Come forse sapete, anche se questa volta non ha avuto molta rilevanza mediatica, si è tenuta l’ennesima audizione dei Ceo di Facebook, Twitter e Google davanti ai legislatori del Congresso Usa. Questa volta il titolo dell’incontro era il suggestivo: “Disinformation Nation: il ruolo dei social media nel promuovere estremismo e cattiva informazione (misinformation)”. Cinque ore di incontro, visionabili qua (su YouTube) per i più stoici (sì, ho ascoltato quasi tutto) in cui Mark Zuckerberg (Facebook), Jack Dorsey (Twitter) e Sundar Pichai (Google) sono stati torchiati dai parlamentari americani.
Vorrei dirvi che da questa audizione (la quarta nell’ultimo anno per Zuckerberg, la terza nello stesso periodo per Dorsey e Pichai, ma la prima per tutti dopo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio e il ban di Trump) sia uscito qualcosa di nuovo. O anche solo l’impressione che i legislatori in media sapessero di cosa stavano parlando. O che le risposte dei Ceo siano state interessanti. Ma l’unica cosa che mostrano queste 5 ore di audizione via collegamento video (oltre ad alcuni salotti molto americani, a uffici con bandiere giganti, e soprattutto alla cucina di Dorsey, al suo orologio blockchain, a quanto pare un BlockClock, e a un set di bottiglie vuote che ricordano quelle di chi si appresti a fare la salsa) è che se la pressione su Big Tech sembra essere davvero aumentata, la capacità di ragionare su soluzioni sembra rimasta la stessa. Una capacità molto limitata. La possibilità che da queste audizioni escano progetti legislativi unitari ed efficaci, in grado di bilanciare tutti i conflittuali diritti in gioco quando si parla di regolamentazione di piattaforme, appare come una chimera. E non è solo una mia impressione.
“Ma anche dopo un diretto affronto alla democrazia, i legislatori erano disorganizzati facendo commenti sulla cancel culture, Mr Potato Head, e mescolando assieme competizione, privacy e moderazione in un enorme problema insolubile”, scrive The Verge. “Dopo l’audizione, non sembra che la Camera sia sia avvicinata ad abbozzare reali riforme legislative. In altre parole, il Congresso ha fallito nell’andare oltre le lamentele personali e verso soluzioni reali”.
A livello di sostanza è emerso che:
– il nuovo e principale spauracchio sventolato dai legislatori, specie repubblicani, sono i bambini. A quanto pare, i social media sono diventati il nemico numero uno dei più piccoli e la causa di tutti i problemi di infanzia e adolescenza
– Zuckerberg ha avanzato l’ipotesi di una parziale riforma della Sezione 230, la legge che tutela le piattaforme da alcune responsabilità in merito a quanto pubblicato dai loro utenti, e la sua posizione è: le singole piattaforme devono meritarsela, la protezione della Sezione 230, mostrando di impegnarsi e costruendo un sistema per rimuovere contenuti illegali. Dorsey ha invece suggerito di rendere trasparenti e pubbliche le linee guida applicate nella moderazione, di permettere agli utenti di appellare le decisioni, di dare più libertà agli utenti nello scegliere diversi filtri/algoritmi sui contenuti che vogliono vedere.
– chi, come e anche se si debba trattare quei contenuti che non sono illegali ma possono essere pericolosi resta la grande inevasa incognita, introdotta da Zuckerberg ma prontamente rimossa dai politici
– un lunare Dorsey (molto bersagliato dai repubblicani proprio per le posizioni nette di Twiiter verso Trump, nota The Protocol) ha giocato tutto sul fatto che Twitter stia lavorando a un protocollo aperto e decentralizzato (bluesky) che rimetta la questione moderazione nelle mani degli utenti, discorso che rimbalzava addosso ai legislatori cui si smorzavano subito lo sguardo e la comprensione alle sole parole “open protocol”
– il formato “requisitoria del politico” più “domanda sui massimi sistemi ai tre Ceo”, con obbligo di rispondere solo “yes or no”, ha reso ancora più anodine le risposte di Big Tech, con punte di involontaria comicità da tutte le parti.
Alla fine di questa audizione rimarrà il tweet piratesco di Dorsey postato durante la stessa. Un sondaggio in cui la domanda era solo un punto di domanda e le risposte erano solo Sì o No. Per la cronaca, ha vinto il Sì.
Big Tech, Big Cash nel lobbying
Più interessante delle audizioni è un report pubblicato dall’organizzazione Public Citizen, che mostra la potenza di fuoco economica e lobbistica di Big Tech (di alcune aziende specifiche), specie nei riguardi della politica americana.
Infatti Facebook e Amazon sono diventate le aziende che spendono di più in lobbying, eclissando Big Oil e Big Tobacco, “con Amazon e Facebook che hanno speso quasi due volte tanto che Exxon e Philip Morris in lobbying nel 2020”, scrive Public Citizen.
Per capirci: nel 2010 in cima a questa lista c’erano PG&E e General Electric. Nel 2017 in prima posizione troviamo Google (Alphabet) e subito dietro AT&T. Nel 2020 Facebook è in testa, seguita da Amazon (Google è scesa oltre l’ottava posizione).
In dettaglio: durante il ciclo elettorale 2020, Big Tech (Apple, Amazon, Google, Facebook) ha speso 124 milioni di dollari in lobbying e in contributi alle campagne, segnando un record rispetto a precedenti cicli (nel 2010, dieci anni fa, spendevano 20 milioni). La spesa di Amazon è cresciuta del 30 per cento, di Facebook del 56 per cento. Facebook, Amazon, Google, e Apple hanno anche aggiunto 40 lobbisti nel 2020, passando da un totale di 293 nel 2018 a 333.
Tra i membri del Congresso con giurisdizione su questioni privacy e antitrust, il 94 per cento ha ricevuto soldi da lobbisti o da PAC Big Tech.
Questo articolo è un estratto della newsletter di Guerre di rete, del 28 marzo 2021