clandestini» per via di un ordine di espulsione. Scopriremo come il profugo (abbandonando la terra natia per cause di forza maggiore) possa divenire titolare di forme di protezione sussidiaria anche se non è vittima di persecuzioni individuali, mentre in qualità di richiedente asilo possa ambire al titolo quinquennale di rifugiato per essere custodito in terra straniera una volta smarrita la prima patria. Percorreremo infine il versante della protezione umanitaria: di assoluto rilievo per i profughi ambientali, eppure recentemente abrogata. L’Alto Commissariato1 ne ha protetti oltre 60 milioni in tutto il globo. Più rara e comunque meno romantica di quanto ci piacerebbe pensare è la condizione di apolidia: lo smarrimento di una qualche cittadinanza naturale o acquisita, che tocca comunque oltre 3 milioni di persone.
All’ombra delle partizioni si celano i grandi processi con cui raramente facciamo davvero i conti: la maggioranza di questi spostamenti avviene all’interno dei confini statali per effetto dello spopolamento delle campagne, combinato alla capacità centripeta delle città e delle megalopoli di intercettare manodopera, piuttosto che all’interno del perimetro continentale.
Non ricorda la versione su grande scala della storia recente di questo paese a partire dagli anni Sessanta? La mia famiglia è arrivata nell’hinterland milanese, da Bari, nel 1982.
Il Continente Nero è, nello sciatto immaginario europeo e con la concorrenza a singhiozzo del Medio Oriente, «il» luogo da cui fuggire (verso casa nostra, ça va sans dire) in cerca di miglior fortuna. Nel 2017 la materna Germania ha esaminato oltre 500.000 richieste di asilo, la Francia ben 110.000 e l’Italia 80.000 circa, delle quali accolte 35.130. Al cospetto di 10 milioni di vite in costante movimento all’interno del continente africano, ma anche dell’86% dei rifugiati ospitati da paesi «in via di sviluppo», siamo così sicuri che sia in atto una deliberata invasione? Venti milioni di passi fanno vibrare quella terra al ritmo del loro perpetuo trasloco, e ci preoccupa che vogliano tutti trasferirsi a Pessano con Bornago, Marcallo con Casone o Vertemate con Minoprio? No, l’inciampo avviene anzitutto nel Maghreb, in Libia in particolare, ma anche risalendo dal profondo sud per Congo e Ciad, o ancora nei campi profughi che intrappolano le genti nel dedalo del Corno d’Africa.
In dieci anni, tra il 2008 e il 2017, hanno toccato le coste continentali forse 2 milioni di migranti. Eppure nella scarsamente ambita classifica dei paesi che ospitano il maggior numero di esuli pro-capite non si qualifica nessun paese europeo, nemmeno uno, e non parlo del solo podio. Neanche della «top five» a dirla tutta. Per estensione i profughi costituiscono il 9% degli abitanti della Giordania, l’1,4% della Svezia, il 3 per mille della Germania e circa l’1 per mille in Italia. Decisamente meno della quota sull’imposta Irpef che si elargisce di anno in anno, anelando un refolo di pace interiore. Il piccolo Libano, decisamente fuori gara, ne ospita più di un milione. Nel paese dei cedri (che pure non se la passano affatto bene per via di deforestazione e climate crisis) i profughi rappresentano ben un quarto della popolazione totale.
Secondo il dossier Viaggi disperati, curato annualmente da UNHCR, 139.300 persone hanno raggiunto via mare l’Europa nel 2018, a fronte di un milione di arrivi nel 2015. Il dato più basso degli ultimi cinque anni? Anche, ma non solo. Intanto il ciclo che portava le vittime delle guerre degli anni zero non si è mai esaurito, ha piuttosto mutato rotte e composizione (la provenienza del milione di ingressi del 2015 parla da sé: per metà siriani, 30% tra afghani e iracheni, 25% minori). In seconda battuta il nostro triangolo delle Bermude è diventato nel tempo sempre più pericoloso e macina ancora sei vite al giorno. Provate a scrivere quindici nomi su un foglio e con una matita a punta grassa cancellare l’ultimo: questo è l’effetto che fa il Mediterraneo a chi affronta i flutti a bordo di bagnarole esauste e asfittici gommoni, ricolmi di ospiti spauriti.
Mentre il volume delle traversate calava a picco e, di converso, la pericolosità del tragitto cresceva, abbiamo metabolizzato la bislacca teoria delle ONG pull factor2 degli sbarchi, accettato l’infelice Memorandum of understanding che consegna i respingimenti alle milizie libiche, osservato mito e caduta dell’accusa di «accordi preventivi» tra soccorso umanitario e scafisti.
La traversata del Mediterraneo non ha una parte da protagonista in ogni singolo viaggio alla volta della fortezza Europa, ma appare (anche solo con una particina fugace) in tutte e tre le rotte principali. Le persone migranti in cammino dall’Africa sub-sahariana e dal Corno attraversano rispettivamente il Fezzan e la Cirenaica per raggiungere i porti del litorale che va da Zuara a Zliten, passando per Gasr Garabulli e la stessa Tripoli. Quando apprendiamo delle cronache di famiglie provenienti da Eritrea, Somalia, Etiopia, così come delle omertose sabbie libiche, non dovremmo dimenticare l’acquisizione della Baia di Assab, i fatti d’Abissinia, l’occupazione della Tripolitania e l’esito infelice di cinquant’anni di colonialismo sulle vite di decine di milioni di abitanti dell’Africa nord-orientale. Il razzismo e le migrazioni sono due nipoti del colonialismo: uno colpisce qui, l’altro i paesi vittime degli imperi d’Europa. La strage di Lampedusa, strage di eritrei, somali ed etiopi, lo denuncia con cruda onestà.
Il numero di frontiere terrestri da superare, aggirare, distrarre è una delle variabili chiave per comporre un costo del «biglietto» che può raggiungere le migliaia di euro già in questo primo step continentale dell’esodo. Solo una volta superato questo girone d’inferno, si potrà asserire che la traversata marittima è il successivo maggior pericolo per l’incolumità del viandante forzato. Nel 2015 l’ingresso di Frontex3 nel pattugliamento del mare interno ha progressivamente spinto i trafficanti in direzione dell’Egeo, rivitalizzando istantaneamente e modificando la rotta scossa negli stessi mesi dal giro di vite del governo Orban e dal successivo e controverso accordo Turchia-UE da sei miliardi di euro. Nello stesso periodo, tra il marzo 2015 e il dicembre 2017, nella porzione del Mediterraneo centrale prossima al litorale libico, è stato anche attivato il dispositivo aeronavale italiano noto come Operazione Mare Sicuro,4 in aggiunta alle missioni comunitarie.
Così, a partire dal 2016, la rotta balcanica ha mutato profondamente il suo tracciato attraverso la dorsale jugoslava che dalla Grecia (sì, anche la Bulgaria per stare al passo con i tempi ha eretto una recinzione lungo il suo confine meridionale) conduce in Macedonia, Serbia e Bosnia, Croazia e Slovenia, quindi piega per Italia e Austria, prima di riprendere la via del nord. L’ingresso in terra ellenica, che a partire dal 2015 diventa il primo paese di sbarco in UE, può avvenire per terra o per mare. In quest’ultimo caso i due punti d’approdo sono le isole del nord Egeo o il Dodecaneso. In entrambi i casi i suoi rubinetti sono nelle mani del presidente Recep Tayyip Erdogan e del suo utilizzo politico della questione migratoria, allo scopo di ricattare l’UE e distogliere l’attenzione dalle guerre in cui conduce un paese già provato da una profondissima crisi democratica. Per avere una vaga idea del ruolo chiave della Turchia, dove approdano le genti d’Asia e del Medio Oriente a causa di un intrico di conflitti aperti e latenti, dovremo tenere in considerazione anche il profilo delle sue organizzazioni criminali e la posizione strategica di porta del continente, al cospetto di Egitto, Giordania e specialmente Siria.
Un vento polveroso tira sulla via del deserto, la più misconosciuta alle nostre latitudini, cancellando i passi che incespicano lungo la rotta dell’Europa occidentale. Non lambisce direttamente le coste, le dogane, i media e la politica italiana. Dalle coste di Algeria e Marocco accarezza il golfo a nord di Cadice, Cartagena o Almeria, laddove il combinato disposto di recinzioni metalliche installate nelle due enclaves iberiche, fronteggiamenti armati e pattugliamenti via mare, avevano reso via via impraticabile la prima sfacciata rotta andalusa. Negli ultimi anni ha visto successo, parabola discendente e rinascita delle partenze atlantiche sulle laviche e capricciose coste canarine. Corpi soffiati dalle tempeste di sabbia in corsa dal Sahara occidentale, e più avanti da Mauritania e Senegal. Che sia per questa distanza che guardiamo con distacco alle vite intrappolate tra Ceuta e Melilla?
Note
1 Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, 1951, da qui in poi UNHCR.
2 Fattore di attrazione che, in combinazione con altri, decreta la scelta di una rotta e di una meta, anche solo temporanea.
3 Agenzia europea per la gestione delle frontiere esterne (2004), dal 2016 Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera.
4 Operazione aeronavale attivata nel marzo 2015 con funzioni di sorveglianza
e sicurezza marittima nel Mediterraneo centrale e nello Stretto di Sicilia.
Questo articolo è stato pubblicato su Effimera il 14 aprile 2021