Milioni di persone in Italia, ricercatori, docenti e studenti, ne avrebbero bisogno per poter fare il loro lavoro. Ma l’impressione è che i ministri dei Beni culturali e dell’Università non se ne preoccupino affatto
La situazione delle biblioteche italiane è comatosa; e l’impressione di tutti coloro che ne avrebbero bisogno per poter fare il loro lavoro è che i ministri dei Beni culturali e dell’Università non se ne preoccupino affatto. Parlo di lavoro perché è bene chiarire che chiunque entri in una biblioteca lo fa per lavorare, non solo il personale ma tutti gli utenti. E gli utenti non sono pochi stravaganti con del tempo da perdere, ma tutti i ricercatori, i docenti e gli studenti italiani: sì, anche gli studenti, che avrebbero bisogno quotidianamente delle biblioteche per preparare gli esami e la tesi. Milioni di persone, tra cui i figli e i nipoti di molti di coloro che leggono questo articolo, sono nell’impossibilità di lavorare normalmente non a causa di restrizioni dolorose ma necessarie, bensì a causa di restrizioni cervellotiche, incomprensibili, che sembrano dovute al panico e al rifiuto di assumersi qualunque responsabilità.
Moltissime biblioteche sono aperte soltanto per il prestito. Si scrive richiedendo un libro, e si riceve un appuntamento per andarlo a ritirare. Temo che molti direttori di biblioteca possano avere la sensazione che così, in fondo, la biblioteca assolve alle sue funzioni; e non è così. E non solo perché in realtà la maggior parte dei lavori che gli studiosi utilizzano sono pubblicati come articoli in riviste scientifiche, i cui volumi non vanno in prestito. Il fatto è che in tempi normali uno studioso passa tutto il giorno in biblioteca e vede magari venti volumi diversi, perché in ognuno ci può essere anche soltanto una specifica informazione che gli serve, e che spesso lo rimanda a un altro lavoro, di cui prima di quel momento non aveva mai sentito parlare. È così che si fa ricerca, costruendo un percorso attraverso l’immensa quantità di informazioni contenuta nella biblioteca (e, a scanso di equivoci, chiariamo che la rete non sostituisce i libri; uno storico, un sociologo, un filosofo non trovano in rete nemmeno metà dei libri e dei dati di cui hanno bisogno: la maggioranza delle informazioni e dei ragionamenti che costituiscono la cultura dell’umanità è tuttora conservata soltanto nella forma più sicura e sperimentata, il libro). La biblioteca che presta un libro su appuntamento è come un malato tenuto in vita dall’ossigeno e dalle flebo: tecnicamente non è morto, ma quella non è la vita vera.
E poi ci sono le biblioteche nelle quali non si entra se non si appartiene agli eletti. Molte biblioteche universitarie italiane hanno deciso che i loro servizi finché dura l’emergenza sono riservati ai loro docenti e studenti. Sembra logico solo se accettiamo che la logica, durante l’epidemia, è di chiudere, rinserrarsi a riccio, mettere barriere di qualunque genere senza interrogarsi sulla loro utilità né sul danno collaterale che producono. Perché l’unica vera necessità, per combattere il virus, è di evitare il sovraffollamento delle biblioteche, ma, una volta stabilito un limite di accesso, che senso ha impedirlo a chi non appartiene a quella specifica università, come se le università italiane non fossero tutte pubbliche? Il risultato è che una mia dottoranda, laureata a Bologna e abitante a Bologna, non può lavorare nelle biblioteche dell’università di Bologna, perché il suo dottorato è all’Università del Piemonte Orientale. D’altra parte io, che insegno al Piemonte Orientale, pur abitando a Torino non posso accedere, e nemmeno chiedere un libro in prestito, alla grande biblioteca di storia dell’Università di Torino, intitolata al mio maestro Giovanni Tabacco, e in cui ho lavorato per quarant’anni. Non posso nemmeno andare a restituire i libri che avevo preso in prestito mesi fa, in tempi migliori! E se servissero a qualcuno? Non importa, l’importante è chiudere, escludere, tener fuori la minaccia.
E pazienza se queste misure fossero necessarie perché altrimenti le liste d’attesa si allungherebbero troppo; ma la verità è che per effetto combinato di tutte le restrizioni, le biblioteche sono inutilizzabili e di conseguenza deserte. Ecco una storia vera di cui sono stato testimone diretto, e che riguarda di nuovo una grande biblioteca universitaria. Uno studioso deve vedere un libro e seguendo le istruzioni prenota il giorno prima, tramite apposita app, un turno: dalle 9 alle 11 del mattino. Un contrattempo lo fa arrivare alle 10. La biblioteca è deserta, non c’è un solo utente, tranne il personale in servizio. Allo studioso viene detto che non può entrare, perché la sua prenotazione è scaduta. Lo studioso fa notare che la prenotazione serve solo per evitare delusioni a chi magari presentandosi potrebbe scoprire che non c’è posto, ma dato che è pieno di posti liberi, non potrebbero lasciarlo entrare? È impossibile, la app non lo consente. Bisogna prenotare il prossimo turno. Lo studioso, rassegnato, chiede di prenotare l’ingresso alle 11. Impossibile, gli viene risposto, la app richiede che si prenoti con un certo anticipo, altrimenti che prenotazione è? Sono le 10 passate, si può prenotare per mezzogiorno. Lo studioso prenota e poi esce in strada dove aspetta in piedi al freddo per due ore in attesa di poter entrare a fare il suo lavoro nella biblioteca deserta.
Dato che non permettono l’accesso, le biblioteche stanno potenziando se non altro il servizio di riproduzione a distanza. È un servizio utilissimo che da sempre in Italia si svolge con restrizioni di tipo sovietico, per il terrore di violare il copyright, anche quando i testi in questione sono articoli scientifici pubblicati generazioni fa. A chi scrive è capitato, in tempi migliori, di richiedere a una biblioteca la riproduzione di un articolo scientifico, e di scoprire che la procedura era la seguente: i funzionari richiedono l’articolo alla biblioteca che in un’altra città possiede quella rivista, ricevono il pdf, a quel punto lo stampano e chiedono allo studioso di andare personalmente a ritirare la copia stampata, mentre il pericolosissimo pdf viene obbligatoriamente distrutto, per evitare che possa essere rivenduto. Ognuno vede quale uso intelligente del tempo di tutti quanti si faccia in questo modo e come le tecnologie esistenti siano sfruttate al meglio per migliorare la produttività. In alternativa, ecco l’ultima storia vera, che è di questi giorni. Uno studioso chiede alla biblioteca civica di una grande città la riproduzione di un articolo degli anni Cinquanta. Il funzionario, gentilissimo, si attiva e la manda immediatamente: in bassa risoluzione, sicché l’articolo è in gran parte illeggibile. Lo studioso segnala il fatto e gli viene risposto che bisogna fare così per tutelare il copyright, in modo da evitare che l’articolo possa poi essere spacciato a pagamento da chi l’ha ricevuto. Lo studioso insiste chiedendo se c’è una legge in proposito: gli viene risposto che la legge c’è, è di interpretazione controversa, ma gli avvocati della biblioteca hanno consigliato di attenersi all’interpretazione più restrittiva.
Questo è il modo in cui le biblioteche italiane, nell’anno di grazia 2021, intendono il loro servizio, che è di alimentare e sostenere quella ricerca sulla cui vitale importanza tutti si riempiono la bocca. La sensazione di tutti, ricercatori e studenti, è, come dicevo, che non importi niente a nessuno. Io sarò felicissimo di essere smentito dai ministri dei Beni culturali e dell’Università, non a parole, che non costano niente, ma con provvedimenti concreti per far sì che in questo tempo di epidemia le biblioteche italiane attuino provvedimenti coerenti, motivati, per combattere il contagio, evitando i provvedimenti indiscriminati e immotivati che colpiscono a morte un altro settore, vastissimo, strategico e vitale, della società e dell’economia italiana.
Questo articolo è stato pubblicato su La Stampa il 18 gennaio 2021