Proposte per una legislazione “di ripartenza”

di Piergiovanni Alleva /
5 Febbraio 2021 /

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1. INIZIATIVE LEGISLATIVE IN VISTA DELLA CESSAZIONE DEL BLOCCO DEI LICENZIAMENTI

È largamente diffusa la consapevolezza della necessità di un intervento normativo adeguato, che marchi il passaggio dalla fase più acuta dell’emergenza socio-sanitaria a quella di una progressiva ripresa, di una “ripartenza” del sistema produttivo, ma anche delle condizioni di vita e di lavoro.

Non vi sono, però, idee abbastanza chiare, o abbastanza condivise sul “dopo” della fase acuta, sul “che fare” al momento in cui dovrà essere tolta l’”ingessatura” che ha assistito la parte preponderante del nostro corpo sociale nelle ore più buie, ossia il binomio “divieto di licenziamento-CIG per tutti”.

L’operatività di questo binomio è stata prorogata più volte e consente ancora alcuni mesi di riflessione e preparazione (30 aprile o anche più oltre) ma già si intravede l’alternativa politico-giuridica tra:

  1. un semplice progressivo ritorno allo stato “quo ante” attraverso la cessazione progressiva e differenziata del “blocco” dei licenziamenti per settore economico-produttivo diverso;
  2. una nuova disciplina degli esuberi del personale, degli ammortizzatori sociali e della politica attiva del lavoro.

La prima direzione, propugnata dalle organizzazioni datoriali e dalle forze politiche conservatrici, non può, però, in alcun modo scongiurare quello che, per loro, è un evento normale in situazioni di crisi, ma che questa volta costituirebbe, invece, un trauma sociale insopportabile: il licenziamento di almeno 1 milione di lavoratori attualmente “stabili”, che si aggiungerebbe alla già in gran parte avvenuta espulsione dei lavoratori precari di varia tipologia. In effetti pur in regime di blocco dei licenziamenti l’occupazione è già diminuita di almeno 400.000 unità con riferimento a tutti i rapporti di lavoro precario diversi da quello a tempo indeterminato.

Per di più al trauma sociale si accompagnerebbe un costo finanziario altissimo: un milione di licenziamenti significa un un milione di indennità di disoccupazione “NASpI” da pagare per un periodo lungo fino a 24 mesi: sarebbero non meno € 12 miliardi all’anno, e probabilmente, quindi 20 miliardi in complesso.

Nè vi è da sperare in una fruizione meno lunga della NASpI da parte dei licenziati, perchè, come regola sociologica, i licenziati in operazioni massicce di esubero, sono lavoratori ormai ai margini del mercato che, lasciati a se stessi, sfruttano l’ammortizzatore “risarcitorio” (la NASpI) fino in fondo salvo, poi, cadere nella disperazione dopo la sua fine.

La conclusione desolante del “ritorno” alla “normale” disciplina legislativa dei licenziamenti sarebbe, dunque, quella di pagare un altissimo prezzo finanziario per aver comunque un trauma sociale gravissimo e una “guerra civile in casa”.

La direzione giusta è l’altra (quella indicata sub B) che deve far leva, anzitutto, su una riforma, piccola ma essenziale e del tutto matura delle regole legali in tema di esuberi di personale ovvero di licenziamenti collettivi: si tratta di prevedere espressamente e consolidare, con una modifica all’art. 4, l. 223/1991 (Legge sulle riduzioni di personale), il c.d. “principio di prevenzione”, in forza del quale il datore non può intimare i licenziamenti collettivi o per motivo oggettivo se non dopo aver utilizzato o cercato di utilizzare in buona fede, gli “ammortizzatori conservativi”, consistenti, fino ad ora, anzitutto nelle varie tipologie di integrazione salariale.

Il “principio di prevenzione” è già stato espressamente adottato dal legislatore con l’art. 14 del d.l. 104/2020 quando ha sancito il divieto di licenziamento fino a che non sia stata utilizzata la CIG Covid-19: si tratta, dunque, di riprendere e consolidare tale regola anche nell’epoca “post- Covid 19” nella legislazione ordinaria e la “sedes materiae” è, appunto, l’art. 4, l. 223/1991.

Qui, però, occorrerebbe inserire importanti specifiche di queste decisive novità: specificare, cioè, quali debbano essere i “gradini” da percorrere progressivamente prima di poter arrivare legittimamente alla fine della scala ed al licenziamento. “Gradini” costituiti, come si comprende, da vari tipi di ammortizzatori sociali, vecchi e nuovi.

Secondo il nostro avviso e la nostra proposta, il primo gradino, il più importante, deve essere costituito dai contratti aziendali di solidarietà difensiva, ossia da riduzione di orario (settimanale) generalizzato a tutti i lavoratori, onde abbassare il monte-ore lavorativo alla quantità effettivamente utilizzabile per il livello di domanda produttiva, con compensazione salariale, a carico della Previdenza o dell’Erario, per indennizzo ad ogni lavoratore delle ore lavorative perdute.

Si stima che l’esubero di personale causato dalla pandemia possa riguardare 1 milione di lavoratori: basterebbe allora ridurre da cinque a quattro giornate lavorative settimanali l’orario di lavoro settimanale di 5 milioni di lavoratori per eliminare completamente l’esubero, evitando ogni licenziamento ed ogni trauma sociale.

Ed il costo finanziario? Sarebbe, teoricamente, lo stesso costo della NASpI pagata in conseguenza dei licenziamenti, cioè di circa € 15 miliardi all’anno, trattandosi di compensare 5 milioni di lavoratori di una perdita pari al 20% della retribuzione.

Ma praticamente sarebbe più basso, ed anche di molto, perchè l’esperienza insegna, che quando un settore produttivo è in ripresa, questa avviene già nel primo anno di durata di un contratto di solidarietà difensiva. L’ammortizzatore “conservativo” dura poco in fase di ripresa produttiva, mentre quello “risarcitorio”, riguardando individui lavorativamente “fragili” dura comunque molto.

Niente vieta di pensare che, anche quando sia ritornato normale il livello della domanda, la riduzione dell’orario settimanale da cinque a quattro giornate possa essere “cristallizzato”, trasformando i contratti di solidarietà difensiva in contratti di solidarietà espansiva.

È questa la linea del sindacato tedesco (e del partito socialdemocratico tedesco), che ha coniato lo slogan della “settimana di quattro giorni” (Vier Tage Woche) da perseguirsi prima, in fase di pandemia, attraverso accordi sindacali di “Kurzarbeit”, che sono l’equivalente del nostro contratto di solidarietà difensivo, e poi con la conferma in via stabile della riduzione dell’orario.

Allo scopo può servire- occorre ricordarlo- il Fondo SURE: si tratta di un fondo che eroga prestiti a lunga scadenza e quasi senza interessi proprio per sostenere l’occupazione e/o il reddito durante la pandemia: e al SURE l’Italia dovrebbe con ogni probabilità ricorrere per pagare la NASpI al milione di licenziati, ed allora è certo meglio che vi ricorra per non licenziare nessuno e ridurre- con indennizzazione economica- l’orario settimanale a tutti.

Sotto questo primo gradino, costituito dai contratti di solidarietà con riduzione della settimana lavorativa si colloca quello successivo consistente in una nuova disciplina delle integrazioni salariali.

Il sistema attuale della CIG è il frutto di una sorta di “stratificazione geologica”, che ha visto sommarsi e sovrapporsi vari tipi di integrazione salariale con diverse caratteristiche, durata, procedure di concessione ecc.

Il grande progresso portato dalla pandemia è stato l’affermarsi del necessario carattere universale di questo ammortizzatore sociale, che nella sua attuale fisionomia “Covid-19” si applica anche ai lavoratori di imprese con un solo dipendente.

E da questo “universalismo” non sarà né facile né consentito tornare indietro, ma, certamente, molto occorrerà riflettere sulle diverse finalizzazoni e relative discipline.

Quello che qui serve notare è che, anche se rese universali, le integrazioni salariali costituiscono comunque una “seconda scelta” rispetto al contratto di solidarietà, e per un motivo preciso: perchè sono, strutturalmente, ad azionamento unilaterale da parte del datore di lavoro (pur potendosi- ma non dovendosi- nella pratica essere negoziate con il sindacato) laddove il

contratto di solidarietà, è, appunto un accordo aziendale. Pertanto il ricorso alle integrazioni salariali da parte del datore può prestarsi ad abusi ed obiettive ingiustizie, quali l’emarginazione con collocamento “ad ore zero” di lavoratori svantaggiati e di fatto discriminati.

Dunque, in osservanza del principio di “prevenzione” tra gli ammortizzatori sociali il datore, per poter procedere lui a collocamento in CIG con differenziazione tra i lavoratori, dovrà anzitutto dimostrare che non era possibile né utile ricorrere a contratti di solidarietà.

Poi, però, dovrà sempre preferire il collocamento in CIG a misure espulsive dei lavoratori esuberanti, ossia di licenziamenti, cui pertanto potrà ricorrere quando l’integrazione salariale sia esaurita o sia stata negata per qualche motivo fondato dall’ente erogatore.

Si può ritenere, tuttavia, che possa vantaggiosamente essere introdotto un ulteriore “scalino”, nel percorso in discesa verso il licenziamento, e cioè che possa, come “ultima spiaggia” essere riconosciuto al lavoratore di entrare in “disponibilità”, ossia di evitare il licenziamento entrando in una aspettativa non retribuita dal datore di lavoro, ma dall’Ente erogatore della NASpI.

La NASpI, ammortizzatore di tipo risarcitorio (indennità di disoccupazione) diverrebbe istituto bifronte, o, se si vuole a “geometria variabile”, nel senso che il lavoratore potrebbe “consumare” la sua durata (da portare, allora, a 30 mesi nel quinquennio) o come indennizzo di disoccupazione, a rapporto lavorativo risolto, o come indennità di aspettativa o di “disponibilità” lasciando il rapporto di lavoro vigente, seppur in stato di quiescenza.

Con quale vantaggio? Con il vantaggio- importantissimo- che in caso di ripresa produttiva di quell’impresa, il lavoratore avrà sicuramente il diritto di riprendere la prestazione lavorativa, prima che il datore possa servirsi di nuovi assunti.

Si tratterebbe di una situazione molto più forte di quella, ora prevista dalla legge, di un diritto di preferenza per una assunzione “ex novo”, nei sei  mesi successivi al licenziamento: un “diritto” che ha sempre funzionato poco, una volta risolto il legame tra il lavoratore e l’impresa.

L’utilità sarebbe massima proprio in circostanze come quelle attuali, in cui si tende ad una ripresa dopo aver, per così dire, toccato il fondo: molti esercizi pubblici, ad esempio, bar, ristoranti ecc, proveranno a riaprire, passata l’epidemia, dopo esser rimasti chiusi. A quel punto sarà per il lavoratore, che nel frattempo ha goduto della “NASpI-bifronte”, molto importante, ed anche decisivo, essere ancora dipendente di quell’esercizio e poter quindi pretendere la riammissione in servizio.

I trattamenti di disponibilità potrebbero esser previsti dalla legge o dalla legge demandate alla contrattazione collettiva, così da configurare, in definitiva una “dote” individuale di ammortizzatori sociali riconosciuti al lavoratore e da lui governabili. Fino ad ora, invece, è sempre l’impresa ad azionare gli ammortizzatori, che il lavoratore subisce (pur fruendone).

Sono opportune, o necessarie, almeno due considerazioni finali. La prima è che la riforma proposta dell’art. 4, l. 223/1991 che introduce un vero e proprio procedimento sostanziale e non solo formale per il licenziamento per riduzione del personale, configura, ovviamente, delle illegittimità quando uno dei “gradini” sia ingiustificatamente saltato o ignorato dal datore procedente.

Questo rende fortissima l’opzione verso i contratti di solidarietà difensiva, perchè se il datore vorrà ignorare questa prima opzione, rifiutando, ad esempio, di trattare con il sindacato il contratto di solidarietà, renderà illegittima, con questa violazione, la continuazione del procedimento di licenziamento collettivo ed il licenziamento stesso. Proprio per questo, però, è ora di ritornare sulla previsione (pessima) del d.lgs. 23/2015 (art.10) che ha eliminato, per i licenziamenti collettivi di lavoratori assunti successivamente alla sua entrata in vigore, la possibilità della reintegra, limitando la sanzione al risarcimento.

La reintegra va reintrodotta per molti motivi (anche per la disparità di trattamento con i vecchi assunti), ma un motivo importantissimo sarebbe, appunto, quello di rendere davvero stringente la necessità del pieno rispetto del canone di “prevenzione” tra ammortizzatori sociali.

L’altra considerazione riguarda la prospettiva futura, una volta superata la fase di “ripartenza” dopo la epidemia, ed essa consiste nella trasformazione dei contratti di solidarietà difensiva in contratti di solidarietà espansiva ed, infine, nella riduzione generalizzata a 4 giornate per 30-32 ore dell’orario settimanale.

Si tratterebbe di una di quelle “accelerazioni” del progresso che tradizionalmente accompagnano guerre, sconvolgimenti, danni epocali e si moltiplicano le iniziative, come la proposta ex art. 122 Costituzione avanzata al Parlamento dalla Regione Emilia-Romagna.

In verità, dal punto di vista tecnico-giuridico la soluzione è a portata di mano, come si evince da detta ultima proposta: bastrerebbe mettere all’ordine del giorno questa tematica in sede di discussione parlamentare sulla revisione del cuneo fiscale nei rapporti di lavoro, e destinare le risorse così rese disponibili allo scopo, nobilissimo, di eliminare la disoccupazione, e di farlo con la collaborazione ed il coinvolgimento delle parti sociali.

2.  PER UNA RIPRESA PRODUTTIVA ESENTE DA INFILTRAZIONI CRIMINALI E SFRUTTAMENTO

Il maggiore e più urgente problema è quindi quello di evitare, alla scadenza del “blocco” dei licenziamenti un insopportabile trauma sociale ed occupazionale, ma subito dopo viene quello di garantire una ripresa produttiva rapida, potentemente incentivata, efficace ma esente dal pericolo di aumento dello sfruttamento, del precariato delll’infiltrazione mafiosa e criminale.

Il pericolo esiste e si comprende facilmente: per una rapida ripresa occorrono forti investimenti, anche in opere e infrastrutture, e questo significherà, inevitabilmente moltiplicare gli appalti e la suddivisione del lavoro e delle commesse, e, per di più, in un clima di allentamento dei controlli preventivi, motivato da ragioni, discutibili ma non infondate, di accelerazione delle procedure e realizzazioni.

Diventa, allora, necessario un intervento normativo snello ma incisivo, di precisione chirurgica, che porti finalmente razionalità e garanzie nello svolgimento di prestazioni lavorative in regime di appalto, che ponga riparo ai guasti prodotti, in materia dal d.lgs. 276/2003 (Art. 29) e dalla abolizione della storica l. 1369/1960.

Ci si riferisce, in primo luogo, alla eliminazione del “caporalato in guanti gialli”, che è quello che utilizza appalti di mera manodopera, ora nobilitati formalmente con l’etichetta anglosassone “labour intensive”, ma che rimandano per lo più alla costituzione di improbabili imprese appaltatrici prive di capitale e attrezzature ( o che usano quelle del committente o dal committente fornite) e che somministrano solo lavoratori, avendo cura peraltro di curarne la gestione e direzione nello svolgimento della prestazione, comunque gravemente sottoremunerata e priva di standard di sicurezza.

Occorre, pertanto, mettere sotto controllo gli appalti di mera manodopera, consentendoli solo ove l’insieme dei lavoratori dell’impresa appaltatrice svolga prestazioni di non comune professionalità.

Per altro verso, però, visto che a questi appalti “labour intensive” il committente ricorre per procurarsi manodopera a costi fortemente ribassati, la riforma fondamentale e semplicissima è quella di reintrodurre una regola di parità di trattamento tra dipendenti del committente e quelli dell’appaltatore, perchè questa regola, già prevista dall’art. 13, l. 1369/1960, opererebbe una selezione automatica tra appalti “buoni”, dettati da ragioni di specializzazione produttiva e appalti “cattivi” ovvero di sfruttamento e sottosalario, che non avrebbero più motivo di esistere, perchè il committente dovendo sostenere sempre il medesimo costo del lavoro, affiderebbe appalti solo per effettive esigenze di specializzazione.

Fortunatamente è già stato presentato ed è all’esame del Parlamento un progetto di legge, il n. 1423/2018 (On. Costanzo), che introduce le due fondamentali previsioni normative ora ricordate, e sarebbe suscettibile di rapida approvazione.

Lo stesso progetto affronta anche il tema specifico delle cooperative (false o spurie), ossia cooperative di lavoro che sono lo strumento con cui vengono per lo più realizzati gli appalti di mera manodopera per sfruttamento e sottoremunerazione dei lavoratori.

Non può esser sottaciuto che le cooperative “spurie” finalizzate allo sfruttamento tramite pseudo-appalti hanno addirittura superato numericamente quelle genuine, iscritte alle tre principali centrali cooperative, e completamente deturpato, presso i lavoratori e l’opinione pubblica l’immagine e gli stessi ideali della cooperazione. Il ricordato progetto contiene tutte le garanzie e modifiche normative per eliminare le cooperative “spurie” o renderle comunque innocue.

La salvaguardia ed il rilancio dell’occupazione- ma di una occupazione buona e di qualità- passa dunque, nell’immediato per la realizzazione, che può avvenire in tempi rapidissimi dei due interventi normativi oggetto di questa nota.

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