E se alla fine a molti dei presidenti dell’America latina, al di là delle felicitazioni di rito e delle posizioni ufficiali di sollievo per il ritorno di Washington “alla normalità” (a parte il caso estremo del populista di destra Jair Bolsonaro in Brasile che insieme al “populista di sinistra” López Obrador in Messico è stato l’ultimo a riconoscere la vittoria di Joe Biden), non dispiacesse poi tanto la presenza alla Casa Bianca di un “isolazionista” a cui dell’America latina non importava quasi nulla e in fin dei conti neanche della democrazia, dei diritti umani, del cambio climatico, della devastazione amazzonica, della corruzione?
All’inizio dell’era Trump, nel 2017, come ha scritto di recente The Economist, “i governi latino-americani temevano di attirare l’attenzione del nuovo presidente, ma con il passare del tempo molti leader della regione hanno imparato ad apprezzarlo, soprattutto perché Trump li ha lasciati liberi di agire come volevano”. A patto che rispettassero le tre o quattro condizioni in cui si esauriva l’interesse del tycoon per “il cortile di casa”: che i paesi del Centro America e il Messico impedissero l’entrata dei migranti negli Stati Uniti; che il Messico, se non pagarlo, non ostacolasse la costruzione del “muro della vergogna” lungo il confine con gli USA e accettasse la revisione ancor più sfavorevole del NAFTA (l’accordo di libero commercio che adesso si chiama USMCA); che fossero mantenuti l’isolamento e l’asfissia della “troika della tirannia” Cuba, Venezuela e Nicaragua.
Nei quattro anni alla Casa Bianca, Trump non ha mai messo piede in America latina, fatta eccezione per una fuggevole puntata a Buenos Aires nel 2018 per il G20. George W. Bush aveva visitato la regione 18 volte, Obama 15 e Joe Biden come vicepresidente e senatore 16.
E adesso, con Biden e Kamala Harris alla Casa Bianca e i democratici che controllano anche il Congresso? Come sarà “the great reset” annunciato e atteso? Biden si è molto impegnato sull’America Latina nella sua campagna: nuove e meno brutali regole sull’immigrazione (sia quella “indocumentada” già presente negli USA sia quella in arrivo), un programma di investimenti da 4 miliardi di dollari per sostenere lo sviluppo dei paesi del Centro America inesauribili “produttori” di migranti, un fondo internazionale de 20 miliardi di dollari per salvare l’Amazzonia (che ha già fatto infuriare Bolsonaro: “l’Amazzonia è nostra”), la promozione/esportazione di investimenti USA in energie pulite (“posti di lavoro verdi”), lo stop (forse) al “muro della vergogna” (3140 km la lunghezza della frontiera sud, 480 km costruiti negli ultimi 4 anni contro i 1050 che c’erano già avviati a suo tempo dal… democratico Bill Clinton), la “revisione” (forse) dell’oscena raffica di sanzioni re-imposte da Trump a Cuba e il ritorno all’ “appeasement” promosso da Obama nel 2015, la ripresa del multilateralismo, l’allargamento e la “promozione della democrazia” oltre i paesi della “troika della tirannia” per consolidare la stabilità di una regione sconvolta dalla pandemia del covid (più di 550 mila morti) e dalla crisi economica più grave che si ricordi (- 11% nell’ultimo anno, povertà estrema raddoppiata).
Biden ha mandato dei segnali. Non solo con le sue promesse e gli impegni presi ma anche con le nomine che ha fatto e sta facendo.
Un esecutivo che oltre alla numero due, giamaicana di origine, presenta 4 “latinos” (con Trump nessuno per la prima volta in 30 anni), di cui uno nato al Cuba e un altro in Colombia, molto deciso in termini di colore e genere, prevalentemente proveniente dai tempi di Obama, come il segretario di stato Antony Blinken al posto dell’abominevole Mike Pompeo. Interessante, se sarà confermata, anche la nomina del nuovo Assistente Segretario di Stato per l’Emisfero occidentale (il responsabile per l’America latina), l’afro-americano Brian Nichols, diplomatico di carriera e ambasciatore in Zimbabwe che ruppe con Trump dopo aver preso posizione pubblicamente in favore del movimento Black Lives Matter.
Il colore e il genere sono un passo ma bisognerà vedere la sostanza di un esecutivo che cerca in tutta evidenza di proiettare un’immagine progressista ed “etica”. I più critici temono che si tratti solo di misure cosmetiche per adornare di donne, “latinos” e afro-discendenti una compagine “di destra democratica”.
Dopo la catastrofe del covid tornare alla “normalità” pre-Trump non si può, non basta richiamarsi a Obama (che ha respinto o espulso più migranti di Trump), come non basta la difesa formale delle regole democratiche in una regione in cui i democratici hanno una storia di politica emisferica basata sul paradigma neoliberista. Non si può dimenticare, nell’euforia per la sconfitta dell’orribile Trump che gli ultimi golpe in ordine di tempo, golpe blandi ma poi neanche tanto – Manuel Zelaya (Honduras 2009), Fernando Lugo (Paraguay 2012), Dilma Rousseff (Brasile 2016, con annessa campagna giudiziaria anti-Lula politicamente pilotata) sono avvenuti durante il governo progressista di Obama con Hillary Clinton al Dipartimento di stato. Antony Blinken, il suo successore, che ha subito riconosciuto l’auto-nominato e screditatissimo Juan Guaidó quale legittimo presidente anti-Maduro del Veneuzuela, viene dipinto come un “centrista con pulsioni interventiste”.
Si vedrà presto se questo “interventismo” democratico per ripristinare la “centralità” USA in America latina, (parzialmente) compromessa dall’ “isolazionismo” di Trump che ha finito per agevolare l’intromissione nell’area della Cina e perfino della Russia, sarà qualcosa di nuovo e di buono o solo la riproposizione riveduta e aggiornata della vecchia Dottrina Monroe.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto sardo il 10 febbraio 2021