«Scartare», la rassegna teatrale del gruppo Laminarie

di Silvia Napoli /
19 Novembre 2020 /

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Sono necessari senso della scommessa, umorismo, visionarietà e peculiare padronanza dei linguaggi per intitolare una rassegna teatrale ma non solo, possiamo dire una programmazione pubblica e di comunità, con il termine “Scartare”. Che può voler dire selezionare per mettere da parte, scartare come quando si toglie un involucro, ma si può anche intendere come il linguaggio di chi posa la pietra angolare o cerca percorsi alternativi al binario già tracciato.

I termini sopracitati si attagliano perfettamente alla compagnia teatrale Laminarie e alla sua concezione dello spazio urbano che contribuisce operosamente a modellare da lustri, con la messa in campo di molteplici progetti, concepiti in rigorosa autonomia ma assolutamente linkati alle caratteristiche e peculiarità che sa esprimere il quartiere Pilastro, sede della Cupola teatrale

Laminarie si colloca dunque in modo peculiare, in un luogo peculiare, dotato forse di una sua teatralità intrinseca, se pensiamo alla recente grottesca vicenda di qualche mese or sono, dell’assalto ai campanelli condominiali da parte di un noto esponente politico, peraltro rintuzzato alla grandissima dalla partecipazione popolare. Di ciò andiamo a parlare con Bruna Gambarelli, mente e cuore pulsante della compagine Laminarie.

Ci aggiriamo intanto per gli spazi di Dom, sorta di astronave topica al centro di una magnifica ossessione periferica, in modo del tutto virtuale, come neppure la più distopica delle fantasie ci avrebbe mai fatto immaginare, a pochi giorni dal vernissage della mostra fotografica Cartoline da un luogo memorabile.

La storia appena cominciata sembra già finita, mentre si scaldavano i motori della tranche programmatica che avrebbe dovuto traghettarci secondo una scelta condivisa da tutti i teatri cittadini, fino a dicembre.

Questa ultimo lockdown culturale è calato come una mannaia su una realtà che non gode i riconoscimenti di livello nazionale ministeriale di altre e non viene ufficialmente riconosciuto come residenza, pur avendone molte caratteristiche: un luogo dunque del tutto vulnerabile soprattutto nelle fasi produttive e in quelle pedagogiche che risultano essere particolarmente identitarie in un contesto antropologico e sociale come il Pilastro

La mostra era stata preceduta in estate da un lavoro capillare sulla spedizione di queste foto –memorabilia del quartiere dagli anni 60 ai giorni nostri a tutti gli abitanti in formato, appunto, cartolina e dall’affissione in centro di grandi pannelli manifesto dedicati alle immagini del Pilastro medesimo. Il tutto accompagnato dall’inaugurazione di un giardino fiorito nell’area semiboschiva che circonda la cupola e di un’aula didattica laboratoriale per gli alunni delle scuole Romagnoli.

Mentre Bruna mi aiuta a visualizzare mentalmente una foto di un’aula scolastica pilastrina della metà dei settanta, accoppiata all’immagine che ben rammento dei bimbi sui banchi al buio nell’azione collettiva condotta da Panajota Kallimani nell’estate di due anni fa, le chiedo come e dove si sia formata questa sorta di collezione storiografico-memorialista.

Il nostro archivio di comunità si è andato costruendo con il contributo di tutti i cittadini che scovavano in casa delle memorie e volevano condividerle con noi, in parte con il contributo dell’archivio urbano fotografico della Cineteca, con cui abbiamo instaurate da tempo ottime relazioni.

Gambarelli racconta che sono mille volte risorti dalle loro ceneri, sono riusciti lei e Febo a risollevarsi sempre, sfruttando al meglio anche tutti gli spazi a disposizione per inventare e reinventarsi credendo furiosamente in una divinità dell’urbanistica. Una divinità capricciosa che dovrà pure risiedere da qualche parte, anche se non traspare dalle foto dei progetti di edilizia popolare che prima leggono il Pilastro come una scimmiottatura della selva di torri medievali di cui si racconta storicamente e, in seguito, cassato quel progetto, come una sorta di Scampia per fortuna riveduta e corretta dalla presenza dei servizi essenziali. Anche fare cinema e poesia e pittura può essere un modo di fare teatro per noi. Anche fare cinema e poesia e pittura come sai, può essere un modo di fare teatro per noi. Si tratta del famoso Ampio Raggio che ben conosci, un modo prospettico di guardare alle cose che ci consente di stare a galla sempre senza puramente sopravvivere, ma diversificandoci e innovando persino. Con molta ironia e autoironia

Nelle foto c’è tutta la storia di una lotta per la bellezza e dignità di vivere in un luogo. Quindi le prime lotte per il comfort dei servizi nelle abitazioni, poi occupazioni di case che vedono impegnati ben 28 mezzi di forze dell’ordine che neanche Tien AN MEN: le foto scorrono accoppiate tra uno ieri e un oggi che in parte si va ancora scrivendo. È un quartiere anche giovane e dunque ci vorrebbe un lavoro di lunga lena. Ci sono molti fotografi, urbanisti, documentaristi che sono venuti qui e di questo ci dà conto l’archiviazione preziosa della Cineteca di Bologna.

La sensazione è che stavolta manchino un po’ a tutti le parole. Dopo l’inaugurazione della mostra di foto, anche negli appuntamenti immediatamente successivi, cioè l’inaugurazione del giardino o meglio la messa a dimora di un sacco di piantine, il pomeriggio dedicato a Rodari con Iacobelli e Locane, abbiamo rivisto una gran parte di tutti gli amici del Quartiere, ansiosi di partecipare, di fare propria l’aula all’aperto costruita da Febo che si chiama Aleph, di riprendere le fila di una esperienza bruscamente interrotta.

Tuttavia, il silenzio in qualche modo era palpabile. Sono contesti che hanno bisogno di attenzione e delicatezza, come appunto quando cresci qualcuno e non è un caso che la nostra conferenza stampa sia stata realizzata sinergicamente al distretto scolastico, ma l’incertezza del futuro pesa come un macigno.

Ora come ora, al di là della consapevolezza della nostra resilienza che ci ha fatto risollevare da qualsiasi rovescio, possiamo solo attendere, essendo fuori da qualsiasi sistema di tutela. Noi ci siamo e non molliamo di sicuro, forti anche delle belle collaborazioni con l’Università, l’Istituto Gramsci, la Cineteca e del ruolo coesivo che abbiamo grazie appunto alla nostra concezione artistica ad ampio raggio però una cosa è un DPCM che poi si conclude e altro se questa situazione continua a lungo.

Allo stato attuale delle cose possiamo ricalibrare molte programmazioni, non certo il concerto di una stella come il pianista Romanovskj, naturalmente e, diversamente, non sappiamo proprio anticipare quali potrebbero essere le soluzioni, nella difficoltà di tutto un settore, quello dello spettacolo che non viene mai compreso e considerato nelle sue peculiarità ed enormi differenze settoriali. E nello stesso tempo la situazione richiederebbe di avere uno sguardo complessivo che tenga conto di tutti i collegamenti e le implicazioni con l’insieme delle componenti e criticità sociali.

In qualche modo noi continuiamo a sentirci un avamposto, anche se finalmente di periferie si parla, perciò come tutte le volte in qualche modo la recinzione del terreno su cui sorge la cupola ha segnalato al circostante la nostra difficoltà e l’altrui solidarietà, tramite bigliettini e memorabilia ad essa attaccati dalla cittadinanza, stavolta siamo noi a segnalare la necessità dei teatri intesi come spazio di incontro fisico tramite frasi di Jouvet icasticamente appese. È chiaro cioè, che il progetto Dom è, vive in tutte le sue articolazioni editoriali, digitali, pedagogiche e documentali comunque, come del resto ha fatto in tutti questi mesi, ma che ineludibile è il nodo della condivisione materiale in tempo reale di azioni pubbliche.

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