Improvvisamente ai due lati dell’Atlantico e anche in Cina le autorità hanno dato vita a iniziative, o almeno dichiarazioni, per regolamentare lo strapotere dei giganti del web: Google, Facebook, Apple e Amazon. Ma i Gafa preparano la controffensiva con azioni di lobbying.
Sono molti anni che si discute ai due lati dell’Atlantico della necessità di introdurre adeguate forme di controllo sulle imprese digitali, che intanto crescono in dimensioni e potere. Le più grandi tra di esse, tutte statunitensi o cinesi, hanno raggiunto ormai valutazioni in Borsa di dimensioni enormi: la Apple, solo per fare un caso, vale ormai quasi 2.000 miliardi di dollari. Esse sono fonte di problemi crescenti su moltissimi fronti: su quelli della tutela della concorrenza, della gestione dei dati, del controllo dei contenuti, delle questioni fiscali, della dimensione etica delle scelte, del lavoro, infine di quello politico più generale. Per molti in Occidente appare essere in gioco la stessa democrazia.
Negli ultimi mesi, per la verità, è partita all’improvviso e con grande clamore una campagna per interventi decisi, sia in Occidente che in Cina. Ma i giganti del settore hanno tanto denaro e tanti dati a disposizione che, forse, è molto difficile che siano seriamente infastiditi, almeno in Occidente (Livni, 2020). Comunque il quadro appare differente tra un’area e l’altra.
Le autorità cinesi, quali che siano le loro motivazioni, stanno facendo sul serio nel tentativo di porre sotto controllo i grandi gruppi digitali e si stanno muovendo con grande rapidità e decisione nell’esecuzione, forse fin troppo.
Le situazione per quanto riguarda gli Stati Uniti e l’UE appare differente e un recente articolo apparso su The Economist, aveva a questo proposito il significativo titolo di “credibility gap” (The Economist, 2020). Certo, non si può mettere in dubbio la serietà delle intenzioni di molti politici dai due lati dell’Atlantico, ma il problema è che con il tipo di processi decisionali oggi in campo e con la forza delle corporation interessate non sembra probabile che si possa arrivare a un risultato accettabile e in tempi brevi.
La necessità e l’urgenza di un intervento pubblico viene rimarcata in queste settimane dalla decisione di Twitter, Facebook e altri social di bloccare i siti utilizzati da Trump per parlare alle decine di milioni di suoi seguaci. La stessa cosa è avvenuta più di recente al sito dell’ambasciata cinese a Washington. Come risultato di tali mosse le grandi imprese del digitale, insieme alle altre che più in generale hanno ritirato il loro sostegno al trumpismo, vengono ora salutate come le guardiane della democrazia. Ma per anni le grandi imprese hanno assaltato la stessa democrazia con i loro soldi, mettendo sotto silenzio la voce e i bisogni della gente comune e alimentando la rabbia e il cinismo che ha aperto la porta a Trump (Reich, 2021). In sostanza, ci si accorge soltanto ora che è stato lasciato a privati il diritto di dare o togliere a piacimento la parola. Per altro verso, dove erano le stesse organizzazioni negli ultimi quattro anni quando Trump impazzava a piacimento? E dove sono le parallele normative in proposito dell’Unione europea?
Di cosa si tratta in concreto
Sulla base di un generico consenso dei Democratici e anche dei Repubblicani, le autorità federali Usa hanno cominciato ad investigare Amazon, Facebook, Apple, Google già nel giugno 2019 e poco dopo hanno iniziato a farlo anche i singoli Stati. I casi contro Google e Facebook hanno preso consistenza prima degli altri. Così la prima società si trova di fronte ad un’iniziativa antitrust avviata da 38 Stati e dal Dipartimento di Giustizia federale per abuso di posizione monopolistica. Si attende anche una seconda azione contro la stessa azienda.
Una seconda doppia iniziativa (presa da 48 Stati e dalla Federal Trade Commission) minaccia Facebook di nuovo per pratiche monopolistiche. L’azienda viene accusata, tra l’altro, di un atteggiamento buy or bury rivolto ai suoi rivali (in sostanza imponendo loro di essere acquistati o di sottostare altrimenti alla minaccia di essere distrutti). Si progettano dei rimedi per questa situazione, compresa la possibilità di obbligare la società a vendere le consociate WhatsApp e Instagram, prevedendo anche il blocco delle attività in mancanza di una autorizzazione preventiva per nuove acquisizioni.
Va sottolineato che il mercato finanziario ha reagito con sostanziale indifferenza alle azioni delle autorità, evidentemente credendoci poco.
Intanto anche in Gran Bretagna si prepara una nuova legislazione antitrust attraverso la creazione di una Digital Market Unit, nella forma di una task force all’interno della Competition and Markets Authority. Dovrà giudicare caso per caso se una qualche impresa tech di livello strategico (aziende, cioè, con una presenza dominante nei mercati digitali) possieda un potere di mercato molto importante almeno in una delle sue attività; in quel caso sarà soggetta a penalità e regolamentazioni.
Nell’UE, “internet non può restare un far west”, afferma uno dei commissari di Bruxelles, Thierry Breton. Partendo dall’assunto che le normative antitrust del continente sono inadeguate e comunque dall’applicazione troppo lenta, si preparano due progetti per ridimensionare il potere digitale, in particolare quello delle imprese molto grandi con più di 45 milioni di utenti e presenti in almeno tre Paesi membri), il Digital Market Act e il Digital Services Act.
Il primo tende a bloccare le pratiche anticoncorrenziali e l’abuso di posizione dominante, mentre il secondo mira a obbligare le piattaforme sociali a prendersi maggiori responsabilità per i contenuti da loro ospitati. Verranno anche fissate regole più chiare in tema di trasparenza e di disinformazione. Ogni impresa dovrà nominare un responsabile che si occupi di osservare le regole statuite, che sono mirate ai gruppi più grandi.
L’UE e la GB prevedono penalità sino al 10% del fatturato annuale globale per chi viola le regole sulla concorrenza e al 6% per la mancata rimozione dei contenuti illegali e, in caso di recidiva, lo smembramento delle imprese.
Intanto in Cina negli ultimi mesi sono cambiate fortemente le linee guida per quanto riguarda il trattamento del settore. La prima e più eclatante mossa delle autorità è stata quella di bloccare la quotazione in Borsa della filiale finanziaria di Alibaba – Ant Financial – aprendo un’indagine antimonopolistica nei confronti del gruppo. Sono in corso di definizione, poi, norme più generali contro i monopoli nel settore digitale. L’amministrazione ha di seguito sanzionato Alibaba e Tencent, le due fintech più grandi del mondo, per aver fatto acquisizioni che non rispettavano tali regole. Le nuove norme mirano a bloccare le pratiche monopolistiche, a proteggere la concorrenza e a salvaguardare gli interessi dei consumatori. Nelle prossime settimane dovrebbero essere pubblicate le linee guida di tale disegno.
Nel frattempo la banca centrale cinese ha varato nuove regole provvisorie per rendere più severa la supervisione delle organizzazioni che raccolgono informazioni sui cittadini e sulle imprese. Per quanto riguarda l’attività finanziaria, le tech non potranno più agire come semplici procacciatrici di operazioni di finanziamento ai clienti per conto delle banche ordinarie, ma dovranno trattenere presso di sé una parte consistente del rischio e aumentare il livello dei mezzi propri per far fronte a tali rischi. Dovranno, più in generale, seguire le stesse regole delle banche per l’identico tipo di operazioni. Ant ha dovuto poi rimuovere i prodotti di deposito di molte banche regionali che giravano sulla sua piattaforma.
Nuove regole sono state anche fissate per le assicurazioni on-line. Infine si discute su come tassare le imprese del settore, che sembrano ormai rappresentare circa un terzo dell’intera economia del Paese.
Va sottolineato che i provvedimenti cinesi, oltre agli obiettivi comuni a quelli ipotizzati in Occidente, si possono anche inquadrare in un più generale e recente disegno in atto, volto da una parte a rafforzare la presenza delle imprese pubbliche, dall’altra a mettere l’economia maggiormente sotto il controllo della politica.
Le difficoltà della regolamentazione
Varare regole più stringenti per le imprese tech nel mondo occidentale appare comunque un compito arduo.
Nel caso statunitense la possibilità che passi una legge abbastanza dura si scontra con le contrapposizioni presenti al Congresso anche all’interno del partito democratico e con il fatto che per molti politici l’avere delle imprese Usa dominanti appare un vantaggio strategico nei confronti della Cina.
E’ difficile poi dimostrare in tribunale che le imprese tech non hanno rispettato qualche legge; i procedimenti durano molti anni e un giudice in uno dei procedimenti antitrust in atto contro Google ha affermato che il caso arriverà alla corte per il dibattimento solo nel tardo 2023 e che potrebbe durare molti altri anni (Naughton, 2021).
Le cose non dovrebbero andare in misura molto diversa in Europa; in ogni caso appare impensabile che da solo il nostro continente possa decidere di frammentare i grandi gruppi, mentre bisogna anche considerare l’azione delle lobby e di nuovo i tempi biblici delle procedure.
Le misure previste sono alla fine abbastanza blande e lo spezzatino dei grandi gruppi è considerato solo come ultima, lontana, ratio. Più in generale, la proposta appare troppo flessibile per quanto riguarda l’applicazione delle sanzioni.
Ci vorranno in Europa almeno due anni di lotte politiche e di dibattiti nel Parlamento, nel Consiglio e tra i 27 paesi dell’Unione, per arrivare ad un testo definitivo. Ci si chiede quale sarà la reazione dell’Irlanda, sede europea di molti giganti statunitensi o anche quella dell’Olanda. Nel frattempo i gruppi avranno tutto il tempo di crescere ancora a dismisura e diventare più potenti.
Su di un altro piano, un articolo del New York Times (Vogel, Lipton, 2021) mette in rilievo come membri eminenti del nuovo governo statunitense, da Janet L. Yellen, la segretaria al Tesoro, a Anthony J. Blinken, segretario di Stato, a Avril Haines, direttore dello spionaggio, abbiano negli ultimi anni tenuto conferenze e consulenze molto ben pagate per le banche di Wall Street, per le imprese del Big Tech e per altri gruppi.
La vice-presidente eletta, Kamala Harris, quando era procuratore generale della California, ha chiuso un occhio di fronte alle acquisizioni anti competitive dei giganti della Silicon Valley (Naughton, 2021). Le nuove équipes di Biden e della Harris comprendono diversi veterani di questa parte della California divenuta paradiso e centro nevralgico della ricerca e delle imprese high-tech.
Più in generale, da anni si ha la sensazione che i democratici siano troppo vicini al settore delle imprese tech.
Su di un altro piano, l’apertura dei procedimenti contro Google e Facebook e quelli che si intravedono contro altri protagonisti della scena sono il risultato di un nuovo movimento di studiosi e avvocati di orientamento antimonopolistico. Ma per gran parte della vecchia scuola dominante di esperti antitrust, l’entusiasmo appare molto minore e si pensa al massimo ad interventi di tono moderato (Stoller, Sussman, 2020).
Come sabotare i controlli
Un articolo di Satariano e Steiss-Gridneff (Satariano, Steiss-Gridneff, 2020) ci aiuta a ricordare come i gruppi Usa operano per influenzare il dibattito, disponendo tra l’altro di moltissimo denaro a tale fine.
Un documento uscito fuori per caso indica quali sono le mosse progettate da Google per sabotare i tentativi di regolamentazione dell’UE. Si cercherebbe di arruolare funzionari Usa che vogliano contrastare la politica europea; poi degli accademici solleverebbero questioni “scientifiche” sul progetto, mentre Google cercherebbe di erodere il sostegno alle nuove norme dentro la stessa Commissione.
Le aziende Usa assumono così ex funzionari governativi europei, utilizzano uffici legali ben introdotti, finanziano dozzine di associazioni di settore e di think-tank, creano posizioni accademiche nelle migliori università e aiutano a pubblicare ricerche favorevoli. Fanno centinaia di incontri con parlamentari e funzionari della Commissione.
Nell’ottobre del 2020 è emerso un altro documento segreto di Google che rivelava come la società stesse programmando una campagna aggressiva contro il commissario della UE Breton, che aveva dichiarato qualche tempo prima che sarebbe stato favorevole a spezzare in diverse parti le società del tech in circostanze estreme.
-le controdeduzioni
Le imprese del settore tendono a suggerire che le proposte delle autorità ai due lati dell’Atlantico danneggerebbero l’innovazione, rendendo più difficile lo sviluppo dei nuovi prodotti, portando più in generale danni all’economia. Le nuove norme non dovrebbero essere approvate nella UE prima del 2022, come già ricordato, dando tempo alle imprese Usa di svolgere il loro lavoro di sabotaggio. D’altro canto una procedura aperta nel 2010 contro Google è ancora in fase di appello (Piquard, 2020).
Per altro i Gafa (dalle iniziali del quattro Big Tech: Google, Facebook, Apple e Amazon) assicurano che si fanno molta concorrenza tra di loro e che devono combattere sul mercato con diversi nuovi entranti, quali Tik Tok, Zoom, Spotify. Affermano di innovare a beneficio dei consumatori. Non si dichiarano contrari alla regolamentazione, ma affermano sia necessario che sia “equilibrata”.
Facebook ha ricordato come il governo a suo tempo abbia autorizzato l’acquisto di Instagram e WhatsApp sostenendo che un’inversione di rotta ora provocherebbe grande incertezza nel mondo delle imprese. L’azienda di Mark Zuckerberg sottolinea inoltre come Instagram e WhatsApp siano diventati prodotti di grandissimo successo proprio grazie al fatto che Facebook vi abbia investito miliardi di dollari e grazie al lavoro incessante di anni ed anni. Afferma che i consumatori scelgono Facebook per la qualità della sua offerta, non certo per la mancanza di concorrenza. Intanto l’azienda sta accelerando l’integrazione tra le varie piattaforme per rendere più arduo un eventuale break-up.
Conclusioni
Nessuno si aspettava una così improvvisa e decisa attenzione verso le tematiche del controllo delle grandi imprese digitali, tra l’altro contemporaneamente in Europa, compresa la Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Cina. Questa volta sembra che si stia prendendo la cosa in maniera abbastanza seria, almeno da parte di alcuni attori.
Ma, mentre nel caso della Cina, le azioni del governo hanno già portato a risultati quasi immediati e di rilevante peso e altre ne stanno per seguire a breve, per quanto riguarda l’Occidente il quadro appare molto più complicato. Ci troviamo di fronte a incertezze politiche, lungaggini delle procedure, attività di lobbying da parte delle imprese interessate. Si può così pensare che l’azione possa durare molti anni e magari perdersi, almeno in parte, per strada. In ogni caso sembra che l’Europa sia in qualche modo più rapida e decisa nelle sue eventuali azioni. Anche se le proposte europee appaiono insufficienti.
Motivo di qualche speranza è il fatto che la Germania, per frenare in qualche modo le voglie dei grandi del fintech, abbia già varato nei giorni scorsi, supportata da un largo schieramento parlamentare, una legge sulla concorrenza; così l’antitrust tedesco avrà più poteri di indagine sulle aziende, mentre i procedimenti relativi verranno accelerati.
Un altro segnale incoraggiante è rappresentato dal fatto che Ursula von der Layen, parlando il 26 gennaio nell’ambito dell’incontro di Davos, abbia sollecitato gli Stati Uniti ad unirsi agli sforzi dell’UE per “contenere l’immenso potere” del Big tech, mentre per quanto riguarda gli Usa, secondo alcuni parlamentari del Paese, l’attacco a Capitol Hill ha prodotto un supporto più forte per una regolamentazione più dura del settore.
Alla fine speriamo che, contro venti e maree, qualcosa di importante venga veramente messa in opera nei prossimi mesi e anni, pur nutrendo qualche dubbio in proposito.
Testi citati nell’articolo
-Livni E., How Washington and Silicon Valley agree to disagree on taming big tech, www.nytimes.com, 10 dicembre 2020
-Naughton J., All I want for 2021 is to see Mark Zuckerberg up in court, www.theguardian.com, 2 gennaio 2021
-Piquard A., Peut-on domestiquer les GAFA ?, Le Monde, 8 dicembre 2020
-Reich R., Don’t believe the anti-Trump hype – corporate sedition still endangers America, www.theguardian.com, 24 gennaio 2021
-Satariano A., Steviss-Gridneff M., Big tech turns its lobbyists loose on Europe, alarming regulators, www.nytimes.com, 14 dicembre 2020
-Stoller M., Sussman S., The US government wants to break up Facebook. Good-it’s long overdue, www.theguardian.com, 11 dicembre 2020
-The Economist, Credibility gap, 19 dicembre 2020
-Vogel K. P., Lipton E., Washington has been lucrative for some on Biden’s team, www.nytimes.com, 1 gennaio 2021
Questo articolo è stato pubblicato su Sbilanciamoci il 28 gennaio 2021