Italia/Egitto. La stanza 13 delle torture, il ruolo di cinque testimoni. E 13 sospetti ancora ignoti. La Procura di Roma chiede l’azione penale per quattro agenti dei servizi segreti egiziani
Ieri la Procura di Roma ha detto la verità. Cosa è successo a Giulio Regeni nei nove giorni tra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016. Chi lo ha rapito, torturato e ucciso. Una verità ancora parziale (troppi restano gli ignoti aguzzini) ma che è primo passo nel percorso verso la giustizia, possibile solo con un atto politico, dovuto a Giulio e agli egiziani.
Di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, la Procura – la stessa che ne inaugurò i lavori il 17 dicembre 2019 – ha svolto un’audizione tra le più dolorose: il procuratore capo, Michele Prestipino e il sostituto procuratore Sergio Colaiocco hanno ricostruito i nove giorni passati dal ricercatore nelle mani dei suoi aguzzini. E hanno dato conto della chiusura delle indagini sul sequestro e l’omicidio di Regeni, tra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016.
LA CONCLUSIONE. Partiamo dalla fine: «Stamattina abbiamo formalmente chiuso le indagini preliminari iniziate tra gennaio e febbraio 2016 nell’immediatezza del fatto – ha spiegato Prestipino – Sono state inizialmente indirizzate a carico di ignoti, poi gli elementi raccolti hanno consentito l’iscrizione nel registro degli indagati di cinque persone, tutte appartenenti genericamente a forze di polizia e di cui quattro agli apparati di sicurezza egiziani, la Nsa».
Si tratta dei nomi ormai noti all’opinione pubblica italiana: il generale Tariq Sabir, il colonnello Athar Kamel, il colonnello Usham Helmi, il maggiore Magdi Sharif e l’agente Mahmoud Najem. Ai primi quattro è stata notificata la conclusione delle indagini per sequestro di persona. Uno di loro (Sharif), aggiunge il procuratore, è responsabile anche di concorso in lesioni aggravate omicidio aggravato di Giulio Regeni.
Per loro la Procura chiederà il rinvio a giudizio. Solo uno si “salva”: per Najem è stata chiesta l’archiviazione per un quadro probatorio insufficiente.
«Non è un risultato scontato – dice più volte Prestipino – Riteniamo di aver acquisito elementi di prova univoci e significativi sulla responsabilità delle persone sottoposte a indagine».
Una lunga attività investigativa, diretta e indiretta, che ha intrecciato dati, consultato tabulati e celle telefoniche, sentito testimoni. E che, in parte, è stata possibile per una prima, breve e lacunosa collaborazione egiziana, intramezzata a palesi e offensivi atti di insabbiamento, mai venuti meno.
L’EGITTO. Sta tutta lì, nella natura del regime egiziano, la dirompente potenza del risultato ottenuto: «Il punto più significativo – continua Prestipino – è uno e uno soltanto: ci avviamo a esercitare l’azione penale nei confronti di alcuni appartenenti ai servizi di sicurezza egiziani. Non credo che avvenga spesso che siano portati in giudizio appartenenti a istituzioni pubbliche di un altro Stato per un fatto commesso nel territorio di questo Stato».
«Per l’omicidio di Regeni si svolgerà un solo processo e si svolgerà in Italia secondo la procedura dei nostri codici. È il frutto di un’azione di concerto, che non è solo della procura, ma anche della famiglia, dei lavori di questa commissione e di altre autorità decisionali diplomatiche e politiche».
Qualcosa dall’Egitto è arrivato e l’elenco lo fa Colaiocco: «Abbiamo presentato quattro rogatorie che contenevano 64 quesiti. Abbiamo avuto 25 risposte, siamo in attesa delle altre 39. Una quindicina riguardano la posizione di 13 soggetti che appaiono collegati agli indagati ma di cui non abbiamo né generalità, né tabulati né dichiarazioni».
Un elemento da tenere presente: come spiegano i magistrati, le indagini continuano con l’obiettivo di dare un nome e un ruolo agli ignoti di oggi. Anche alla luce della parabola della collaborazione egiziana: se all’inizio qualcosa è stato consegnato, «dal 29 novembre 2018, quando comunicammo l’intenzione di procedere all’iscrizione del registro degli indagati, nessun atto è pervenuto».
LA RICOSTRUZIONE. Saber, Helbi, Kamel e Sharif sono accusati di sequestro di persona pluriaggravato, compiuto la sera del 25 gennaio alle 19.51: «Lo bloccavano nella metropolitana del Cairo – continua Colaiocco – e lo conducevano al commissariato di Dokki e poi in un altro edificio privandolo della libertà personale per nove giorni. Al maggiore Sharif sono contestati altri reati, le lesioni gravissime (non la tortura, perché inserita solo dopo nel nostro codice penale): sono state cagionate con crudeltà acute sofferenze fisiche che hanno provocato lesioni gravissime e l’indebolimento permanente di più organi, con una serie di strumenti affilati e taglienti, con bruciature e con mezzi contundenti. A Sharif è stato contestato il reato in concorso di omicidio pluriaggravato».
I TESTIMONI. Sono cinque e sono fondamentali. Testimonianze che hanno trovato riscontro nelle consulenze medico-legali, nella collocazione spazio temporale dei fatti, nei particolari non noti alle cronache. «Sono testi di diverse nazionalità, di diversa estrazione sociale con le attività lavorative più disparate e senza relazione tra di loro».
I primi due, ribattezzati alfa e beta, hanno riferito sulle perquisizioni dei servizi segreti nell’appartamento di Giulio prima della sua morte. Gli altri tre di eventi accaduti nei nove giorni successivi al rapimento.
Se il teste gamma è colui che, ascoltando un colloquio in Kenya nell’agosto 2017, sentì Sharif raccontare del sequestro, gli ultimi due accendono una luce sulle torture. «Il teste delta riferisce che il 25 gennaio, mentre era alla stazione di polizia di Dokki, alle 20 massimo le 21, ha visto arrivare una persona di 27-28 anni, parlava in italiano e ha chiesto un avvocato. Successivamente è stato fatto salire su un’auto, una Fiat 123, bendato. Uno dei poliziotti presenti si chiamava Sharif».
Il teste epsilon ha visto Giulio morire lentamente. Ha lavorato per 15 anni in una villa di epoca nasseriana, diventata sede del ministero degli interni e luogo scelto dalla National Security per torturare i cittadini stranieri sospettati di minare alla sicurezza dello Stato.
È lì, nella stanza 13 del primo piano, che Giulio è stato seviziato: «Ha visto lì Regeni con due ufficiali e due agenti, c’erano catene di ferro, lui era mezzo nudo e aveva segni di tortura, delirava nella sua lingua. Un ragazzo molto magro, sdraiato per terra, con il viso riverso con manette che lo tenevano a terra, segni di arrossamento sulla schiena. Non l’ha riconosciuto subito ma 4-5 giorni dopo vedendo le foto sui giornali ha capito che era lui».
IL MOVENTE. Perché Giulio è stato ammazzato così, se mai una ragione per tanta disumanità ci possa mai essere. Per la Procura di Roma «l’occasione è legata all’attività di ricerca di Regeni al Cairo – conclude Colaiocco – Ma l’elemento scatenante è il finanziamento della Fondazione Antipode, quando si è iniziato a parlare delle 10mila sterline. Per lui era un’idea per aiutare i sindacati indipendenti, del tutto equivocata dal sindacalista Abdallah e dagli agenti indagati. Hanno pensato che volesse finanziare una rivoluzione».
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto l’11 dicembre 2020