L’Afghanistan, Joe Biden e la solita fretta americana

di Giuliano Battiston /
17 Marzo 2021 /

Condividi su

Helicopters carrying U.S. Army soldiers from the 1-320 Field Artillery Regiment, 101st Airborne Division, take off from Combat Outpost Terra Nova as the soldiers head home following a 10-month deployment in the Arghandab Valley north of Kandahar April 23, 2011. REUTERS/Bob Strong (AFGHANISTAN - Tags: MILITARY POLITICS IMAGES OF THE DAY)

Alla ricerca di una vera pace. Washington pretende di risolvere in poche settimane un conflitto lungo e complicato

Giovedì tutti a Mosca. Tra fine marzo e inizio aprile, a Istanbul. Poi forse di nuovo a Doha. Con l’insediamento del presidente Joe Biden, il complicato processo diplomatico per porre fine alla guerra in Afghanistan si arricchisce di nuovi appuntamenti. Il primo si terrà giovedì a Mosca, dove si riuniranno i rappresentanti di Russia, Cina, Pakistan, forse Iran, insieme a quelli del governo di Kabul e alla delegazione di 10 membri dei Talebani guidata da mullah Abdul Ghani Baradar. Il numero due del movimento e l’uomo che il 29 febbraio 2020 ha firmato uno storico accordo bilaterale con l’allora segretario di Stato Usa, Mike Pompeo.

QUELL’ACCORDO non ha prodotto i risultati sperati. Gli americani e i Talebani non si fanno più la guerra (o quasi) in Afghanistan, ma gli scontri tra le truppe governative e il movimento islamista armato continuano, ai danni della popolazione. E a dispetto dell’inizio dei colloqui «intra-afghani», tra Talebani e governo di Kabul, iniziati il 12 settembre a Doha. Dai quali è uscito, dopo tre mesi di discussione, un accordo sulle procedure da seguire nel negoziato, ma poco altro. Anche perché entrambi gli attori erano in attesa delle mosse della nuova amministrazione Usa.

Su Biden incombe una scadenza importante: l’accordo di Doha prevede che tutte le truppe americane (ora 2.500 circa) vengano ritirate entro la fine di aprile 2021. Biden non ha ancora detto cosa intende fare delle rimanenti truppe, se prolungarne la presenza rischiando di far saltare l’accordo bilaterale con i Talebani o se riportarle a casa. Intanto ha gettato sul tavolo una proposta forte, fatta pervenire agli interlocutori afghani dall’inviato speciale di Trump, poi confermato, Zalmay Khalilzad, e dal nuovo segretario di Stato, Antony Blinken.

Il primo ha girato ai Talebani e al presidente Ashraf Ghani una bozza di accordo di pace, che non convince del tutto né i primi, perché mantiene in piedi per un periodo quel sistema istituzionale contro il quale hanno combattuto anni e anni, né il secondo, perché dovrebbe farsi da parte.

COME HA RIBADITO, in modo implicito ma chiaro, anche il segretario di Stato Blinken nella sua lettera fatta recapitare a Ghani e ad Abdullah Abdullah, a capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale. Una lettera «dai toni urgenti», rivelata dal canale afghano di informazione Tolonews.

LA NUOVA PROPOSTA americana è chiara: organizzare in Turchia una conferenza internazionale sull’Afghanistan, sotto l’egida dell’Onu, che secondo alcune fonti potrebbe già tenersi il 27 marzo, più probabilmente ad aprile. Un incontro tra i Talebani e il governo di Kabul per ottenere un accordo politico e una tregua di almeno 90 giorni, così suggerisce Blinken, durante i quali far proseguire il negoziato, verso un patto di pace vero e proprio. L’insistenza sulla tregua temporanea è forse l’unico elemento positivo di un piano che, ancora una volta, soddisfa gli interessi e la fretta statunitensi, prima di quelli degli afghani.

PRETENDERE DI RISOLVERE in poche settimane il lungo conflitto, con una conferenza modellata su quella tenuta a Bonn nel 2001, dopo il rovesciamento dei Talebani, è poco plausibile. Rischia danni futuri peggiori di quelli che pretende di sanare e rivela le vere intenzioni dell’amministrazione Biden: provare a salvare la faccia, prima del ritiro completo delle truppe.

Il governo di Kabul prima ha obiettato, in particolare con il vicepresidente Amrullah Saleh, che ha parlato di un piano di pace autoritario. Poi si è ammorbidito. Fino a quando il consigliere per la Sicurezza nazionale, Hamdullah Mohib, ha annunciato che il governo parteciperà sia all’incontro di Mosca che a quello di Istanbul.

La proposta del governo Usa, per quanto sbilanciata, ha infatti dato nuovo impulso alla diplomazia regionale, dove però le posizioni sono ancora diverse. Sul fronte interno, gongolano i cosiddetti leader jihadi, eredi dei partiti/fazioni della guerra civile. I quali vedono nel governo a interim la possibilità di riprendere quel potere che l’accentratore Ghani ha a lungo sottratto loro. Al gran completo, parteciperanno all’incontro di Mosca di domani. Al quale è invitata soltanto una donna. Habiba Sarabi.

Questo articolo è stato pubblicato è stato pubblicato su Il manifesto il 16 marzo 2021

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati