È la strage l’arma quotidiana della giunta militare del Myanmar che ha ormai deciso di tentare il tutto per tutto nel tentativo, finora vano, di fermare le proteste di piazza. Secondo Assistance Association for Political Prisoners le vittime superano ora quota 700 e la stima di quanto avvenuto a Bago venerdi, in una regione centrale del Paese, è che in un solo giorno si sono contate ben 82 vittime.
Nell’antica capitale, a Nord di Yangon, polizia ed esercito hanno sparato sulla folla senza andare per il sottile e dai lacrimogeni ormai si è passati alle esecuzioni sommarie di massa. E’ però una situazione che continua a vedere mobilitazioni di piazza e la scelta del governo clandestino – il Comitato che rappresenta il parlamento o Crph, esecutivo ombra de facto (il sito si può vedere all’indirizzo crphmyanmar.org) – è ormai orientata alla costituzione di un esercito federale, mossa che potrebbe vedere saldarsi l’alleanza tra gli eserciti regionali delle diverse autonomie armate e il governo ombra della Lega per la democrazia di Aung San Suu Kyi. Una possibilità reale dopo che il Crph ha fatto carta straccia della vecchia Costituzione voluta dai militari nel 2008. Reale ma in salita.
Per ora Tatmadaw, l’esercito della giunta, è impegnato – oltre che sul fronte della protesta civile – in numerose piccole battaglie locali in diversi Stati della periferia (specie nel Chin e nel Kachin) anche se in alcuni casi le formazioni armate non vanno sempre d’accordo tra loro per problemi di confine. La giunta sta tentando di tirarne alcuni dalla sua parte – in particolare l’United Wa State Army (UWSA) e lo Shan State Progressive Party (SSPP), ala politca dello Shan State Army (SSA-N), ma per ora le bocce sono ferme (e il Restoration Council of Shan State, a capo di un’armata molto più numerosa, si è schierato contro Tatmadaw).
Sul fronte negoziale intanto la giunta ha nuovamente negato all’inviata speciale Onu Christine Schraner Burgener l’ingresso nel Paese. L’inviata si trova ora in Thailandia per un giro nelle capitali del Sudest tra le quali il caso Myanmar è diventato una spina nel fianco anche perché le posizioni sono molto diverse: Indonesia, Malaysia, Singapore e Filippine sono i fautori di un negoziato rapido per spingere Tatmadaw alla ragione e chiedono la fine delle ostilità e la liberazione dei prigionieri politici (a oggi oltre 3mila) mentre Vietnam, Cambogia, Laos e la stessa Thailandia si barcamenano tra silenzi, blandi inviti alla moderazione e il mantra della non ingerenza. Qualcosa però si muove. In casa cinese soprattutto. Il capo della diplomazia di Pechino Wang Yi ha incontrato gli emissari dell’Asean – l’associazione asiatica di cui anche il Myanmar fa parte – caldeggiando la soluzione negoziata ma soprattutto non ha smentito i contatti che l’ambasciata in Myanmar ha avuto con i rappresentati del Crph. Un passo importante – che di fatto ne riconosce l’esistenza – ma a cui dovrebbero seguire passi reali. Passi che si potrebbero vedere nella prossima riunione dell’Asean a Giacarta la settimana entrante con decisioni che potrebbero anche cambiare gli equilibri nel Consiglio di sicurezza dove siedono come membri non permanenti anche Vietnam e India (che ha leggermente cambiato la sua posizione) che finora hanno remato contro l’ipotesi di sanzioni.
Il fronte occidentale resta compatto: venerdi gli ambasciatori a Yangon di Australia, Canada, Eu, Cechia, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Olanda, Spagna, Svezia, Nuova Zelanda, Norvegia, Svizzera, Gb, Usa hanno ricordato la prima vittima del 9 febbraio scorso – Mya Thwe Thwe Khine – dichiarando di voler sostenere speranze e aspirazioni di chi crede in un Paese pacifico e democratico. Ha firmato con loro anche Seul.
Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto il’11 aprile 2021