Da quando ho perso la verginità ideologica, messa a nudo dalla cultura del dubbio che mi ha fornito un approccio critico allo stato delle cose, non so più descrivere cosa sia il socialismo e mi mancano le parole per descrivere il comunismo. Sognare il socialismo come regno dell’eguaglianza con l’aggiunta della libertà è un po’ come sognare il Paradiso. Ma come si vivrebbe in Paradiso, quali ricchezze interiori, quali condivisioni, quali relazioni? E se poi il Paradiso dei marxisti, cioè il Socialismo, non avesse ricchezze da offrirci, sarebbe per noi una delusione? A districarmi in questo groviglio tra sogno e realtà mi aiuta Constantino Kavafis con la sua Itaca: “Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi assicurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze”. Nel grande poeta greco non c’è spazio per l’eterogenesi dei fini: “Sempre devi avere in mente Itaca, raggiungerla sia il pensiero costante”. E infine, quantunque scoprissi che l’isola incantata non può darti tutto quel che stai cercando, pensa che “Itaca ti ha dato un bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo sulla strada: che cos’altro ti aspetti?”.
Itaca è il viaggio, il nostro viaggio. Ma nel programmarlo, sapendo che la strada si preannuncia lunga e fertile il cammino, e che non bisognerà avere fretta per raggiungere l’isola, dovrai sceglierti con cura i compagni di viaggio: stare stretti dentro una navicella con compagni che sgomitano, ruotano il timone nella notte per cambiare rotta e altri pronti all’ammutinamento, non potrà che consegnare ai marosi il destino collettivo, “infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso”, come nel racconto del naufragio di Ulisse.
Sono tornato a leggere, come talvolta mi capita, il poeta greco, alla ricerca di una suggestione e di parole adeguate a rispondere ai tanti Machiavelli che popolano la scena post-novecentesca. Se il fine – sostengono amici e compagni che temono insieme al covid la tentazione di risalire l’Aventino – è uscire vivi dalla pandemia sia pure con le ossa rotte; se il fine è utilizzare bene i soldi dell’Europa per far ripartire l’economia; se il fine è vaccinare tutti il prima possibile (il titolone di Repubblica a pagina 3 recita senza pudore “Il piano: metà degli italiani vaccinati entro l’estate per salvare il turismo”); se dunque questo è il fine, i mezzi e la compagnia per raggiungerlo e contano davvero poco. Ma se questo è il fine che “fa tremar le vene e i polsi”, al timone della nave – aggiungono gli amici realisti – dev’esserci uno più bravo dello skipper di Luna rossa. Uno conosciuto e stimato in tutto l’universo a cui i soldi si prestano senza discutere. Insomma, serve l’Uomo della Provvidenza, una figura neanche tanto metaforica cui la storia d’Italia ci ha abituati. E noi ce l’abbiamo, quest’uomo. Uno che – chi può negarlo – sa maneggiare le banconote, sa stimolare la finanza, è capace di far arretrare lo spread. Ma allora, perché mai preoccuparsi se sulla nostra barca salgono marinai senza principi e lealtà, marinai con mete e principi opposti ai nostri, e che importa se per far passare i neutrini dovremo traforare le montagne, se dovremo salvare le nipotine di Mubarak, se dovremo costruire un ponte tra Scilla e Cariddi, se dovremo assolvere chi vuole la morte dei migranti, se gli uomini staranno sopra le donne, il nord sopra il sud, il capitale sopra il lavoro?
Ecco, io resto con Kavafis e penso che Itaca sia il viaggio per raggiungerla, o comunque per cercarla. E temo che quella barca affollata da euro-folgorati, ombre di stallieri e cantori del Nuovo Rinascimento non sia la mia barca. Timidamente ricordo ad amici e compagni più flessibili di quanto lo sia io, che l’opposizione a un governo e a un progetto può essere giusta o sbagliata, ma non la si può far coincidere con una scelta aventiniana che potrebbe essere fraintesa con la rinuncia a battersi per un’altra idea e un altro governo del paese. Forse sbaglio perché non ho abbastanza a cuore il turismo e lo sci, almeno non quanto la salute individuale e collettiva. Di sicuro sbaglio, se non riesco a trovare le parole convincenti per rispondere ai miei amici Machiavelli che affollano letture e telefonate, a chi dice che prima viene la creazione di valore e ricchezza e poi, semmai, la loro redistribuzione, a chi ha dimenticato l’affondamento della Grecia di Tsipras o pensa che comunque i greci se l’erano andata a cercare. Una grande emergenza ci consegna, insieme a un fiume di danaro in arrivo, un’irripetibile opportunità, lo ammettono tutti. Ma per fare cosa? Non mi convince chi risponde “poi vediamo”: prima i vaccini, le infrastrutture, il turismo, i ponti (magari quello di Messina no, ma il Tav sì), poi pensiamo alla Nuova Italia, al nuovo modello. Anzi, con un eccellente manager leonardesco si può già ora dare persino una mano di verde all’edificio che poi costruiremo. Con mattoni più puliti, con una calce in cui finalmente non sarà stato sciolto nessuno. Tutto giusto, ma mi sorge un dubbio: se alla fine quella casa fosse sostanzialmente uguale a quella travolta dall’ondata di covid? E se il covid fosse nato proprio dentro quella casa, per dirla chiaramente, dentro di noi? Insomma, fuor di metafora: se proprio il modello di sviluppo, di consumi, di relazioni sociali, di accumulazione, di diseguaglianze fosse il primo responsabile della pandemia contro cui cerchiamo di combattere, non sarebbe una follia tornare al passato, riproponendolo sia pure sotto mentite spoglie? Penso che la “normalità” del nostro modo di vivere, relazionarci e governare non sia l’obiettivo da riconquistare per risolvere il problema ma sia essa stessa il problema. Ma almeno, obiettano i miei compagni, saremo tutti vaccinati. Certamente, primum vivere, deinde philosophari. Mi mancano le parole, non so che rispondere a un tale richiamo alla realtà, tento di cavarmela insinuando un’altra considerazione: bene, saremo vaccinati, ma fino al prossimo virus.
Lo so che l’uomo della Provvidenza è il figlio del fallimento della politica, e quel che fa più male, di tutta la sinistra. Ma ciò non giustifica la consegna ai “tecnici” del progetto più ambizioso: la costruzione della città futura. Se siamo arrivati a pezzi alla sfida presente è anche perché non tanti decenni fa passò anche nella sinistra l’idea che il pubblico, essendo obsoleto e corrotto, rappresenta il male mentre il privato è il bene perché è efficiente e libero dalle ideologie. Così è successo che anche i beni comuni venissero consegnati nelle mani del capitale privato e della finanza e il risultato è sotto i nostri occhi. Penso all’acqua, come alla salute, e un po’ anche alla scuola.
Non ho tante altre carte da giocarmi per controbattere i mei ragionevoli critici. Alla peggio, se le parole giuste continuerò a non trovarle, vorrà dire che userò quelle di un altro poeta: “Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Un po’ poco? Un segno di resa? No, non è il punto di arrivo ma un punto di partenza, il viaggio è appena iniziato. E le parole, quelle parole, dovremmo provare a cercarle insieme.