Perché la mafia c’è soltanto a Napoli e non a Londra e Parigi

di Isaia Sales /
21 Novembre 2020 /

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Parigi aveva all’inizio dell’Ottocento più di mezzo milione di abitanti che diventeranno un milione all’inizio del secondo impero. E passerà a 3.500.000 nel 1914. Londra ne aveva quasi un milione nel 1801, che diventeranno due a metà secolo e 4 milioni all’inizio del Novecento. Napoli con i suoi 400.000 abitanti era la terza città europea per popolazione. Ma era stata anche la prima nei secoli precedenti. L’Italia possedeva una sola grande città (prima e dopo la sua unificazione) Napoli appunto, mentre Milano, Roma, Firenze e Torino non si avvicinavano neanche lontanamente al numero degli abitanti della capitale del Regno delle Due Sicilie. Roma e Milano diventeranno la prima e la seconda città italiana per abitanti solo tra il 1931 e il 1936. Napoli, dunque, è sempre stata, dal basso Medioevo alla contemporaneità, una delle maggiori metropoli europee, e la sovrappopolazione una delle sue caratteristiche plurisecolari così come una irriducibile presenza di ceti sottoproletari insediati nei vicoli e nei quartieri centrali della città. Scrive John Dickie: “Negli anni Cinquanta dell’Ottocento viveva nel capoluogo partenopeo poco meno di mezzo milione di persone, cifra che faceva della capitale del Regno delle Due Sicilie la più grande città italiana. Con la densità abitativa più alta d’Europa. Napoli ammassava più miseria per metro quadrato di qualsiasi altro centro urbano del continente. Ogni grotta, ogni cantina, ogni recesso e ogni vano aveva i suoi laceri ed emaciati abitanti. Negli anni quaranta dell’Ottocento quasi il 30% dei neonati della città moriva prima di compiere un anno di vita. Nei quattro quartieri della “città bassa” l’aspettativa di vita non superava i venticinque anni. Ma a differenza di Londra, Napoli non nascondeva i suoi poveri.”

Il ruolo di capitali di grandi imperi coloniali trasformerà socialmente e urbanisticamente Parigi e Londra. Si assisterà al passaggio dalla plebe al proletariato urbano con il consolidarsi dell’industrializzazione, a un artigianato di qualità e al formarsi di una piccola borghesia dei commerci e delle professioni. A Napoli questo passaggio non avverrà compiutamente e la continuità storica sarà data, appunto, dalla mancata trasformazione della plebe. E’ “la dinamica della permanenza” che va indagata nella storia partenopea. In particolare l’esistenza di una fascia sociale troppo ampia di marginali e sottoproletari; un numero troppo elevato di opportunità illegali e criminali. Settori ampi della società marginale e violenta hanno trovato altre strade per realizzarsi. Strade quasi tutte illegali e per la maggior parte criminali. E’ un paradosso inaccettabile che la criminalità possa offrire identità e possibilità di riuscita sociale più delle istituzioni statuali e del mercato legale. Di questo paradosso Napoli sarà sempre, fino ai giorni nostri, una permanente dimostrazione.

E’ proprio nel corso dell’Ottocento che via via si accentueranno le distanze tra Parigi, Londra e Napoli: in particolare, ci sarà uno sventramento dei quartieri più malfamati di Parigi (a Napoli ciò avverrà a distanza di quasi 30 anni dallo straordinario ridisegno urbanistico del barone Haussmann, ma con esiti del tutto diversi). A Londra ciò avverrà ancora prima, a partire dal ridisegno della città gotica (distrutta dal grande incendio del 1666 ) da parte del genio urbanistico di Cristopher Wren. Si verificherà, dunque, un graduale allontanamento dei ceti più miseri dai centri storici, che conosceranno un allentamento della miseria e un avvicinamento graduale a standard minimi di benessere; di pari passo avverrà un ridimensionamento del ruolo della malavita. Le attività delinquenziali non si trasformeranno in una stabile organizzazione della violenza come potere del sottoproletariato urbano.

Londra si presenterà splendente all’esposizione mondiale del 1851 e Parigi allo stesso modo all’esposizione del 1889 (quella della costruzione della Tour Eiffel); a Napoli nel 1884 c’era stato il colera con più di 7000 morti, e nel 1872 erano stati censiti ben 10.000 accattoni, per i quali il carcere rappresentava almeno un ricovero sicuro e la possibilità di un pasto.

Tutte e tre le affollatissime metropoli ottocentesche hanno avuto dei grandi scrittori che le hanno rese protagoniste assolute delle loro opere fornendoci una fotografia sociale impressionante, così veritiera da poter considerare i loro romanzi come dei veri e propri documenti storici: Balzac, Sue, Hugo e Zola per Parigi, Dickens, Hardy e prima Defoe per Londra, Mastriani, Serao, Russo e Di Giacomo per Napoli, tutti straordinari scrittori dei mali metropolitani, anche se con risultati artistici indubbiamente diversi.

Nella descrizione che i romanzieri fanno della vita dei ceti popolari al centro delle tre città (tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento) le condizioni di miseria sembrano quasi identiche: le strade fetide, le case squallide, il sovraffollamento e la fame imperanti, lo stato dell’igiene animalesco, altissima la mortalità infantile, pervasivo il ruolo della malavita e vasto il reclutamento in attività illegali di minori senza famiglia, impressionante il numero di mendicanti e di ladri di strada.

Eugene Sue in I misteri di Parigi del 1842 descrive dettagliatamente i quartieri frequentati da prostitute, malfattori e vagabondi: “La Cité è un labirinto di vie oscure, strette, tortuose che va dal palazzo di Giustizia fino a Notre-Dame. Il quartiere del palazzo di Giustizia, assai circoscritto, alquanto sorvegliato, serve nondimeno da asilo e da luogo d’appuntamento per i malfattori di Parigi. Le case color fango avevano rade finestre con gli infissi tarlati e quasi senza vetri. Androni neri, infetti, conducevano a scale ancora più nere, più infette.”

Victor Hugo ne I miserabili paragona chi vive nelle squallide case dei quartieri popolari di Parigi agli antri delle foreste: “Le città al pari delle foreste, hanno antri in cui si nasconde tutto ciò che esse hanno di più cattivo e di più terribile. Solo che, nella città, ciò che si nasconde così è feroce, immondo e misero, cioè brutto; nelle foreste, ciò che si nasconde è feroce, selvaggio e grande, cioè bello. Tana per tana, quella delle bestie è preferibile a quella degli uomini. Le caverne sono meglio dei tuguri.”

E Charles Dickens così raffigura un quartiere di Londra in Oliver Twist: «In vita sua non aveva mai veduto un luogo più sudicio e più miserabile. La viuzza era molto stretta e fangosa, e odori nauseabondi impregnavano l’aria. Passaggi a volta, che si diramavano qua e là nella viuzza, e cortiletti rivelavano catapecchie ove uomini e donne, tutti ubriachi, sguazzavano letteralmente nella sporcizia, e da molte porte uscivano, guardinghi, individui dalla faccia patibolare che, stando a tutte le apparenze, si accingevano a imprese disoneste. Londra è per lo scrittore “una città piena di problemi sanitari, inquinata all’inverosimile dai fumi delle fabbriche, piena di escrementi di animali nelle strade, di sporcizia, di criminalità, di uomini, donne e bambini ubriachi, di mendicanti, di ammalati”.

Ed ecco cosa scrive in La Malavita Francesco Mastriani: “Era colà un immondo covile o basso, saturo di carbonio prodotto dalla putrefazione delle materie animali quivi ammucchiate ad onore e gloria della civiltà del paese. In quel covile ci abitava un individuo della specie umana. Veramente non si può dire che questo individuo ci abitasse, perché vi si cacciava entro soltanto per dormirci, e il suo sonno era allettato da una musica composta di strumenti non trovati ancora nella fervida immaginazione artistica dell’autore del Lohengrin. I musicanti erano ratti, topi, piattole, e altri notturni filarmonici della famiglia dei roditori. Cinque o sei persone vivono insieme in cinque palme di fabbricato: l’aria è supposta, la luce è un lusso, che la miseria non si permette.”

Ma mentre la situazione delle classi sottoproletarie descritte da Mastriani si protrarrà ben oltre l’Ottocento, nelle altre due metropoli interverranno decisive trasformazioni urbanistiche, sociali ed economiche già nella seconda metà del secolo.

Non sono infatti paragonabili le misure di contrasto alla miseria adottate a Londra e quelle (non) adottate a Napoli, di cui scriverà la giornalista inglese Jessie White Mario, nel suo libro La miseria a Napoli del 1877. A Londra sono evidenti i miglioramenti delle condizioni dei poveri. Durante l’epoca vittoriana vengono varate numerose leggi per proteggere i bambini e combattere il lavoro minorile. Migliorano enormemente le condizioni igieniche con la chiusura di 300.000 pozzi neri, mentre a Napoli all’epoca non c’era ancora acqua potabile. E la mortalità infantile è incomparabile tra le due città. Dello stesso parere è Pasquale Villari che per primo dopo l’Unità d’Italia aveva messo l’accento sulle condizioni subumane di una parte della popolazione napoletana. Egli, che ha visitato anche Londra, così sintetizza il confronto: “I poveri di Napoli stanno infinitamente, senza paragone alcuno, peggio di quelli di Londra. Che se a Londra qualche volta si muore di fame e di freddo ed a Napoli no, oltre che questi casi non sono sì frequenti come si pretende, ciò dipende dal clima peggiore, non dalla maggiore miseria. Se a Napoli ci fosse il clima di Londra, un numero assai grande dei nostri poveri troverebbe subito pace nella tomba, cessando di menare una vita peggiore della morte”. Ed è evidente che le condizioni del clima a Napoli e la possibilità di sfamarsi con pochi soldi incidono sulla possibilità di difendersi meglio dal freddo e dalla fame. L’invenzione dei maccheroni prima (e della pizza poi) offre ai poveri la possibilità di calorie a bassissimo costo.

E proprio per il protrarsi di condizioni igieniche disastrose, Napoli sarà l’unica grande città europea colpita dal colera per tutto l’Ottocento (per la prima volta nel 1836 con 18.000 morti, poi nel 1884 e nel 1892) e anche nel Novecento (nel 1910, e l’ultima volta addirittura nel 1973) mentre a Londra non si presenterà più dopo le il 1833 e il 1854. Così come a Parigi non ci saranno più epidemie legate alle condizioni igieniche dopo il 1870. Il medico norvegese Alex Munthe parlò del colera a Napoli del 1884 nel libro Lettere da una città dolente descrivendo una miseria e una sporcizia “senza pari”, arrivando a dire che “il bambino povero sta meglio nella tomba che nella vita”.

Nonostante queste comuni condizioni di disagio e di emarginazione urbana, come mai non si formerà una criminalità organizzata di tipo mafioso a Londra e Parigi, mentre a Napoli sì? Il crimine a Londra e a Parigi resterà confinato ad una condizione di esclusione sociale, a Napoli invece sarà un elemento di promozione.

Perché un diverso esito tra le tre metropoli ottocentesche? Innanzitutto c’è da considerare il fatto che nelle galere borboniche i detenuti politici e gli oppositori del regime erano reclusi negli stessi stanzoni dei delinquenti comuni. In carcere la violenza plebea e quella politica si incontrarono e si influenzarono. E’ impressionante constatare come lo statuto della camorra del 1842 sia simile, a volte quasi una copia, delle regole della massoneria e delle sette carbonare dell’epoca. I delinquenti del popolo si rendono conto che se la violenza è “nobilitata”, cioè se usata per realizzare “ideali” generosi e altruistici, perde il suo carattere respingente. E così i mafiosi e i camorristi si auto-rappresentano come riparatori di torti, come coloro che tolgono ai ricchi per dare ai poveri o con altre narrazioni dello stesso tipo.

Dunque, la concomitante presenza di sette politiche che prevedono anche l’uso della forza (se necessaria contro i rappresentanti del potere assolutistico) conferisce alla violenza sottoproletaria una legittimazione che prima essa non aveva. La camorra a Napoli si organizzerà sul modello delle classi dirigenti “sediziose”, e farà uso dei riti di iniziazioni copiati da quelli massonici e carbonari. Il carcere comune sarà il luogo di questa particolare elaborazione della violenza legittimata “per nobili finalità”. Chi entra nella camorra, comincia a far parte di un club di “uomini d’onore” e non di una associazione di tagliaborse.

Perciò la camorra prenderà le distanze dalle forme violente più predatorie e più “vergognose” come il mendicare, e comincerà ad usare un’altra modalità di richiesta, cioè l’estorsione, che è una forma delinquenziale radicalmente diversa da quella del furto, della rapina, dello scippo e di altri reati delle “classi pericolose”. In campagna esisteva il sequestro di persona o il furto di animali per estorcere denaro, azioni criminali che obbligassero a uno scambio tra soldi e incolumità di un parente o del bestiame. L’estorsione è un’attività superiore al sequestro di persona o all’abigeato, perché fa ottenere delle risorse dalla vittima senza sequestrarne un familiare o un suo bene. Ma essa funziona se c’è un insieme di criminali che l’organizzano, che hanno fama di violenti, che possono vendicarsi qualora uno di essi viene denunciato, cioè deve avere alle spalle un’organizzazione.

L’estorsione è il prezzo della violenza che viene risparmiata a chi paga, è una tassa sulla forza non esercitata. E ogni tassazione è sempre un riconoscimento di un potere: chi paga il pizzo riconosce il potere della setta criminale che l’esercita. Il furto e l’elemosina, invece, esprimono il bisogno derivante dalla miseria, mentre l’estorsione è già un’attività di chi è uscito dalla miseria e di chi non ha bisogno di rubare per vivere.

Nelle grandi città il mendicante era quasi sempre un basista di furti e forniva notizie utilissime ai ladri. La malavita delle grandi città era legata a queste attività predatorie e di questua che non davano potere stabile (dipendevano dalla generosità delle persone o dalle occasioni per furti) mentre l’estorsione cominciava a dare continuità di potere in quanto prelievo periodico sul benessere o sulle attività altrui. Ogni forma criminale che rimane legata al furto o alla gestione dell’accattonaggio non è mai in grado di evolversi e di durare nel tempo.

Dunque, la criminalità urbana napoletana avrà un diverso esito per due motivi: il primo è dovuto al fatto che per i sottoproletari parigini o londinesi si presenteranno più opportunità di uscita dalla miseria con mezzi e lavori leciti; il secondo è dovuto al fatto che a Londra e a Parigi la criminalità non si emanciperà dal furto, dall’accattonaggio e dalla protezione di attività che non danno prestigio, rispetto e potere stabile, quali la prostituzione e il gioco d’azzardo.

L’estorsione, invece, è un’evoluzione dei reati predatori: è una vera e propria tassa sul potere della violenza. Ma è anche un netto superamento del bisogno che spinge all’elemosina o all’accattonaggio: chi è in grado di pretendere dei soldi non è l’ultimo della società ma qualcuno che tramite la violenza è in grado di farsi pagare senza stendere la mano. E’ una tassazione, non una elargizione. Una forma di statualità plebea. Chi paga riconosce e legittima il potere di chi richiede.

Il riassorbimento del sovraffollamento plebeo e la limitazione della criminalità urbana da accattonaggio è una delle particolarità della formazione della Parigi e della Londra moderne all’interno delle loro funzioni di capitali di nazioni industrializzate e di vasti imperi coloniali. A Napoli ciò non è avvenuto, il riassorbimento non c’è stato; così essa resta l’unica metropoli tra quelle che hanno contribuito a formare la storia e la cultura europee a trascinarsi dietro il peso di una criminalità urbana da sottoproletariato che con diversa intensità, ruolo e pericolosità ha accompagnato stabilmente le varie tappe della sua trasformazione urbana e sociale.

Questo articolo è stato pubblicato su Domani il 19 novembre 2020

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