I cittadini che votarono per la riduzione del numero dei Parlamentari erano sicuri che, subito, sarebbe stata cambiata la legge elettorale. Ora, senza che sia stato fatto nulla, qualcuno parla di elezioni anticipate! E la rappresentanza?
La rappresentanza politica è il cardine di un sistema democratico, il meccanismo di collegamento fra elettori e istituzioni, uno dei modi, il principale, in cui il popolo esercita la sovranità che gli “appartiene”( art. 1). La legge elettorale deve essere in armonia col pluralismo, fondamentale principio della la Costituzione, per consentire a diverse forze di esprimersi rappresentando i diversi orientamenti e le diverse istanze del corpo sociale rendendo loro possibile l’accesso alle istituzioni; non certo deve essere usata, invece, per sbarrare l’accesso alle istanze minoritarie.
L’obiettivo di fondo dell’introduzione del sistema maggioritario negli anni 90, o di sistemi elettorali simili, è chiaro: il costo della partecipazione democratica era troppo alto, i bisogni che si affacciavano alle istituzioni erano troppo numerosi per poterli soddisfare senza nulla togliere alle posizioni consolidate. Era dunque essenziale ridurre le domande provenienti dalla società e il modo più efficace era ridurre i canali di trasmissione delle domande, in primo luogo ridurre il numero partiti: il sogno è il bipartitismo. Così alcuni interessi sono rimasti senza voce, altri -debolmente rappresentati- sono rimasti senza forza contrattuale. Il sistema intero si è riorientato verso posizioni decisamente moderate. Affinché l’alternanza sia realizzabile, entrambi gli schieramenti devono alleggerire i programmi, smorzare i toni e adeguare le proposte agli orientamenti degli incerti, che, spostando il loro voto, rendono possibile il succedersi di una forza politica all’altra nel governo del paese. Intendendo la ‘democrazia maggioritaria’ come orientata a che “l’indirizzo premiato dal voto popolare non trovi ostacoli istituzionali alla sua più completa attuazione “ (Barbera e Fusaro), si torna in definitiva all’idea dell’unicità e concentrazione del potere, in aperto contrasto con i principi dello stato di diritto .
La rappresentanza politica è un concetto complesso, ha due facce: la rappresentanza come rapporto che lega il rappresentante ai rappresentati e la rappresentanza come situazione rappresentativa, come posizione di potere del soggetto che, essendo il rappresentante, viene inserito nelle strutture istituzionali ed è investito di poteri propri. Certamente l’equilibrio tra le due facce non è semplice; l’unica cosa sicura è che la rappresentanza democratica non può cancellare il rapporto. Possiamo ammettere un potere esercitato da qualcuno in una posizione che lo stacca totalmente da coloro che lo hanno eletto?
La necessità di dare qualche sostanza al legame fra elettori ed eletti si è presentata con maggiore o minore intensità nelle diverse fasi storiche, nei momenti in cui qualcosa stava cambiando nelle istituzioni o nella società, ad esempio quando diventano consistenti i partiti politici e si trattava di inserire un soggetto nuovo – il partito – tra i cittadini e i suoi rappresentanti. Effettivamente il partito è stato (perché ora la crisi dei partiti ci mette di nuovo nella necessità di ripensare i concetti) il modo in cui siamo riusciti a ridare un senso alla rappresentanza e anche della responsabilità che necessariamente vanno insieme. In qualche modo il rappresentante deve rispondere ai propri elettori. Allora, senza spezzare il legame con gli elettori, senza negare la responsabilità, il partito ha giocato un ruolo di intermediazione; è stato il modo per dare una certa consistenza al vincolo perché l’elettore votava il candidato in quanto collocato in un determinato partito, e il candidato, se eletto, rispondeva almeno al partito se non ai propri elettori. Quindi il partito aveva assunto una funzione di mediazione; potevano esistere scollamenti tra le attese degli elettori e il programma concretamente portato avanti dai loro rappresentanti. Ma non potevano essere scollamenti assoluti perché il partito per molti anni ha rappresentato un momento di aggregazione ideologica: se l’elettore non poteva sapere quali posizioni il partito e le persone elette al suo interno avrebbero preso su singoli punti, aveva comunque un asse che gli consentiva di comprendere quale orientamento avrebbe preso ciascuno dei partiti presenti sulla scena politica. Il cittadino poteva votare pensando che quel partito rappresentava idee, programmi, una certa visione del sociale, della vita collettiva. I partiti hanno risolto molti problemi finché ci sono stati ma hanno anche creato dei problemi nel momento in cui si sono rafforzati; inizialmente la dottrina si è interrogata sulle trasformazioni che la rappresentanza subiva in conseguenza di questo affermarsi forte dei partiti verso i quali l’eletto sicuramente era responsabile. Problemi e interrogativi hanno accompagnato ogni fase storica in ogni paese. Ma una diversa questione che ha interessato in particolare l’Italia è emersa col fascismo.
E’ molto interessante la lettura degli scritti di quel periodo, perché dimostrano lo sforzo evidente di depurare il concetto di rappresentanza dall’idea del rapporto rappresentativo. Il rapporto rappresentativo sparisce: la rappresentanza è di quei soggetti che sono rappresentanti in quanto inseriti nelle istituzioni, esercitano un ruolo e hanno una posizione di potere. Non è il collegamento col momento elettorale che conta, ma solo le norme che li investono di questo potere . Chiamarli rappresentanti è molto difficile; nel periodo fascista si parla ormai in modo deciso di rappresentanza istituzionale non più di rappresentanza politica. In questa prospettiva tutti gli organi dello Stato, il re, il capo del governo, il senato, la Camera, sono organi rappresentativi, istituzioni rappresentative. Il discorso del rapporto rappresentativo è totalmente cancellato. In un sistema di tipo autoritario non c’è spazio per il rapporto rappresentativo e ciò conferma che in un sistema democratico il rapporto rappresentativo è il punto cruciale. Fondamentale è infatti come e soprattutto chi ha investito il rappresentante del suo ruolo; scollegare gli eletti dagli elettori porta a spostare completamente l’asse dalla parte del potere.
Non tutti possono rappresentare tutti in nome dell’ ”interesse generale” che, o è il frutto di una sintesi politica di interessi divergenti o è soltanto una pericolosa astrazione. Quello che presenta la realtà sono interessi in conflitto. Interessi che devono tutti trovare voce nelle istituzioni per consentire una sintesi politica che di tutti tenga conto. Se il parlamentare eletto non porta soltanto gli interessi dei suoi elettori in quanto “rappresenta la Nazione” (art.67) e deve collocare la sua visione di parte in una visione dell’interesse generale, certamente però egli non può che muovere dalla tutela degli interessi di cui dovrebbe essere portatore. Sganciare da qualsiasi riferimento con la propria base il rappresentante politico è addirittura incostituzionale. Interessante è, ad esempio, una sentenza del ’98 dove la Corte costituzionale dichiara costituzionalmente illegittima una legge del Trentino Alto Adige in quanto la soglia elettorale da essa introdotta “…. rappresenta un ostacolo per l’accesso del gruppo linguistico ladino alla rappresentanza del Consiglio regionale”. Rendere possibile la rappresentanza delle minoranze linguistiche nelle istituzioni è essenziale e il sistema non tollera “l’introduzione di elementi che escludano o rendono più difficoltosa la rappresentanza dei gruppi linguistici che intendano proporsi nella competizione elettorale in quanto tali”.
In quest’ottica impressiona la formazione di gruppi parlamentari in corso di legislatura senza il passaggio elettorale: sono i rappresentanti di chi? È una forma di auto legittimazione. Diverso è il caso di un membro delle Camere che per un dissenso con la posizione del proprio partito passa al gruppo misto. I nuovi gruppi formati senza passaggio parlamentare poi vantano forti pretese, condizionano fortemente i poli nei quali si inseriscono e, come oggi vediamo, vogliono moltissimo. I qualche modo questi fenomeni sono una marcia inversa al circuito della rappresentanza politica nel senso che invece di partire dai cittadini per approdare alle aule parlamentari, si parte dalle assemblee: per arrivare dove?
Si dice spesso che la Costituzione non parla espressamente del sistema elettorale, e quindi lascia libero il legislatore. Non parla ‘espressamente ‘, è vero, ma il sistema proporzionale è dentro la Costituzione intera. Usciti dalla guerra e dal fascismo, in una straordinaria stagione ricca di fermenti vitali, ogni scoria del cupo passato era allontanata, così come ogni artificio antidemocratico di cui si era avvalso il regime: maggioranza truccate, premi per dominare schiacciando gli avversari politici, liste bloccate imposte agli elettori. L’obiettivo era la partecipazione, “la partecipazione di tutti” come dice l’art.3; e lo conferma l’art.49 : i cittadini, “Tutti i cittadini” -precisa la norma- hanno il diritto associarsi in partiti “per concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale”. Nessuno escluso.
Nello spirito del 1948 non poteva esserci che un sistema proporzionale con una modalità di voto in grado di tener saldo il rapporto fra elettori ed eletti: “la sovranità spetta tutta al popolo che è l’organo essenziale della nuova costituzione… l’elemento decisivo, che dice sempre la prima e l’ultima parola.” E dunque, il fulcro dell’organizzazione costituzionale è nel Parlamento “che non è sovrano di per se stesso; ma è l’organo di più immediata derivazione dal popolo”, si legge nella Relazione di Meuccio Ruini alla’Assemblea Costituente. E il popolo è costituito da tutti i cittadini, altrimenti si ha una democrazia dimezzata. Non va poi dimenticato che, durante i lavori della Commissione dei 75, il grande costituzionalista Costantino Mortati propose di inserire in Costituzione il principio della rappresentanza proporzionale “perché costituisce un freno allo strapotere della maggioranza ed influisce anche, in senso positivo alla stabilità governativa”. Prevalse invece l’idea di lasciare la materia elettorale alla legge ordinaria; anche più tardi, quando se ne discusse in Aula, un emendamento presentato dall’on. Giolitti non fu approvato. Ma il suo contenuto fu trasformato in ordine del giorno e venne approvato: “l’Assemblea Costituente ritiene che l’elezione alla Camera dei Deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale” (23 settembre 1947). E’ un impegno solenne. Questo è il sistema elettorale voluto dai Costituenti. Il loro modello è le democrazie di stampo liberale e dunque pluralistico che vuole temperare il principio maggioritario. Le minoranze sono l’essenza del costituzionalismo liberale e sulla possibilità di far sentire la loro voce sono basati gli istituti giuridici posti a tutela dei diritti costituzionali, dai diritti di libertà ai diritti sociali. La distorsione della rappresentanza – dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale – alterando la composizione delle Camere si ripercuote pesantemente sulla vita dei cittadini: in assenza di voci in grado di difenderli i diritti sono gravemente incisi, il pensiero minoritario sacrificato. Soffocate le minoranze, a nulla vale la rigidità della Costituzione; a tutelarla non bastano le garanzie giuridiche: se non sono accompagnate dalle garanzie politiche assicurate dal pluralismo risultano del tutto inefficaci. Una maggioranza artificialmente creata non trova più i limiti politici consueti in democrazia: le altre forze, ridotte all’irrilevanza, come possono svolgere un’opposizione efficace?
E, dunque, per il corretto funzionamento della democrazia si deve tornare a un sistema elettorale che – come ha detto la Corte costituzionale annullando ripetutamente leggi elettorali, in particolare nella sent. n.1 del 2014 – non consentano “la compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della «rappresentanza politica nazionale» (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare, ed in virtù di ciò ad esse sono affidate funzioni fondamentali”. Eliminando norme, come certi e ‘premi di maggioranza’, che alterano il “circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.)”, principio che “esige …che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi”, e portano “squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”, ai fini dell’attribuzione dei seggi” .
Il principio dell’eguaglianza del voto non solo in entrata ma anche in uscita, cioè riguardo agli effetti del voto, è nuovo e importante. Ed è interessante che, quasi a rafforzarlo, la nostra Corte si richiami alla giurisprudenza tedesca ( BVerfGE sentenza 3/11 del 25 luglio 2012; ma v. già la sentenza n. 197 del 22 maggio 1979 e la sentenza n. 1 del 5 aprile 1952) nel dichiarare illegittime leggi che “pur perseguendo un obiettivo di rilievo costituzionale, qual è quello della stabilità del governo del Paese e dell’efficienza dei processi decisionali nell’ambito parlamentare, dettano una disciplina che… determina una compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente”.
Arriverà una legge elettorale che consenta a tutti di essere egualmente rappresentati e non determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”, ai fini dell’attribuzione dei seggi?