Nei Paesi ad alto reddito i migranti guadagnano il 12,6% in meno all’ora rispetto ai “nazionali”. In Italia il divario salariale è pari al 30%, quasi tre punti percentuali in più rispetto al biennio 2014-15. Tre quarti della differenza salariale rimangono “non spiegati” e riconducibili a forme di discriminazione nei processi di selezione e nell’impiego
Nei Paesi ad alto reddito i lavoratori migranti guadagnano il 12,6% in meno all’ora rispetto ai lavoratori nazionali. In alcuni Paesi il divario salariale (pay gap) è maggiore: in Italia è pari al 30%, a Cipro al 42% e in Austria al 25%. È quanto emerge nel rapporto “The migrant pay gap: Understanding wage differences between migrants and nationals” pubblicato a dicembre 2020 dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo). Nella ricerca sono analizzati i dati del 2019 relativi alla retribuzione dei migranti in 49 Paesi -di cui 33 ad alto reddito e 16 a basso e medio reddito- dove si concentra il 49,5% dei migranti e il 33,8% dei lavoratori migranti internazionali. L’indagine è stata condotta per contribuire al raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) delle Nazioni Unite che prevedono di conseguire al 2030 la piena occupazione produttiva e lavoro dignitoso per tutte le donne e gli uomini, oltre alla parità di retribuzione a parità di lavoro.
Secondo il rapporto dell’Ilo, dal 2015 al 2019 in alcuni Paesi ad alto reddito il divario retributivo ha fatto registrare un andamento crescente. In Italia, ad esempio, nel 2019 i migranti hanno guadagnato il 30% in meno rispetto ai lavoratori nazionali mentre nel 2015 la differenza era stata pari al 27%. In Portogallo nel 2019 i migranti hanno guadagnato il 29% in meno quando invece cinque anni prima la differenza salariale era stata pari al 25%. Una parte del divario retributivo rimane “non spiegata”, cioè non dovuta alle caratteristiche del mercato del lavoro nazionale oppure alle competenze del lavoratore: potrebbe, invece, essere ricondotta a discriminazioni nei confronti dei lavoratori stranieri.
L’analisi dell’Ilo mostra che nei Paesi ad alto reddito i migranti sono prevalentemente impiegati nel settore primario, come l’agricoltura e la pesca, e secondario, come quello estrattivo e manifatturiero. Si tratta di ambiti in cui hanno più possibilità di svolgere occupazioni precarie: nei 33 casi studiati, il 27% della forza lavoro straniera ha avuto contratti di lavoro a tempo determinato e il 15% ha ottenuto contratti di lavoro part-time. Le donne migranti si collocano nel settore dei lavori domestici, della cura e dell’assistenza che occupa il 73% di tutta la forza lavoro femminile, pari circa a 8,45 milioni di lavoratrici. In quanto donne e migranti, subiscono una doppia discriminazione: nei Paesi ad alto reddito il loro divario retributivo orario è pari al 21% rispetto ai lavoratori nazionali, superiore anche al gender pay gap (la differenza di retribuzione tra donna e uomo per uno stesso lavoro, ndr) che invece equivale al 16%.
Oltre alla instabilità delle occupazioni, l’indagine sottolinea che i lavoratori stranieri guadagnano un salario inferiore anche se possiedono qualifiche analoghe nell’ambito della stessa categoria professionale. Sono più propensi a ricoprire lavori meno qualificati e che non corrispondono alla loro formazione professionale. Ciò è dovuto alle difficoltà incontrate nel trasferimento delle loro competenze e nell’assenza di meccanismi che riconoscano i loro titoli di studio originando il cosiddetto fenomeno dello squilibrio delle competenze (skills mismatch). Negli Stati Uniti e in Finlandia, per esempio, dove la percentuale di lavoratori migranti che hanno completato la scuola secondaria è pari rispettivamente al 78% e al 98%, la percentuale di migranti occupati in lavori specializzati o semi-qualificati è arriva solo al 35% e 50%. La situazione, invece, si inverte nei Paesi a medio e basso reddito dove i lavoratori migranti, spesso presenti nel Paese per un periodo di tempo limitato e con alte qualifiche, guadagnano circa il 17,3% in più rispetto ai cittadini non stranieri.
L’Italia si colloca tra i 20 Paesi ad alto reddito con il maggiore divario salariale. I migranti guadagnano in media il 30% in meno rispetto ai lavoratori nazionali. Nel 2019 il pay gap si è attestato al 29,6%, quasi tre punti percentuali in più rispetto al biennio 2014-15. Anche in Italia il divario salariale non è interamente dovuto alle caratteristiche del mercato del lavoro o dei lavoratori: tre quarti della differenza salariale rimangono “non spiegati” e riconducibili a forme di discriminazione nei processi di selezione e nell’impiego.
Nel Paese la quota dei lavoratori migranti con istruzione secondaria è di circa il 70%: tuttavia, a causa del fenomeno dello squilibrio delle competenze, i migranti impiegati in lavori ad alta qualifica si fermano al 20% mentre i nazionali arrivano al 60%, nonostante i livelli di istruzione siano simili. La forza lavoro migrante è sovra-rappresentata nel settore primario e secondario. Dal 2008 al 2018, nel periodo precedente e successivo alla crisi economica e finanziaria, la distribuzione degli occupati per settore di attività economica è rimasta invariata per i lavoratori italiani mentre per quelli stranieri la partecipazione in agricoltura è salita dal 3% al 6,4%. Le lavoratrici migranti sono doppiamente svantaggiate: al divario retributivo rispetto ai lavoratori nazionali, si aggiunge anche quello di genere che è pari a12 punti percentuali. Sono sovra-rappresentate nell’economia dell’assistenza e della cura dove lavora il 65,8% del totale delle migranti. Gli uomini sono il 9,1%.
Questo articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 7 gennaio 2021