Il 2021 si era aperto con una clamorosa decisione del Tribunale collegiale di Vibo Valentia: vietare le riprese audiovisive delle udienze di “Rinascita-Scott”, processo di rilievo internazionale in corso nell’aula bunker di Lamezia Terme, che vede tra gli imputati boss e gregari della ‘ndrangheta, imprenditori, politici, colletti bianchi e massoni, accusati di essere associati in una potente holding criminale. Sostanzialmente lo stesso grumo di poteri criminali su cui stava indagando Luigi de Magistris quando un inqualificabile Csm – di cui, però, solo oggi tutti si scandalizzano – lo costrinse ad abbandonare prima l’inchiesta (2008) e poi la toga. Tant’è che fra gli indagati di allora c’è uno dei principali imputati di oggi, l’avvocato berlusconiano Giancarlo Pittelli, recentemente condannato a risarcire il sindaco di Napoli per averlo chiamato “farabutto” (quando si dice una onorevole offesa). L’Ordine dei Giornalisti aveva reagito allo sconsiderato divieto richiamando l’attenzione dei giudici su concetti tanto basilari, quanto evidentemente non scontati: «Il giornalista è stato autorevolmente definito “storiografo dell’istante”, non è immaginabile negargli la possibilità di fare la sua parte per la cronaca e per dare una testimonianza per i libri che si scriveranno». Due mesi dopo, il 13 marzo, si è registrata una parziale marcia indietro: ok alle riprese, ma no alla loro trasmissione fino a sentenza definitiva (non prima del 2023). Motivo? “Garantire l’assoluta genuinità della prova”. Pezza peggiore del buco. Resta “un limite che deve essere superato per non limitare il diritto di cronaca”, rimarcano all’unisono Fnsi e Usigrai. La cronaca degli ultimi giorni ci ha però dimostrato che il problema di certa gente non sono le telecamere: quel che dà fastidio è proprio la libertà d’informarsi, il diritto di sapere.
Sarebbe interessante conoscere il risultato di un eventuale sondaggio: quanti tra gli 8.000 avvocati penalisti italiani condividono i giudizi del loro rappresentante nazionale sulla recente puntata(1) di Presa Diretta, dedicata all’inchiesta della Procura di Catanzaro?
I non pochi fulminati sulla via del garantismo riformista doc (denominazione d’origine craxiana) lo scorso 17 marzo hanno festeggiato l’unità d’Italia cannoneggiando i vertici Rai, colpevoli di aver consentito alla redazione di Presa Diretta di accendere un faro, in prima serata, sul maxiprocesso alla ‘ndrangheta e ai suoi partner in giacca e cravatta. Certi ex comunisti assomigliano a quegli ex fumatori che, abbandonato il vizio, sentono la necessità di scagliare anatemi contro gli infedeli che si ostinano a non voler imitare il loro virtuoso percorso di redenzione. Alla faccia della lentezza del sistema giudiziario, una immediata “sentenza sommaria” è stata emessa a tempi di record da un collegio bipolare composto dalla pasionaria Tiziana Maiolo e dall’inquieto direttore del Riformista (già direttore, per un lustro, del comunistissimo Liberazione). Lei: «Non è più il processo agli uomini di una cosca di ‘ndrangheta, è il processo a Giancarlo Pittelli, anzi non è più neanche un processo, è una sentenza sommaria di condanna. Lo ha deciso la Rai con la messa in onda, lunedì sera, di una puntata di Presa Diretta di stile sovietico». Lui: «La Rai ha violato tutti i principi dello Stato di diritto e della nostra Costituzione. Prestandosi, come servizio pubblico, ad una operazione di giustizialismo che sarebbe impossibile in qualunque altro paese anche vagamente democratico». Il giorno seguente arriva il verdetto supremo. Stavolta è l’avvocato Gian Domenico Caiazza – massimo rappresentante dei penalisti italiani, nonché codifensore di Renzi & Co nel processo(2) in corso a Firenze sulla Fondazione Open – a sfoderare il bazooka: «È stato usato a piacimento il materiale investigativo, i filmati, le intercettazioni, senza contraddittorio, in relazione a un processo penale che non è ancora nemmeno cominciato e a un’indagine nella quale sono state già annullate 140 delle 300 misure cautelari irrogate. È una vergogna, è uno scandalo ed è la cifra del giornalismo italiano». A corredo di questo attacco frontale, ha tentato di esprimere un ragionamento anche il deputato di Italia Viva Michele Anzaldi, severissimo membro della commissione di vigilanza: «Acclarato che queste trasmissioni vanno monitorate perché non vadano a ledere i diritti di nessuno, ci vuole una riparazione, un approfondimento e le garanzie che non accada mai più». Niente meno.
A dire il vero c’è qualcosa che stona in questo ragionare. Tanto per dirne una, quando Bruno Vespa ha ospitato(3) il figlio di Totò Riina o i Casamonica su Rai Uno, non si ricordano scandalizzate reazioni dei liberali/riformisti contro il conduttore e i vertici di Saxa Rubra; né richieste di riparazione. Evidentemente quando a parlare sono i mafiosi non è più necessaria una “controparte”: le colpe dei padri-padrini non ricadono sulle spalle dei figli; e nemmeno sulle loro chiappe, degne di accomodarsi sulle accoglienti poltrone di Porta a Porta. Bianche ma non proprio candide.
Per dirne un’altra, non si ricordano isterie garantiste nemmeno quando, nell’autunno 2015, l’ex sindaco Ignazio Marino fu sottoposto a un bombardamento mediatico trasversale che culminò con la clamorosa processione dei consiglieri comunali del Pd, chiamati a sottoscrivere davanti a un notaio l’infedeltà agli elettori e la fedeltà all’ex sindaco di Firenze e alla sua corte di giovani turpi. Marino è stato assolto(4) da ogni imputazione, eppure la narrazione dominante continua ad avvalersi di pesi e misure variabili. Il socialista Ottaviano Del Turco, dopo l’assoluzione, è entrato nel pantheon dei martiri bipartisan del giustizialismo. Marino invece è stato condannato all’oblio, senza appello e senza manco un avvocato d’ufficio. Un po’ come Letta, cacciato da Palazzo Chigi nel 2014 dagli stessi mandanti.
“Vergona” ha gridato l’avvocato Caiazzo a Riccardo Iacona. Il 21 marzo, a Torino, don Ciotti ha usato in modo decisamente più appropriato quel sostantivo, rivolgendolo agli ignavi difensori della Bossi-Fini. Tra i primi a reagire(5) con sacrosanta veemenza in difesa di Iacona e, più in generale, del diritto alla conoscenza, merita una menzione Nando dalla Chiesa, presidente onorario di Libera e coordinatore del master in ‘Scenari internazionali della criminalità organizzata’ dell’Università di Milano: «Perché non dobbiamo sapere di cosa si discute a Lamezia? Chi non lo vuole? (…) C’è qualcuno, qualche autorità in Lombardia che ha chiesto il ritiro della nostra ricerca, il nostro monitoraggio dell’antimafia sociale in Lombardia. C’è il problema della libertà di ricerca, altro che libertà di cronaca, e qui bisogna erigere delle trincee. Per una riga e mezzo vorrebbero ritirarla dalla circolazione. E’ un fatto gravissimo che un’autorità possa pensare di poter ritirare una ricerca universitaria perché c’è una riga e mezzo che dà fastidio. Ma dove siamo arrivati?! Diventerà un caso nazionale».
A dimostrazione che i veri giustizialisti sono, a conti fatti, i finti garantisti: deboli con il potere, forti contro chi contrasta l’ignoranza e l’omertà. Da sempre gli imputati eccellenti e i loro abili avvocati hanno poche idee ma chiare: guadagnare tempo (o comprarselo), chiedere il trasferimento dei processi, sollecitare leggi più accomodanti. Speriamo che i teorici della “convivenza” con le mafie finiscano per riunirsi ai loro congiunti, dietro le sbarre. Nel frattempo noi umili elettori dovremmo, nel nostro piccolo, farci sentire un po’ di più. Opponendoci ai difensori dell’indifendibile e all’ennesimo condono maleducante. Whatever it takes.
Note
(4) https://www.ilpost.it/2020/12/05/ignazio-marino-panda-rossa/