«È l’unico lavoro che si trova in giro». Natascia, Andrei, Marco e Dario fanno i «driver». Un lavoro che suona nuovo ma è figlio della crisi. Tutti si sono ritrovati a «guidare un furgone e portare i pacchi Amazon Prime a casa di chi li ordina online dopo un licenziamento o un fallimento della loro attività precedente. Natascia faceva la cameriera, Andrei ha 31 anni e prima faceva il barman, Dario ha 57 anni e aveva un negozio Buffetti in pieno centro.
Lavorano a Roma. Sono saliti a Passo Corese al presidio regionale dei sindacati per il loro primo sciopero: «Quando l’azienda ci ha detto che Amazon proponeva di considerare anche domeniche e festivi come giorni normali non ci abbiamo più visto, scioperare è l’unica risposta anche se a farlo siamo stati solo 30 su 180 totali in azienda».
LE DIFFERENZE RISPETTO ALLA VITA d’inferno di Ricky, il protagonista di Sorry We missed you di Ken Loach ci sono: nessuno di loro è padroncino di se stesso e sono tutti assunti dalla Unicotras, azienda della Magliana che fa consegne esclusivamente per i clienti di Amazon Prime su tutta la capitale. Per il resto solo analogie. «La bottiglia per la fare la pipì senza perdere tempo ce l’abbiamo tutti, anche se speri sempre di non usarla», raccontano quasi in coro.
«Anche se il furgone è dell’azienda le multe sono nostre, così come i danni da pagare oltre la franchigia da 500 euro», spiegano. I turni prefissati da 9 ore, solo sulla carta. «Devi arrivare un’ora prima al parcheggio e prima di prendere il furgone devi firmare il check van con cui certifichi che il mezzo è a posto anche non lo è quasi mai», racconta Natascia mostrando la foto dello sportello basculante di un furgone di un collega: «Ma lo devi firmare, sennò non esci».
Capita poi non di rado di essere rimandato a casa perché i turni sono pieni: «Ti sei fatto magari 40 chilometri per non lavorare affatto». I contratti prevedono dai 3 ai 5 giorni a settimana. «Chi ha cinque giorni può arrivare a guadagnare 1.500 euro al mese ma solo se completi le consegne che nell’ultimo anno sono quasi raddoppiate». Si viaggia al ritmo di «380 pacchi consegnati in un giorno e meno di 10 ore non ce le metti mai». Significa 38 pacchi all’ora «stipando il furgone come un uovo e mettendo molti pacchi anche al posto del passeggero», commentano tutti.
In verità esiste anche un premio di produzione. «Sì, al miglior driver del mese danno una spilletta, la chiamiamo “la spilletta del coglione”. A casa ne ho tante, io ormai le butto nella spazzatura», racconta Marco.
ANDREI COME ZONA ASSEGNATA ha «il centro di Roma, un vero incubo, molto meglio la periferia soprattutto per parcheggiare, a me l’avranno data perché sanno che sono vecchio», spiega Dario. Lui in realtà è a casa da tre mesi e a Passo Corese è arrivato in stampelle: «Scendendo dal furgone mi sono rotto il menisco del ginocchio sinistro».
Sebbene vadano in giro per Roma con la scritta Unicotras, sanno benissimo che a guidare i loro turni è l’algoritmo di Amazon. «Un algoritmo che se ne frega del traffico, del fatto che non c’è parcheggio, dell’ora di punta: fissa solo il numero delle consegne e tu le devi rispettare prima di tornare al parcheggio».
UN PLAUSO ULTERIORE per il viaggio a Passo Corese va fatto al coraggio di Andrei e Marco: «Siamo al sesto e ultimo rinnovo possibile del contratto a tempo determinato. A fine mese o ci assumono a tempo indeterminato oppure ci mandano a casa. Ma preferiamo lottare che piegarci», dicono fieri all’unisono.
In vista dello sciopero la loro azienda ha cercato di avvertirli. «Quando hanno visto che abbiamo partecipato all’assemblea, il giorno dopo ci hanno dato meno fermate: 100 invece di 140. Ma i pacchi sono aumentati, quasi a prenderci in giro facendoci credere in un miglioramento delle condizioni di lavoro mentre invece ce le peggioravano».
Le loro richieste sono semplici: «Riduzione di orario, un tetto alle consegne, riconoscimento degli straordinari, aumento dello stipendio nei festivi. Lo chiediamo alla nostra azienda, sapendo benissimo che è Amazon che decide. Allora ci assumesse direttamente», protesta Dario, sollevando una stampella.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 23 marzo 2021