Le energie rinnovabili sono per lo più caratterizzate da una bassa densità. In altre parole, la quantità di energia prodotta per unità di spazio, sfruttando il calore del sole, lo spirare del vento o la produttività del suolo agricolo, è bassa. Ne deriva che la sua estrazione richieda, rispetto ai combustibili fossili, spazi estesi. Questo può avere conseguenze rilevanti sulle nostre società. Anche grazie alle analisi di Vaclav Smil – imprescindibile il suo Energy and Civilization – è ormai chiaro come una transizione rinnovabile profonda porti inevitabilmente con sé la riorganizzazione altrettanto profonda delle relazioni spaziali, ovvero fra produzione e distribuzione – non solo dell’energia – fra campagna e città, fra centralità e marginalità.
Concentrandoci sulla prima delle precedenti coppie categoriali, vediamo come la distribuzione delle fonti non rinnovabili avvenga per lo più secondo i sistemi che organizzano i vettori energetici fondamentali, ossia l’elettricità, il calore e i carburanti, incluse le diseguaglianze che ciò comporta. Diversamente, la produzione rinnovabile è determinata da una combinazione di caratteristiche biofisiche e rapporti di forza, confluiti nelle scelte di politica energetica, che la distanzia in parte dalle fonti convenzionali, concentrandola in spazi rurali, a volte relegati in geografie marginali.
Lo spazio, occorre ricordarlo, eccede la dimensione cartografica delle coordinate, o delle caratteristiche orografico-pedologiche. È, piuttosto, il risultato, contraddittorio, di stratificazioni che si estendono nella lunghissima durata, dai tempi geologici a quelli socio-ecologici. Lo spazio è quindi territorio, dove le nature umane e quelle più-che-umane si intrecciano in processi di mutua fecondazione, per usare un’efficace immagine di Alberto Magnaghi, attraverso conflitti, negoziazioni, destrutturazioni e ri-strutturazioni, lungo fratture di classe e dentro egemonie e contro-egemonie. Lo spazio non è mai neutro, astratto. Anzi, è sempre situato.
La produzione eolica, in Italia ma anche altrove, racchiude tutti questi elementi. La ricerca di caratteristiche anemometriche ottimali per ottenere una produttività elevata ne spingono gli investimenti verso l’appennino meridionale e le isole, soprattutto. Ed è in queste aree che una generale marginalità del tessuto socio-economico si riversa nella facilità di accesso a terre percorse da buoni venti. Le pretese dei proprietari, pubblici o privati, rimangono contenute, così come i prezzi di affitto o vendita. A schiacciarli verso il basso concorrono i corsi generali del mercato fondiario e le leggi, che impongono l’esproprio per pubblico interesse quando si debba costruire una centrale di energia rinnovabile superiore a un MegaWatt. La generale disponibilità a cedere la terra si accompagna anche a una relativa facilità di ottenere i permessi necessari. Specialmente le autorizzazioni edilizie, di competenza dei comuni, sono state spesso condizionate, legittimamente o meno, al pagamento di royalties od opere compensative, di cui gli scricchiolanti bilanci comunali hanno sete aspra.
Una volta individuati i lotti migliori, chi è che negozia queste relazioni? Chi è che parla con gli agricoltori proprietari dei terreni? O con l’emigrato di seconda generazione residente al nord e che ha ereditato un appezzamento montano? Chi porta le carte all’ufficio tecnico e parla col sindaco, cercando di convincerlo a fare il più in fretta possibile? Chi è insomma che rende possibile a capitali di grossa taglia e con un’origine lontana dai territori o addirittura dai confini nazionali di atterrare in contesti così peculiari? Chi è che di questi contesti è capace di padroneggiare i codici socio-culturali e manovrare i sistemi di relazioni, così da traslare una centrale eolica dalla fase progettuale a quella commerciale? I mediatori. O, come più circostanziatamente li definisce Ivano Scotti nel suo Vento Forte: eolico e professioni nella green (Orthotes Editrice, 2020), gli sviluppatori di impianti eolici. È grazie a essi che il settore eolico italiano si è sviluppato per come lo conosciamo oggi. Sono loro che parlano contemporaneamente la lingua delle aziende e quella delle comunità dell’Appennino meridionale. Sono loro che hanno giocato un ruolo imprescindibile nel “tradurre”, spiega Scotti con dovizia di riferimenti empirici, la porzione eolica della transizione energetica italiana in centrali vere e proprie, quelle che oggi affollano le aree interne del sud. E così facendo, i mediatori si sono ricavati una nicchia di profitto abbastanza sostanziosa, commerciando cioè l’accesso a una risorsa indispensabile: il territorio.
Scotti si muove in un ambito poco scandagliato, ma fondamentale, della letteratura sulla transizione energetica: quello che indaga i processi di radicamento della filiera eolica nei territori di produzione. E lo fa evitando il limitrofo, e fin troppo battuto, campo di studio dell’accettabilità sociale degli impianti. Si concentra sulle reti di relazioni, e gli attori focali che le manipolano, indispensabili alla transizione energetica e all’assetto consustanziale al mercato, ossia all’accumulazione perpetua di capitale, che le si è dato. È grazie alle abilità degli sviluppatori che una commistione di dispositivi tecnologici (le centrali eoliche) e discorsivi così avanzati (su tutti, la verità assiomatica per cui l’ambiente si salva profittandone), organizzati in filiere controllate da grandi capitali nazionali ed esteri, e normate da governi centrali e organizzazioni internazionali, sono stati tradotti, declinati, in contesti rurali lontani dai centri gestionali e produttivi del capitalismo contemporaneo.
Scotti riesce benissimo a spiegare l’intersezione – tanto per portare un esempio reale – tra le turbine del colosso danese Vestas e la loro installazione da parte della multinazionale tedesca E.On a Morcone, piccolo comune dell’appennino sannita. L’autore impiega un quadro teorico articolato, afferente al cosmo delle teorie sociologiche relazionali, ma fondato su due pilastri solidi e ben identificati. La costruzione di una centrale eolica viene, da un lato, concettualizzata come frazione modulare di un programma d’azione più ampio, quello della transizione energetica. Riprendendo, dopo averla liberata dalle accezioni ontologiche, la sociologia della traduzione di Michel Callon, l’autore inquadra l’azione degli sviluppatori dentro lo schema dell’Actor Network Theory. La loro azione diviene così una pratica connettiva indispensabile al coordinamento dei diversi interessi e attori in campo. Questa, mentre riesce a garantire la realizzazione delle centrali eoliche, traduce sui territori la transizione energetica. Scotti guarda poi al lavoro degli sviluppatori attraverso un approccio “pragmatico” allo studio delle professioni, come proposto da Julia Evetts e Lennart Svensson. Si interroga sulla combinazione di competenze che consente loro di svolgere le funzioni richieste. E qui le spiegazioni che offre sono illuminanti. In primo luogo, illustra come le aziende investitrici siano riuscite a standardizzare e internalizzare alcuni compiti svolti dagli sviluppatori. Grazie alla crescita parallela del mercato di master e corsi specializzati, le aziende hanno potuto attingere a un bacino esteso di professionisti, o green collars, affidando loro la gestione amministrativa della progettazione, delle autorizzazioni e dell’incentivazione. L’alto livello della formazione ha indotto Scotti a includere questo tipo di sviluppatori tra i lavoratori della conoscenza.
Tuttavia, tali competenze non riescono a soddisfare del tutto la domanda di mediazione e negoziazione, ovvero di traduzione, indispensabili all’allineamento di interessi di investitori, proprietari dei terreni e amministratori comunali. La conoscenza situata e posseduta dagli sviluppatori sin dalla fase iniziale appare insostituibile e non trasmissibile tramite formazione istituzionalizzata. Infatti, è disponibile solo a coloro che abitano i contesti socio-culturali che di essa sono oggetto. Lo sviluppatore si districa tra rapporti localizzati di potere tra classi e gruppi, o ancora usa efficacemente i codici culturali e relazionali dei territori, perché a questi è stato esposto tanto da esserne socializzato. Il più delle volte egli è nato e cresciuto nei territori di produzione. In altre parole, nello sfruttare questa conoscenza situata, gli sviluppatori semplicemente valorizzano porzioni della sfera riproduttiva che abitano, ovvero di relazioni socio-ecologiche in principio esterne ai meccanismi di accumulazione perpetua, realizzando profitto.
Vento Forte: eolico e professioni nella green economy aiuta a comprendere molto dell’eolico in Italia, perché ne studia uno degli attori più peculiari e rilevanti. La prima fase espansiva del settore, dalla fine degli anni Novante alla prima decade del nuovo mollennio, è spesso sovrapponibile alla storia personale di alcuni sviluppatori diventati incredibilmente ricchi. Tra gli altri, pensiamo a Oreste Vigorito. L’allora anonimo avvocato di Ercolano fondò nel 1997 assieme a Brian Caffyn, investitore in rinnovabili di peso globale, la Italian Vento Power Corporation (IVPC). L’operazione fu lanciata appositamente per accaparrarsi una parte delle sovvenzioni pubbliche che avrebbero finanziato per i successivi 15 anni i primi 691MW di potenza eolica della storia energetica del paese. Da allora la IPVC diverrà un player di primordine della filiera eolica italiana, e con essa Vigorito, il cui percorso ben presto intersecherà quello di un altro tycoon del vento, caduto poi in disgrazia: Vito Nicastri. Lo sviluppatore siciliano, espertissimo nel triangolare investitori, politici di vario rango e capitali armati (mafie), divenne famoso per aver subito la più grande confisca di beni per associazione mafiosa, ben 1.3 miliardi di euro, buona parte dei quali erano centrali eoliche. In una illuminante intercettazione telefonica, registrata nell’ambito di indagini intorno al suo impero di pale, dichiarava: “Il bello di vivere qua [è che] senti il territorio, lo percepisci, avverti che bisogna muoversi in un certo modo, capire le esigenze del sindaco, dei consiglieri, la festa, cinquemila euro sono minchiate, però tu ti fai un rapporto, crei un rapporto di…”. Quello che colpisce delle parole di Nicastri è la consapevolezza di quanto sia importante l’interpretazione e la gestione della rete di relazioni a livello territoriale, per la buona riuscita dell’investimento eolico.
Significa questo che il ruolo dello sviluppatore è destinato a essere incorporato dentro le dinamiche prevalenti del capitalismo italiano, inclusa la forte presenza di capitali armati? La lucidità teorica e analitica di Ivano Scotti suggerisce una risposta originale e stimolante, che include il ruolo fondamentale delle comunità e municipalità, aprendo, come si addice alle opere fertili, spazi per ricerca nuova.
Questo articolo è stato pubblicato su Le parole e le cose il 6 dicembre 2020