Perché mai il Pd per fare una cosa buona ne deve fare due sbagliate? Era giusto nominare due donne alla guida dei gruppi parlamentari, ma perché ricorrere al familismo per consentirlo? Il figlio di De Luca è il nuovo vice-capogruppo della Serracchiani ed è indubbio che deve questo ruolo al fatto di essere figlio del presidente della Regione Campania. Nello statuto del Pd (art.1, punto 9) è scritto che l’attribuzione di incarichi interni “saranno ispirati ai criteri del merito e della competenza, rigorosamente accertati”. Badate all’avverbio: rigorosamente.
Da una vita mi chiedo come un partito di sinistra o progressista possa aver portato ai vertici delle istituzioni De Luca e figli, e non ho trovato finora risposte convincenti. Tutti i segretari del Pd, e prima quelli dei Ds, con motivazioni diverse, hanno considerato De Luca un elemento prezioso del loro partito, soprattutto quando si cominciava ad essere valutati al centro per il numero delle tessere in periferia e per gli appoggi nelle primarie.
E’ capitato a molti ex comunisti transitati nel Pd di abbandonare gli ideali di gioventù per accedere a quel potere politico precluso dalla ferma difesa dei valori del passato. Che il cambiamento di idee possa non essere causato solo dalle ambizioni di potere è del tutto ovvio (e la storia della trasformazione del Pci lo testimonia) ma il cinismo con cui alcuni di essi guardano ai valori abbandonati e il disprezzo con cui giudicano coloro che ancora li osservano è qualcosa che dovrebbe di più interessare l’analisi storica, soprattutto quando gli ex intransigenti diventano uomini importanti delle istituzioni. In genere, può avvenire che i politici più spregiudicati, più arroganti, più aggressivi e decisionisti, inclini all’autoritarismo, infastiditi dalle complicazioni della democrazia, disinvolti nelle alleanze, propensi alla clientela, bisognosi di mostrarsi potenti nel promuovere i membri della propria famiglia, siano proprio quelli che dicevano di credere in grandi ideali e soprattutto nella meritocrazia. O almeno li predicavano per gli altri. E a un certo punto della loro vita si sono convinti di aver pagato un prezzo molto alto a quegli ideali, e si rivoltano contro di essi con una disinvoltura pari in intensità alla fede del passato. Si possono, a tal fine, prendere in considerazione quattro momenti della storia italiana in cui il crollo di valori comuni a una generazione politica ha aperto la strada a periodi di opacità morale e di spregiudicatezza tattica. Il primo riguarda la generazione mazziniana, repubblicana e garibaldina che arriva al potere con la Sinistra storica e avrà la sua massima rappresentazione in Giovanni Nicotera e Francesco Crispi, che opereranno lo svuotamento ideologico e ideale della Sinistra dell’epoca attraverso la realpolitik e la paura di sommovimenti sociali da parte di quel popolo che un tempo pensavano di rappresentare. Da intransigenti repubblicani e mazziniani (e poi a fianco di Garibaldi in tutte le sue missioni militari), i due si trasformano in monarchici. Il primo, che aveva partecipato nel 1857 alla spedizione tragica di Carlo Pisacane a Sapri, sarà uno dei più discussi ministri degli Interni della storia italiana, soprattutto per aver applicato meticolosamente il principio del controllo assoluto delle prefetture sugli elettori; il secondo, tra gli organizzatori della spedizione dei Mille, porterà l’Italia (da presidente del consiglio) sull’orlo del collasso per le sue aspirazioni colonialiste, per la sua concezione autoritaria e per la repressione poliziesca di ogni dissenso politico e sociale.
Poi toccherà a Mussolini, il socialista più intransigente contro la guerra da direttore dell’Avanti, che nel giro di poche settimane diventerà, con l’aiuto dei soldi del governo francese, il principale sostenitore dell’intervento italiano nella prima guerra mondiale e darà vita a un regime all’opposto degli ideali socialisti. Il terzo sarà Craxi che, in polemica e in competizione con i comunisti e con i democristiani, farà dell’antico e glorioso Psi uno dei motori politici della corruzione negli anni Ottanta del Novecento.
Poi il trasformismo e la corruzione riguarderanno anche il Pci e i suoi eredi. Diversi amministratori comunali e regionali daranno vita a numerosi fenomeni clientelari e corruttivi, di pari passo con l’abbandono di quell’intransigenza morale che aveva caratterizzato la storia dei comunisti italiani.
È stato un bene mettere fine al partito-chiesa, al partito ideologico, ma quel valido obiettivo non comportava di per sé smontare l’armamentario politico-ideale in base al quale clientela e corruzione erano sentiti come un disvalore dalla comunità politica di appartenenza. E in quei tempi non si promuovevano i figli come classe dirigente.
Con la nascita del Pd, e la confluenza di una parte della Dc, si è ritenuto
che la ricerca clientelare del consenso non solo fosse compatibile con l’appartenenza al nuovo partito ma addirittura rappresentasse un elemento agevolante della carriera politica al suo interno. Gli ex comunisti hanno cominciato a somigliare a coloro che per anni hanno combattuto. Nella storia d’Italia, tanti intransigenti transigeranno e non avverrà quasi mai che al radicale cambio di posizioni non si aggiunga anche un radicale cambio di concezione dei valori della politica. De Luca è uno di questi, e scusate il confronto con altri della storia italiana. Altrimenti che spiegazioni dare sul fatto che il figlio di un presidente di Regione in carica diventa prima parlamentare e poi vice presidente del gruppo di quel Pd che rappresenta nella storia la continuità con le tradizioni e i valori del Pci? Che spiegazione darsi che un condannato per corruzione è il suo segretario particolare e nessuno del Pd ha detto una parola di condanna? Ed è assurdo che tutto ciò sia motivato per consentire al prossimo candidato progressista a sindaco di Napoli di avere anche il sostegno di De Luca.
Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica il 9 aprile 2021