Educarsi all’autonomia. Viaggio nelle realtà formative della galassia zapatista (1 di 2)

di Daitone /
15 Gennaio 2021 /

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Questo diario di viaggio, iniziato in Chiapas nell’estate del 2017 e portato a compimento due anni più tardi nell’appennino bolognese, rappresenta la rivisitazione narrativa e divulgativa di una tesi magistrale che ha interrogato i rapporti di mutua determinazione tra paradigma socioeconomico e sistema educativo. Focalizzato sulle implicazioni in campo formativo del cammino zapatista verso l’autonomia, intende condividere – attraverso l’approfondimento in una prospettiva soggettiva di alcuni esempi concreti – spunti teorici e pratici per la realizzazione di esperienze di apprendimento inerenti a una forma di vita e organizzazione sociale post-capitaliste.

Episodio I – Ascoltare, vedere, parlare

«In Messico i supermercati OXXO stanno lentamente soppiantando gli abarrotes, i vecchi negozietti di alimentari», aveva annunciato Tato, guida e opinion leader del mio viaggio oltreoceano. Al che io avevo annuito con fare grave, il petto gonfio di disappunto antimperialista. Immaginate quindi la beffa di trovarmi nell’unico luogo illuminato in questo canto di San Cristóbal, per l’appunto un OXXO, masticando un hot-dog in barba al mio sedicente vegetarianesimo. Deglutisco a fatica, con il vago sentore che da queste parti non sarà l’ultima volta che mi toccherà ingoiare i miei inveterati principi. «In Messico siamo più vicini all’equatore, il sole alle sette e mezza va a picco», aveva soggiunto Tato, prima di salutarmi per fare rientro nella capitale dove lo attendevano incombenze di visto e di dottorato. «Dove sarà questo fottuto ostello?», bofonchio invece io, mentre solo e nel buio incespico con il mio trolley sui ciottoli di Calle Tapachula, sotto un cielo lampeggiante che non lascia presagire niente di buono.

«Desculpa, sàbes si ai un ostàl baràto achì?» grido nel mio castigliano da sopravvivenza alla volta di due donne, ferme a chiacchierare sulla soglia di un provvidenziale abarrote ancora incerto sulla chiusura. Una di loro risponde pimpante: «Sí, alli!», indicando un portoncino alle mie spalle. Dopodiché estrae un mazzo di chiavi dalla tasca e mi fa strada. Si presenta come Edith, titolare del piccolo ostello “RukaChe”, la cui porta aprendosi dà su un ampio patio illuminato. Da un lato un chico dall’aria felina sorseggia pox, una bevanda locale di poche pretese ma alta gradazione alcolica; nell’angolo opposto una giovane coppia – argentina, scoprirò poi – bofonchia davanti a un computer. I due, alle prese con la preparazione di uno spettacolo teatrale che andrà presto in scena al centro culturale “Palliacate”, cercano di capire come fare in modo che al termine di una canzone non scatti immediatamente la successiva. Le doti tecnico-musicali maturate in anni di misantropia mi consentono di venir loro in aiuto… e visto che col tempo la misantropia è andata mitigatandosi ne approfitto per scambiare due chiacchiere su cosa mi ha spinto qui: gli studi in pedagogia, la ricerca sulle pratiche educative autonome e l’interesse per il CIDECI, il centro di formazione per giovani indigeni che sorge ai margini della città. «Ah certo, domani dovrebbe esserci la celebración per il 28° anniversario della fondazione!», interviene Edith, nel cuore di una notte che sembra essersi fatta a poco a poco più chiara.

L’indomani, seguendo le indicazioni raggranellate in ostello, riesco ad arrivare nei pressi del centro. Nel dubbio, pedino una famigliola dai vestiti sgargianti che si inoltra lungo una carrettera polverosa che non si direbbe condurre da nessuna parte. Giunta in fondo alla strada, la combriccola si ferma ad indossare delle scarpe da cerimonia, per poi avventurarsi oltre le soglie di un grande cancello. Lo varco a mia volta e mi ritrovo nel cortile del CIDECI, affollato di ragazzi, parenti e curiosi richiamati dalla ricorrenza. Parlandoci, scopro che in parecchi arrivano da comunità molto distanti e sono qui per la prima volta. Una coppia di giovani mi si avvicina: lui sorregge un grande vassoio di fiori, lei ne prende un mazzetto e me lo porge accompagnato da un foglietto. Lo spiego trepidante, ansioso di scoprire quali accorate dichiarazioni possa contenere. Rimango perciò interdetto al leggere le parole: «Antífona de entrada». Segue: «Primera Lectura»… Ma che diamine?!? Mi accorgo, troppo tardi, di essere caduto in trappola! Non faccio in tempo a maledire il mio spagnolo stentato che già un prete rubicondo, attorniato da una schiera di chitarristi in pompa magna, si affaccia dal balconcino di un edificio per annunciare l’inizio della celebración – che, beninteso, sta a significare celebrazione eucaristica.

«Uniamo i nostri cuori, i nostri pensieri e le nostre forze per marciare insieme verso un mondo migliore… Non tutti siamo cattolici, ma tutti condividiamo questo cammino per un mondo nuovo. Celebriamo la vita, lottando per il buen vivir!». L’officiante pronuncia parole semplici e chiare: una perfetta testimonianza di teologia della liberazione in salsa india. Questa corrente, diffusasi dopo il Concilio Vaticano II, ha voluto riscattare i valori di emancipazione sociale e politica presenti nel vangelo, dimostrandosi vicina alle esigenze materiali della povera gente e ferma nel denunciarne la condizione di oppressione. Con l’idea che ogni popolo abbia il suo antico testamento, ha integrato le divinità precolombiane nel culto cristiano ed è riuscita ad ottenere un ampio seguito nelle regioni indigene del Messico e del Sud America. In un’intervista a Raúl Zibechi, pensatore e attivista uruguayano, avevo letto: «Se vuoi comprendere i movimenti sociali latinoamericani, devi comprendere la teologia della liberazione». Ho modo di rimuginare a lungo su questa considerazione, per l’esattezza le due ore abbondanti di durata della funzione con tanto di battesimi, cresime e comunioni dispensate ai presenti neanche fossimo alla vigilia del giudizio universale. In conclusione, il pasciuto e per nulla provato officiante lascia la parola a una figura minuta e asciutta, una sorta di maestro Yoda di cui dal pulpito spuntano a malapena le orecchie. È Raymundo, il coordinatore del CIDECI: si premura di annunciare che il pranzo è servito e a illustrarne nel dettaglio le modalità di svolgimento. Quindi, schivando la pioggia battente di un improvviso diluvio stagionale, ognuno si affretta a raggiungere la propria postazione attenendosi scrupolosamente alle indicazioni impartite.

La sala dell’auditorium è costellata di ritratti di Samuel Ruiz Garcìa, vescovo di San Cristóbal per quarant’anni buoni e instancabile sostenitore della causa dei popoli indigeni del Chiapas. Nel ’94, dopo la sollevazione in armi dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, don Samuel si rese disponibile ad ospitare i negoziati tra governo e insorgenti, presiedendo la Commissione Nazionale di Intermediazione – «con imparzialità ma non neutralità», ebbe a precisare. Durante le trattative, per ampliare il processo di consultazione popolare, l’EZLN convocò un Foro Nacional Indígena. Quest’evento pose le basi della futura costituzione del Congresso Nazionale Indigena (CNI), un ente che riunisce i rappresentanti di popoli indigeni di diversi stati del Messico in lotta per l’autonomia.

I dialoghi di pace si risolsero nella stipula degli accordi di San Andrés, volti ad instaurare una nuova relazione tra Stato e popoli indigeni fondata non più sull’integrazionismo culturale, bensì sul riconoscimento delle autonomie e dei diritti di questi ultimi in una cornice di federalismo pluriculturale. Non stupisce perciò che sulle pareti, accanto a don Samuel, facciano bella mostra di sé quadri e poster zapatisti, molti dei quali realizzati al recente festival “CompArte”. Il CIDECI infatti accoglie numerose iniziative provenienti dall’universo zapatista, come il seminario (o meglio, “semenzaio”) Il pensiero critico di fronte all’Idra Capitalista – volto a elaborare nuove proposte per una comprensione e trasformazione del sistema capitalista – o appunto il “CompArte”, una chiamata alle arti sotto il segno di un comune anelito rivoluzionario. Mentre squadre di ragazzi sbarazzano i resti del banchetto e i suonatori di marimba si preparano ad aprire le danze, riesco di sfuggita a scambiare due parole con Raymundo: «Buenas dìas, soi lo studente italiano che le aveva scritto per l’investigaziòn!». «Ah certo, benvenuto! Vediamo, che ne diresti di venire mercoledì verso le 10 e mezza?», risponde il doc, come lo chiamano affettuosamente qui, facendo sfoggio di un ottimo italiano. Scopro così che, nel corso dei suoi viaggi intergalattici, gli toccò pure di stare a Roma… in seminario per la precisione, tanto per infliggere un altro duro colpo ai miei beneamati preconcetti.

Mercoledì, di ritorno al CIDECI, trovo il doc intento a conferire con una giovane alunna circa il suo avvenire formativo, comunitario, militante, esistenziale e ultraterreno (presumo). Attendo paziente fuori dall’ufficio, su uno sgabello artigianale di legno cinto da piante la cui caotica e rigogliosa autonomia fa da contrappunto a quella dell’ambiente circostante. Al termine della consulenza jedi, Raymundo mi riceve. Il suo studio è ingombro di arredi colorati e chincaglieria di ogni sorta: da pupazzetti di Gandhi a bandiere kurde, da libri di arte moderna ad improbabili acquari tropicali. Dopo avermi fatto accomodare su un divanetto, il doc si siede di fronte a me e resta in ascolto. Imbarazzato, cerco di abbozzare una spiegazione convincente del mio essere al mondo e, nello specifico, in questo angolo di mondo in questo istante: la ricerca tesi, la preoccupazione per le ripercussioni del neoliberismo in campo educativo, la curiosità nei confronti della loro esperienza e altre argomentazioni di circostanza. Ancora ignoro che, in Chiapas, presentarsi come ricercatore è il peggior biglietto da visita che si possa avere. Raymundo, diplomatico, ascolta senza batter ciglio. Quando mi taccio, prende parola:

– Bene Jacopo, ecco cosa abbiamo preparato per te. Ora Miguel ti racconterà la nostra storia, poi farai un giro per il centro con Santiago, infine se vorrai potrai tornare da me e rivolgermi delle domande.

Sollevato, raggiungo Miguel, un tipo rampante che ostenta uno sguardo deciso e una giacchetta di pelle (chissà come mai, qui in Messico, va così tanto il rock). Insieme a un’altra ventina di persone Miguel fa parte dell’équipe di coordinamento del CIDECI, luogo che frequenta da ormai più di 10 anni. Racconta che la storia del centro è fortemente legata a quella di Raymundo, arrivato in Chiapas nei primi anni ’80 come responsabile di un progetto educativo governativo. A seguito di divergenze sul senso e sulle pratiche di apprendimento per i popoli indigeni, il doc fu rimosso dall’incarico e i finanziamenti interrotti. Fortunatamente, l’interessamento di don Samuel permise di dare continuità e nuova forma ai progetti con l’istituzione del CIDECI, Centro Indigeno di Capacitazione Integrale, presso alcuni spazi di proprietà dei Salesiani. Il centro intendeva dare ai ragazzi e alle ragazze indigeni la possibilità di acquisire competenze concrete che potessero tornare utili alle loro comunità di provenienza. I principi da cui prendeva le mosse erano, in linea con un adagio del pedagogista brasiliano Paulo Freire, «apprendere a fare, apprendere ad apprendere, apprendere a essere di più», al fine di acquisire una capacità di autosufficienza, auto-valutazione e autogestione a livello personale, di gruppo e di comunità.

Nel 2005, quando i rapporti con i Salesiani si incrinarono, il CIDECI si trasferì nella sua ubicazione attuale, un terreno che si estende al limitare nord di San Cristóbal. Fin da subito con gli abitanti della zona si instaurò un rapporto di collaborazione, permettendo alle donne di raccogliere legna nei boschi limitrofi e approfittando della fonte d’acqua presente per costruire cisterne ad uso pubblico, in modo da arginare il fenomeno di migrazione verso i grandi poli urbani. Per l’acquisizione del terreno fu decisivo il contributo dello stesso don Samuel, che in questo gesto espresse uno dei suoi ultimi desideri per l’avvenire terreno prima di fare ritorno alla casa del padre.

Miguel mi spiega che il centro può accogliere fino a 300 persone, anche se al momento ne ospita circa un centinaio. Ciascuno al proprio arrivo decide quali tra i laboratori disponibili frequentare durante la propria permanenza; in qualunque momento, dopo essersi consultato con il responsabile, può decidere di modificare il piano di studi scelto. La giornata inizia alle 8.00 con la colazione e si conclude alle 20.00 con il rituale momento della buonanotte. Ogni giorno, da lunedì a venerdì, si tengono i laboratori, o talleres: elettrotecnica, ferramenta, panificazione, infermieristica, tipografia, lettoscrittura, disegno, musica, informatica… Interrompo il vertiginoso elenco di cui sono sicuro non ricorderei nulla, per chiedere a Miguel se per caso non ha da lasciarmi un documento che li riporti compiutamente. «Non abbiamo fogli volanti da dare al primo che passa», replica lui, «Preferiamo che la gente venga e veda con i propri occhi».

Così è. Il giovane Santiago, sì e no quindici anni, mi guida tra le abitazioni degli studenti e le altre strutture comuni fino ad arrivare agli edifici che ospitano i talleres, abbelliti con variopinte pitture murali. Mi spiega che gli arredi sono stati realizzati dal laboratorio di falegnameria e dipinti da quello di decorazione, le tende confezionate da sartoria e l’impianto luci da elettrotecnica. Troviamo i ragazzi di calzoleria intenti nella fabbricazione di scarpe a uso degli alunni del centro, mentre in cucina stanno preparando il pranzo con i prodotti provenienti da agroecologia. Ferramenta ripara gli infissi, meccanica aggiusta le macchine portate dagli abitanti del quartiere e addirittura gli edifici, racconta Santiago, sono stati progettati dal taller di architettura e realizzati da quello di carpenteria.

In sintonia con il pensiero di Ivan Illich, per cui la scuola così come strutturata non può che avviare a un sistema di consumi progressivi e dipendenza da servizi professionali, il CIDECI realizza la sua tensione all’autonomia non con la messa a punto di un nuovo congegno che “faccia” imparare, ma con la creazione di un diverso rapporto educativo tra l’uomo e il suo ambiente. Il modo di apprendere qui consiste nel provvedere alla manutenzione del centro e alle necessità quotidiane dei suoi abitanti, affiancandosi a chi conta più esperienza. Queste attività, unitamente alla vendita delle eccedenze, ai lavoretti svolti per gli esterni e a sporadiche donazioni, rendono il centro pressoché autosufficiente. Il soggiorno per gli alunni è completamente gratuito e comprende alloggio, materiali e assistenza medica. In cambio, secondo la prassi in uso nelle comunità indigene, si chiede di contribuire nella forma del lavoro collettivo (tequio) alla gestione ordinaria e straordinaria delle strutture. Il sabato è il giorno dedicato ai lavori più consistenti e alle attività sportive, mentre la domenica i ragazzi vengono invitati a farsi un giro nella vicina San Cristóbal per dare un assaggio alla vita e al mondo “di fuori”.

Per accedere al CIDECI non viene richiesto alcun prerequisito in termini di età o grado di scolarizzazione: basta presentarsi con la propria data di nascita e una lettera di raccomandazione della comunità d’origine. L’obiettivo infatti non è professionalizzare qualcuno che andrà a cercare fortuna altrove, bensì facilitare l’acquisizione di competenze utili per la resistenza ed il benessere delle comunità indigene. Quando un alunno sente di aver appreso a sufficienza, dopo un colloquio con i coordinatori, può fare ritorno alla propria comunità. Il ritorno è spesso accompagnato da un sostegno materiale all’avvio di un micro-progetto: ad esempio, una partita di macchine da cucire per chi ha seguito il laboratorio di sartoria, il necessario per avviare una fabbrica di panchine per carpenteria, l’occorrente per costruire un pollaio per allevamento. In questa maniera, il CIDECI non solo fornisce uno spazio fisico e culturale per l’apprendimento, ma contribuisce alla rigenerazione degli spazi autonomi delle comunità indigene del Chiapas. Di tanto in tanto, un alunno rimane talmente colpito dall’esperienza formativa vissuta da decidere di fermarsi per condividere le conoscenze maturate con i nuovi arrivati.

Faccio ritorno da Raymundo ancora frastornato da questo guazzabuglio di informazioni. Abituato alle difficoltà che si respirano nei servizi socio-educativi, gli domando se non è mai capitato che incontrassero problemi nella gestione del centro o tra i ragazzi che ci vivono. «Certo, Jacopo, come in tutte le cose», risponde pacato il doc; «Proviamo a risolverli con spirito di comunità. Questa non è una scuola, è un luogo in cui si condividono l’apprendimento ed il cammino. Siamo gente semplice, ci accontentiamo di ascoltare, vedere, parlare». Ciò detto, mi consegna un plico contenente un assortimento di articoli, che spaziano da un comunicato contro il business dell’eolico nell’istmo di Tehuantepec a una lettera di alcuni militanti detenuti in un carcere della regione. Si tratta del materiale alla base del seminario di giovedì prossimo. Infatti, alla formazione pratica dei talleres nel tempo si è affiancata l’esperienza dell’UniTierra, uno spazio di incontro e riflessione tra popoli in lotta: ogni settimana ci si ritrova a condividere ragionamenti e analisi su quanto accade in Chiapas, in Messico e nel mondo, secondo la traiettoria desde abajo y a la izquierda che hanno insegnato a tracciare gli zapatisti.

Questo articolo è stato pubblicato su L’America Latina il 23 dicembre 2020

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