“El Diez”. Un dio ma non un santo

di Maurizio Matteuzzi /
3 Dicembre 2020 /

Condividi su

«Tu che ne sai di Buenos Aires?»
«Maradona, desaparecidos, tango..»

Così, con queste tre parole, risponde Pepe Carvalho, il celebre investigatore inventato dal compianto Manuel Vázquez Montalbán in uno dei suoi libri, Quintetto di Buenos Aires del 1997.

Diego Maradona, el Diez, il numero 10 più grande di sempre (sì, anche di o Rey Pelé), el D10s, “la mano sinistra di Dio” – e forse anche il suo piede sinistro per le impossibili magie con cui ci ha fatto sognare – è morto a sessant’anni appena compiuti il 25 novembre al Tigre, sobborgo ricco di Buenos Aires, “portandosi via per sempre il fútbol” come ha scritto un po’ enfatico ma efficace il Clarín, il pessimo giornale dell’antiperonismo viscerale e dell’establishment ortodosso che lui, organicamente peronista, detestava. 

Non solo il fútbol. Diego è stato molto più che il fútbol.

Forse (forse) prima o poi riapparirà su un campo di calcio, magari in Africa, un altro fuoriclasse al suo livello, ma il suo mito non potrà mai essere scalfito perché lui, Diego Armando Maradona, el Pibe de Oro cresciuto nell’orrore dello slum bonaerense di Villa Fiorita (un barrio privado, come ricordava con rabbiosa ironia: “privato di luce, acqua, telefono e gas”) è ormai ineluttabilmente nel pantheon degli eroi dell’Argentina. Come Evita Perón, come il Che Guevara, come Carlos Gardel, tutti morti giovani (perché a sessant’anni oggi si è ancora giovani), tutti, in un modo o nell’altro, sconfitti. L’antieroe argentino che si è fatto eroe nonostante tutto, nonostante le sue cadute e contraddizioni, che sono state tante e, alcune, così pesanti da perderlo. 

Come disse di lui Eduardo Galeano: «Maradona è diventato una specie di Dio sporco, il più umano degli dei. Un Dio sporco che ci assomiglia: donnaiolo, sboccato, ubriacone, irresponsabile, bugiardo, fanfarone […] la fama che l’aveva salvato dalla miseria lo fece prigioniero». E giocando con le parole come solo il grande scrittore uruguayano sapeva fare, concludeva che “la exitoina è una droga molto più devastante della cocaina” (in spagnolo éxito vuol dire successo).

Non solo il fútbol e non solo l’Argentina. Maradona con la sua personalità “indomita e plebea” è stato, piaccia o non piaccia (e a noi piace), anche un simbolo per l’America latina e per gli ultimi della terra, contro l’arroganza dei potenti e la protervia “dell’imperialismo”.

Di sé disse, rivendicò e praticò, in un mondo asettico, imbalsamato e ipocrita come quello del calcio, di essere “completamente mancino” (zurdo), “con il piede, con la mano, con la testa e con il cuore”. 

Cuba, dove andò nel 2000 per la prima delle tante cure di disintossicazione divenne (con Napoli) la sua seconda patria. All’Avana si riprese e seminò alcuni dei tanti figli che si è lasciato dietro. E Fidel divenne come un secondo padre. Per uno strano gioco del destino, Diego è morto lo stesso giorno, il 25 novembre, quattro anno dopo il líder máximo

Cuba e l’America latina. Quando nell’86, nello stadio Azteca di Città del Messico, la guerra persa con l’Inghilterra della Thatcher per la Falkland-Malvine era dell’82, fece “quel gol divino” e truffaldino con la mano sinistra (“per metà era di Maradona, per metà di Dio” disse poi sfrontatamente), tutti gli argentini e i latino-americani.

«Lo spingemmo in alto perché arrivasse a prendere quella palla: Diego era tutti noi e ha continuato a essere noi fino alla fine». Come scrisse qualcuno.

Il grande poeta uruguayano Mario Benedetti si spinse oltre: quel gol fu “l’unica prova convincente dell’esistenza di Dio”.

Diego ha smesso di giocare nel 1997, a 37 anni, in un derby fra il suo Boca Junior e gli odiati rivali del River Plate, ma il suo mito e il suo impegno per le cause “mancine” dell’Argentina, dell’America latina e dell’umanità non si fermarono lì allo stadio Monumental di Buenos Aires, come le sue cadute e ricadute. Gli argentini Néstor e Cristina Kirchner, il venezuelano Chávez, il boliviano Morales, il brasiliano Lula, l’uruguayano Mujica, l’ecuadoriano Correa: Diego c’era sempre. C’era anche nel 2005 sul treno che andò da Buenos Aires a Mar del Plata per dire no a George Bush (“immondizia dell’umanità” lo definì) e al trattato di libero commercio imposto dagli USA, l’ALCA. C’era quando portò palloni e magliette ai bambini di Soweto. C’era quando abbracciare Hebe Bonafini e le madri di Piazza di Maggio (che lo adoravano) non era ancora doveroso. Quando si trattava di sostenere la causa della Palestina e sperava di poter fare il ct della nazionale palestinese. C’era quando si trattò di dire che il papa polacco Wojtyla non gli piaceva per niente (al contrario di Francesco, nonostante fosse tifoso del San Lorenzo de Almagro), di protestare per i golpe, truccati da rivolte democratiche, di cui erano stati vittima Lula e Dilma in Brasile e Evo in Bolivia. C’era. 

Ora “l’immortale è morto”. Di lui il grande Osvaldo Soriano disse:

È una benedizione di Dio aver visto il giocatore e ricevere l’eroe nel cielo degli uomini. Sarà, suppongo, come essere stati in prima fila ad ascoltare Gardel.

E il cileno Luis Sepúlveda sintetizzò: “Diego è un miracolo”.

Visto cosa è stato in vita è inevitabile che anche in morte su di lui si scateni la polemica. Il 25 novembre non era solo il giorno della sua morte e di quella di Fidel: era anche il giorno contro la violenza sulle donne e ci sono state le proteste (legittime) per le glorificazione di un uomo che fra le altre cadute sembra si porti dietro anche quella di aver maltrattato qualcuna delle numerose donne della sua vita. “Il simbolo del patriarcato e del peggior machismo sudamericano”. Inevitabile che si sia già aperta la caccia all’eredità, materiale e simbolica, nella corte e nel seguito che lo circondava, nell’harem e nello stuolo di figli riconosciuti e non riconosciuti (per ora il totale dovrebbe portare a undici anche se pare ce ne siano altri in stand-by che chiedono la sua riesumazione per poter fare il dna). Inevitabile che siano già partite le diatribe anche giudiziarie fra e sui medici che l’avevano operato al cervello e l’avevano seguito nella convalescenza. Strascichi inevitabili e penosi.

El Diez era un dio ma non un santo. Una volta disse al regista Emir Kosturica: “Io non ho mai voluto essere un esempio di niente. Ho sempre pagato per quello che ho fatto”. Adesso il conto, quello definitivo, è stato saldato.

Dopo la sua morte, sull’onda emotiva, qualcuno ha scritto di lui: “Diego es la victoria de los pueblos”. Forse così è troppo ma di certo Diego è stata l’allegria dei popoli, come, molto più di Pelé, fu solo Garrincha, “a alegria do povo”, la mitica ala destra brasiliana anche lui angelo e demone, anche lui morto giovane. 

Maradona ha lasciato la vita ed è entrato nel mito. Non solo nel pantheon argentino con Evita, il Che e Gardel, ma nell’Olimpo degli idoli caduti e delle icone universali. Come Lennon, come Marilyn, come l’immenso Muhammad Alì.

Diego per sempre.

Questo articolo è stato pubblicto su Ytali il 2 dicembre 2020

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati